Governo e sindacati sulla stessa linea
Accordo sull'Ilva: 3mila esuberi e un piano ambientale insufficiente
Contestata a Taranto una parlamentare del M5S
Al referendum il Sì ottiene il 59% non il 93% come sbandierato. I nodi restano irrisolti
L'Ilva andava nazionalizzata
Ci sono voluti 6 anni per delineare il futuro delle acciaierie Ilva. Un futuro, è bene dirlo subito, che lascia irrisolti i due nodi principali: i livelli occupazionali e la salvaguardia della salute dei lavoratori e della popolazione di Taranto. Era il 2012 quando l'impianto della città pugliese veniva sequestrato dalla magistratura per disastro ambientale e si attuavano i primi provvedimenti, compresi gli arresti, verso i membri della famiglia Riva, i proprietari che avevano ereditato dallo Stato (tramite l'Iri) la fabbrica riempendosi le tasche e avvelenando i tarantini, dentro e fuori lo stabilimento.
Il 6 settembre al Ministero dello Sviluppo Economico (Mise) è stato firmato l'accordo che stabilisce le condizioni del passaggio del gruppo Ilva, attualmente sotto l'Amministrazione Straordinaria dello Stato, ai nuovi acquirenti, la società franco-indiana con sede in Lussemburgo Arcelor-Mittal, leader mondiale nella produzione dell'acciaio. Hanno firmato tutti i sindacati maggiormente rappresentativi nell'azienda: Cgil, Cisl, Uil e Usb che hanno subito revocato lo sciopero indetto per l'11 settembre che prevedeva una manifestazione sotto la sede del Mise a Roma, il ministero presieduto da Di Maio.
Giudizio positivo “bipartisan”
Sono stati in molti ad esprimere un giudizio positivo per la firma di questo accordo, a partire da Confindustria che attraverso il suo presidente Boccia ha affermato: “ci auguriamo che da Taranto parta una fase nuova di attenzione all’industria”. Dichiarazioni che esprimono soddisfazione non tanto per la salvaguardia (seppur parziale) dell'occupazione, ma che sembrano invece chiedere al governo una più ampia libertà di manovra e minori controlli nei confronti delle attività industriali.
Plauso anche dal presidente della Repubblica Mattarella, mentre per il premier Giuseppe Conte nella vertenza Ilva "è stato raggiunto un risultato di assoluta eccellenza”. Anche Carlo Calenda, il predecessore di Di Maio al Mise, è intervenuto sui social
per esprimere la propria soddisfazione. Calenda, come le massime figure istituzionali, gli industriali e i sindacati ha voluto ringraziare personalmente il ministro e vice-premier dei 5 Stelle.
Di Maio da parte sua si è pavoneggiato di aver “ottenuto il miglior risultato possibile nella peggiore situazione possibile” e di aver risolto la crisi in breve tempo. A dire il vero il ministro fino alla fine di agosto, alleandosi con il governatore della Puglia Emiliano (PD), aveva minacciato l'annullamento della gara con cui Arcelor-Mittal si è aggiudicata l'Ilva, accusando il governo precedente e l'ex ministro Calenda di aver fatto un "pasticcio", "leso il principio della concorrenza", di "regole cambiate in corsa" e di considerare la gara illegittima.
Fatto sta che alla fine ha fatto retromarcia appoggiandosi al parere dell'Avvocatura dello Stato, la quale ha ammesso la presenza d'irregolarità, come l'eccesso di potere da parte del governo Gentiloni che avrebbe leso il “principio di concorrenza” chiudendo la possibilità di rilanciare l'offerta da parte di un'altra cordata concorrente; ma allo stesso tempo ha dichiarato che non sussisteva interesse pubblico,
indispensabile per annullare la gara e ripartire da zero. Nel giro di pochi giorni Di Maio è passato da “guardiano” della legalità e della salute dei tarantini a “salvatore” delle acciaierie e dell'accordo.
Più che soddisfatti i sindacati. “Esprimiamo grande soddisfazione perché abbiamo ottenuto gli obiettivi che ci eravamo prefissati...Per quanto riguarda l'occupazione si parte da 10.700 lavoratori assunti subito, che corrisponde al numero delle persone impiegate attualmente negli stabilimenti. Una soluzione che prevede inoltre l'impegno di assumere tutti gli altri fino al 2023 senza nessuna penalizzazione sul salario e sui diritti, compreso l'articolo 18”, ha dichiarato Francesca Re David, segretaria della Fiom-Cgil. “Nessun licenziamento negli stabilimenti Ilva, mantenimento dell’articolo 18 e della contrattazione di secondo livello, obblighi stringenti per Arcelor-Mittal sul piano ambientale” affermava con enfasi il comunicato del sindacato Usb.
