Sentenza della Consulta sull'indennizzo degli ingiusti licenziamenti
Jobs Act incostituzionale
La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo il meccanismo d'indennizzo dei licenziamenti contenuto nel Jobs Act. Che la controriforma del “mercato del lavoro” voluta dal duce democristiano Renzi contenesse numerose parti che andavano in contrapposizione a svariati articoli della Costituzione lo si era capito fin da subito. Assieme alla Fiom e alla Cgil numerosi costituzionalisti e giuslavoristi fin dal primo momento avevano messo in discussione la legittimità del Jobs Act.
A tre anni e mezzo dall'entrata in vigore la Consulta lo boccia, ma solo in parte. Infatti quello che viene contestato è solo il meccanismo rigido per cui l'indennizzo in caso di licenziamento varia a seconda di quanto sia lungo il periodo di assunzione del lavoratore, il cosiddetto contratto a “tutele crescenti”. Si va da un minimo di 4 mensilità fino a un massimo di 24, due per ogni anno di lavoro, recentemente aumentati dal “Decreto dignità” del governo Salvini-Di Maio.
Tutto era nato dal ricorso di una lavoratrice romana licenziata per “motivi economici” da un'azienda di catering e indennizzata con le 4 misere mensilità minime. Il giudice Maria Giulia Cosentino chiamò in causa la Corte costituzionale nell’agosto 2017 rilevando come “l’indennità risarcitoria” troppo bassa “ha conseguenza discriminatorie” perché quando si vuole ridurre il personale, “l’azienda privilegerà sempre la meno costosa e problematica espulsione dei lavoratori in regime di Jobs Act”.
L'Avvocatura dello Stato, rappresentante del governo, ha cercato di sostenere la tesi che il decreto firmato da Di Maio risolvesse la questione aumentando l'indennità da 4-24 a 6-36 mesi ma la Corte ha ribattuto che questo lascia inalterato il meccanismo discriminatorio basato sull'anzianità di lavoro, è contrario ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione.
Ma nel concreto che cosa cambia? Si presume che si torni a quello che l’attuale governo da mesi dice di voler cancellare, cioè al criterio formulato dalla legge Fornero. Nella normativa del ministro del Lavoro del governo Monti, si dava al giudice la possibilità di valutare caso per caso gli stipendi da riconoscere al lavoratore (comunque entro un massimo di 24 mensilità) basandosi non solo sull’anzianità di servizio ma anche sulle dimensioni della società, sul modo in cui il dipendente è stato mandato via, sull’eventuale rifiuto dell’azienda a farlo rientrare o dell’atteggiamento che entrambe le parti hanno dimostrato.
Detto in parole semplici vuol dire che si passerà dal meccanismo automatico previsto dal Jobs Act a quello più flessibile che lasciava maggiore discrezionalità al giudice del lavoro. In sostanza non cambia quasi nulla e sopratutto non viene reintrodotto l'articolo 18 nella sua formulazione originale; quello che prevedeva, in caso di licenziamento senza giusta causa, il reintegro sul posto di lavoro più un risarcimento minimo di 5 mensilità, oltre al versamento dei contributi Inps e al salario eventualmente sospeso.
Non ci dobbiamo dimenticare che il primo colpo all'articolo 18 fu dato proprio dalla controriforma del lavoro Monti-Fornero del 2012 che abolì l'obbligo di reintegro nei licenziamenti per ragioni economiche, ad esempio per il taglio di un reparto o di una funzione. La discrezionalità del giudice veniva esercitata solo in certi casi, come quando il dipendente veniva licenziato per ragioni disciplinari.
In ogni caso questa bocciatura da parte della Consulta conferma che della Costituzione, quando non garantisce quei margini di manovra che la borghesia e i suoi governi ritengono necessari, se ne può fare tranquillamente a meno. I governanti si fanno beffa persino di articoli fondamentali come il 4: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. La Fornero nel giugno 2012 in un'intervista al Wall Street Journal
, a proposito della sua “riforma” dichiarava: “l'attitudine della gente deve cambiare. Il lavoro non è un diritto, bisogna guadagnarselo, anche attraverso il sacrificio”.
Questa sentenza evidenzia come l'obiettivo del Jobs Act e di tutta la legislazione promossa dai governi Berlusconi, Monti, Letta, Renzi e da ministri e giuslavoristi come la Fornero, Sacconi, Ichino, Biagi, Treu per citare i più noti, sia stato quello di togliere quei diritti che i lavoratori si erano faticosamente conquistati, spacciandolo per modernità e flessibilità e trovando il sostegno di quasi tutti i partiti parlamentari e persino di alcuni sindacati come la Cisl, e andando anche contro la Costituzione.
La magistratura comunque non può sostituirsi ai lavoratori nella difesa dei loro diritti, e la stessa Corte costituzionale esprime giudizi contrastanti. Ad esempio non disse una parola sul fatto che il risarcimento previsto dal Jobs Act fosse inferiore persino alla decontribuzione offerta ai padroni, annullando il disincentivo a licenziare. Oppure nel gennaio 2017 quando considerò illegittimo il referendum per abolire il Jobs Act proposto dalla Cgil. Praticamente fu dichiarato incostituzionale un referendum per abolire una legge incostituzionale!
Sono anzitutto i sindacati che devono difendere i lavoratori. Se contro il Jobs Act e la cancellazione dell'articolo 18 si fosse messa in campo tutta la forza del movimento operaio e di tutti i democratici molto probabilmente Renzi avrebbe fatto la stessa fine di Berlusconi nel 2002 che di fronte alla straordinaria mobilitazione dei lavoratori e alla grandiosa e storica manifestazione del 23 marzo a Roma dei tre milioni al Circo Massiimo fece velocemente marcia indietro.
Ma la questione può essere riaperta se i sindacati, forti anche della sua incostituzionalità, rilanciassero la lotta per annullare la cancellazione dell'articolo 18 incalzando il nero governo Salvini-Di Maio per ripristinarlo come aveva promesso.
3 ottobre 2018