Una cupola per depistare le indagini contro l'Eni
L'ad Descalzi imputato per corruzione internazionale. Mantovani, ex dirigente dell'ufficio legale, accusato di essere capo di una associazione a delinquere che diffondeva calunnie
L’ex capo dell’ufficio legale dell’Eni, Massimo Mantovani, è il capo di un'associazione a delinquere finalizzata a diffondere false informazioni e calunnie per depistare e condizionare pesantemente l’inchiesta sulla maxitangente da 1,1 miliardi di euro che Eni, secondo le indagini della procura di Milano, ha pagato a politici, funzionari e dirigenti nigeriani per ottenere lo sfruttamento del giacimento petrolifero Opl 245 e in parte incassata anche da politici e dirigenti italiani attraverso il classico sistema dei fondi neri rientrati in Italia con la mediazione dell'onnipresente faccendiere piduista Luigi Bisignani, già travolto dagli scandali di Mani Pulite e dalle varie inchieste sulla P3 e P4.
Con questa accusa il 6 febbraio il procuratore aggiunto di Milano Laura Pedio ha disposto la perquisizione della sua abitazione e del suo studio.
“Appare evidente – scrive fra l'altro Pedio nei mandati di arresto e perquisizione a carico della cupola del depistaggio - che le attività illecite non possano che essersi svolte con il coinvolgimento del manager di Eni Spa che avrebbe dato le indicazioni necessarie all'avvocato Amara per l'organizzazione dell'attività di depistaggio descritta e che tale manager debba plausibilmente individuarsi nella persona di Mantovani”.
Il complotto giudiziario ordito da Mantovani e dalla sua banda di magistrati e avvocati corrotti aveva come scopo l'inquinamento delle indagini sulla corruzione internazionale che il 5 marzo prossimo a Milano vedrà alla sbarra il gran capo di Eni, Claudio Descalzi (nominato nel 2014 da Matteo Renzi e confermato nel 2017 da Paolo Gentiloni) il suo predecessore Paolo Scaroni e altre 11 persone tra cui lo stesso Bisignani tutte accusate di corruzione internazionale.
Nella stessa giornata la Guardia di Finanza su ordine della procura di Messina ha arrestato il Pubblico ministero di Siracusa, Giancarlo Longo, accusato insieme all'avvocato degli affari sporchi Eni, Piero Amara, e all'imprenditore Ferraro, di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione.
Longo secondo la procura ha incassato 88mila euro più un viaggio a Dubai con la famiglia tutto spesato, per istruire un fascicolo nel quale l’ad di Eni, Claudio Descalzi, imputato a Milano per la maxi-tangente, figurava come vittima di un complotto ordito da due consiglieri del colosso petrolifero, Luigi Zingales e Katrina Litvak, che tra l'altro Longo iscrive in modo illecito nel registro degli indagati. Infatti il Pm di Siracusa agiva con una “precisa regia e consapevolezza di utilizzare l’azione giudiziaria per fini illeciti” tanto da poter parlare di un vero e proprio “metodo Longo” che secondo l'accusa era di tre tipi: creava fascicoli “specchio”, che si auto-assegnava, per giustificare la visione dei fascicoli su cui lavoravano altri colleghi e ottenere così notizie che potevano interessare i suoi amici avvocati, Amara e Giuseppe Calafiore. C’erano poi i fascicoli “minaccia” nei quali iscriveva soggetti ostili agli interessi di alcuni clienti di Calafiore. Infine confezionava fascicoli “sponda” per poter “conferire consulenze utili agli interessi dei clienti di Calafiore e Amara”.
Il Pm Longo, scrive il Gip di Messina, Maria Ventriglio, si auto-assegnava un procedimento a carico di ignoti per il surreale sequestro denunciato da Alessandro Ferraro. Poi faceva confluire nel fascicolo un verbale di sommarie informazioni rese dal tecnico petrolifero Massimo Gaboardi che, però, era secondo l’accusa un inquietante falso, visto che era stato redatto direttamente, in forma di domande e risposte, dal solito avvocato Calafiore. Quindi iscriveva tra gli indagati Gaboardi, il dirigente Eni Umberto Vergine, i consiglieri Karina Litvak e Luigi Zingales. “Il tutto – scrive il Gip – al fine di precostituire e introdurre elementi indiziari idonei a sviare le indagini svolte dalla Procura di Milano” sulla tangente nigeriana.
È “inquietante”, conclude il Gip, “il dato che gli accertamenti” effettuati da Longo “si muovano su iniziativa di soggetti non deputati istituzionalmente alle indagini”. È “allarmante la disinibita gestione dei fascicoli” del Pm che “ha proceduto all’audizione di informatori, senza l’ausilio di segretari o polizia giudiziaria, ma ha addirittura formato falsi verbali”.
Un complotto investigativo su cui aleggiava l'inquietante l'ombra del cosiddetto “Giglio magico” renziano. Infatti nel 2016 fu proprio la procura di Siracusa, dopo aver sentito l'imprenditore Andrea Bacci (socio di Amara e soprattutto finanziatore della fondazione Big Bang e nominato da Renzi amministratore di diverse partecipate fiorentine) a chiedere di ascoltare anche l'ex sottosegretario e ministro dello Sport Luca Lotti e il fedelissimo Marco Carrai.
Allo stesso modo è significativo notare come tra i tanti avvocati schierati a difesa degli “interessi Eni” in Nord Africa e dei suoi dirigenti corrotti si sia schierato anche Luigi Di Maio che proprio il 6 febbraio, mentre i vertici della cupola del depistaggio venivano ammanettati, alla Link University dove esponeva il programma di politica estera dei Cinquestelle, ha fra l'altro dichiarato: “l'Eni che è una nostra azienda, è dal 1959 lì, e per questo la Libia costituisce un interesse geostrategico per noi rilevante... credo che la funzione dell'Italia nel cercare di stabilizzare quell'area è importante. È chiaro anche che quell'area oggi è alla mercé degli interessi di tanti Paesi, confinanti o meno, che approfittano del caos per provare a mettere bandierine”.
31 luglio 2018