Il piano occupazionale
Ma le cose stanno veramente così? Quello firmato sotto la regia di Di Maio è un accordo che sostanzialmente riprende quello tanto criticato e respinto di Calenda, con qualche concessione in più ottenuta sul piano occupazionale. Il vecchio governo era riuscito ad ottenere 10300 assunzioni, l'intesa del 6 settembre prevede l'assunzione di 10.700 lavoratori. Un aumento di 400 unità da non disdegnare ma che lascia fuori ancora 3mila persone perché l'organico attuale, già ridotto negli ultimi anni, dice che l'Ilva ha quasi 14mila dipendenti tra Taranto, Genova, il Piemonte, la Lombardia e il Veneto. Senza considerare l'indotto.
Dobbiamo però puntualizzare che gli impegni occupazionali varranno solo per la durata del Piano industriale, ossia 5 anni, fino al 31 dicembre 2024. A Taranto saranno assunti in 8200 contro gli attuali 10900 (-2700), mentre a Genova si promette che si rispetterà l'Accordo di Programma che impone ai proprietari dell'Ilva il mantenimento degli organici in cambio dell'utilizzo dell'area dov'è ubicato lo stabilimento ligure. Intanto però si assumono solo mille lavoratori su 1474. Quindi sommando le due fabbriche rimangono fuori in più di 3mila.
Per loro si ripropone l'incentivo all'esodo volontario del vecchio piano Calenda, aumentando lo stanziamento da 200 a 250 milioni di euro per chi si licenzierà. Chi non lo farà rimarrà stipendiato dall'Amministratore straordinario per essere utilizzato nei lavori di bonifica ambientale, dopo di che Arcelor-Mittal promette di riassumere chi è rimasto ancora in organico. L'unica differenza sarà che in questo caso toccherà ai nuovi proprietari doverli assumere anziché ad aziende a partecipazione statale come prevedeva il precedente accordo.
Riguardo al mantenimento dell'articolo 18 questo era già stato ottenuto prima dell'entrata in scena del nuovo governo e il merito, non dimentichiamocelo, è stato tutto della dura lotta degli operai che hanno rispedito al mittente le richieste di Arcelor-Mittal che voleva riassumere con il Jobs Act. Tuttavia non è vero che non si perderà nulla in salario perché i premi e la contrattazione aziendale saranno congelati per tre anni e condizionati agli utili di Mittal. Inoltre i lavoratori dovranno firmare una clausola di rinuncia ad eventuali contenziosi con la vecchia gestione dell'Ilva.
Con il licenziamento e la riassunzione si permetterà comunque ai nuovi padroni di risparmiare molti soldi, contravvenendo all'articolo 2112 del Codice Civile che prevede per l’acquirente l’obbligo di trasferire nella nuova società tutti i dipendenti “senza soluzione di continuità”, ossia garantendo loro tutte le condizioni e i crediti pregressi maturati. Senza contare il fatto che con questo procedimento Arcelor-Mittal avrà a disposizione un'azienda redditizia lasciando i debiti della vecchia gestione alla fiscalità generale dello Stato, cioè ai contribuenti italiani.
L'accordo non tutela né l'occupazione né l'ambiente
Sul capitolo ambientale le cose stanno ancora peggio. In questo caso non c'è nessun miglioramento rispetto alla trattativa condotta dell'ex ministro Calenda, c'è solo la promessa di velocizzare gli interventi di bonifica già previsti, niente più che una dichiarazione d'intenti di nessun valore effettivo. Questo ha fatto scattare la reazione e la protesta di molti Comitati e cittadini tarantini che hanno chiesto le dimissioni degli assessori comunali del M5S, partito che in città, alle elezioni del 4 marzo, aveva ottenuto il 47% dei voti validi proprio con la promessa di chiudere e riconvertire l'Ilva.
Lo stesso “guru” del movimento, il comico genovese Beppe Grillo, in visita in Puglia lo scorso anno aveva annunciato: ”faremo un parco giochi al posto delle acciaierie”. La linea del M5S era stata quella di mettere fine all'inquinamento causato dall'acciaieria spegnendo gli altoforni. La deputata dei 5 Stelle Rosalba De Rossi, giornalista eletta nel collegio di Taranto, arrivata in città per tentare di spiegare la giravolta di Di Maio e dei pentastellati sull'Ilva ha dovuto subire la contestazione della piazza inferocita.
Adesso invece Di Maio non si fa alcun scrupolo di prorogare l'immunità penale agli acquirenti Ilva in caso di violazione della legislazione ambientale e sanitaria, come previsto all’art.2 comma 6 del Decreto Legge n.1 del 2015. Una norma, sostenuta dei governi Renzi e Gentiloni, che permette la produzione nonostante gli interventi della magistratura e le analisi delle autorità sanitarie abbiano dimostrato ripetutamente che gli impianti produttivi dell'Ilva di Taranto hanno causato la morte di centinaia di lavoratori e cittadini e sono palesemente fuori legge da anni.
Noi marxisti-leninisti non condividiamo le posizioni dei vari comitati che chiedono la chiusura dello stabilimento, escludendo a priori che si possa produrre acciaio senza avvelenare una città come Taranto. Oltretutto altre esperienze, come Bagnoli a Napoli, dimostrano che le chiusure, oltre a mettere alla fame migliaia di persone impoveriscono tutto il territorio, i soldi delle bonifiche vanno a finire nelle tasche di faccendieri e mafiosi, i terreni in mano alla speculazione e i veleni si mettono sotto il tappeto, la bomba ecologica rimane e la città non viene risanata.
Condividiamo però la loro preoccupazione per la salute e la loro rabbia verso un accordo firmato proprio da coloro che a parole si erano autoproclamati paladini dell'ambiente e avevano chiesto, e ottenuto, voti per la chiusura e la riconversione delle acciaierie. Questo accordo non tutela né l'occupazione né l'ambiente.
Quella di Taranto è l'acciaieria più grande d'Europa, è un segmento strategico dell'industria italiana, alimenta una serie di numerose altre attività e ha un forte impatto economico sull'economia pugliese e nazionale. Una fabbrica di questo tipo e di queste dimensioni necessita per forza di cose di una politica ambientale rigorosa ed economicamente onerosa, drasticamente diversa da quella tenuta fino ad ora. Dubitiamo fortemente che Arcelor-Mittal, che già in altre parti d'Europa come in Belgio è sotto accusa per inquinamento, riesca a Taranto a mantenere fede ai suoi impegni sul fronte ambientale, che già di per sé sono insufficienti e in ritardo rispetto alla gravità della situazione.
Per questo l'Ilva andava nazionalizzata, l'unica strada per salvaguardare posti di lavoro e salute. Questi due obiettivi possono e devono stare insieme, non si devono contrapporre e sopratutto non si devono contrapporre i lavoratori e la popolazione perché chi lavora in fabbrica è il primo a subire l'inquinamento e chi sta fuori subirà comunque anche l'impoverimento economico di tutta la città e quindi si deve portare avanti la lotta in maniera unitaria. Certo questo accordo non aiuta l'unità ma contribuisce a creare divisioni.
Il referendum
Governo, sindacati e industriali si fanno forti del risultato del referendum sull'accordo svoltosi il 13 settembre per archiviare la vicenda considerandola come un successo. Ma non bisogna fermarsi ai risultati sbandierati dai mass-media che giudicano l'esito della consultazione tra i lavoratori come un plebiscito in favore dell'accordo con il 93% di Sì. Se si considerano gli aventi diritto (quasi 14.000) i favorevoli (8255) sono il 59% del totale. Ricordiamo che oltre a chi ha indicato di votare No (slai-CObas) il comitato “Liberi e Pensanti” di Taranto (per la chiusura e la riconversione delle acciaierie) invitava all'astensione, perciò anche questo va interpretato più come un voto contrario che come disinteresse.
Da considerare inoltre che tutti sapevano come in queste condizioni il referendum era quasi inutile e dall'esito scontato: fatto in fretta e furia 2 giorni prima la scadenza utile per l'acquisizione di Arcelor-Mittal, con la spada di Damocle dei licenziamenti e senza una alternativa ai nuovi padroni indiani. Ma la vicenda Taranto è tutt'altro che chiusa e il ritorno ai privati dell'Ilva in breve tempo riproporrà tutte le questioni sul tappeto. Servirà quell'unità nella lotta di lavoratori e popolazione che invocavamo prima per respingere al mittente i tentativi d'imporre una produzione industriale che in nome del profitto sacrifichi le condizioni di vita e la salute dei lavoratori e di tutti gli abitanti di Taranto.
19 settembre 2018