Lo certifica l'Istat
Aumentano i migranti italiani all'estero
I meridionali emigrano al Centro Nord d'Italia. L'Italia è tra i paesi con più alto tasso di emigrazione
L'Italia si conferma un Paese dalla doppia mobilità, dove all'immigrazione di persone provenienti dalle più disparate parte del mondo, corrisponde un'altrettanta consistente emigrazione di italiani all'estero. Lo conferma il rapporto Istat uscito a dicembre scorso relativo al 2017, ma che su alcuni argomenti spazia sui 5 o 10 anni precedenti.
Mentre tutta la propaganda mediatica, capitanata da ministro degli interni Salvini, si concentra nel dare i numeri, spesso artefatti, degli arrivi sulle nostre coste per attaccare i migranti, scaricare sui più poveri le colpe della crisi capitalistica e giustificare contro di loro leggi razziste e fasciste, si tace o si mettono in secondo piano le informazioni sull'emigrazione degli italiani all'estero.
Non c'è quindi da meravigliarsi se l’Italia, secondo uno studio dell’Istituto Cattaneo, è il Paese europeo in cui è più distorta la percezione dell’immigrazione da parte dell’opinione pubblica. Gli intervistati italiani sono quelli che mostrano un maggior distacco tra percentuale reale e percentuale percepita. Sono convinti che gli immigrati siano il 25 per cento della popolazione, quindi circa 15 milioni. In realtà non arrivano a 5, meno del 7 per cento della popolazione totale.
Nonostante questi nuovi arrivi in Italia non aumenta la popolazione, in parte ciò è dovuto al basso tasso di natalità e al saldo negativo rispetto alle morti, ma anche ai trasferimenti all'estero degli italiani. Nell'ultima decade in più di 100mila hanno lasciato ogni anno il nostro Paese mentre gli ultimi dati Istat certificano che sia nel 2016, sia nel 2017, sono migrati all'estero 115mila italiani.
Ma i flussi effettivi sono ancora più elevati. Non va dimenticato che per l'Anagrafe degli Italiani Residenti all'Estero (AIRE), che si basa sui dati forniti dai Comuni, il numero dei nuovi registrati nel 2016 (225.663) è più alto rispetto ai dati Istat. A rendere ancora più allarmante il quadro tratteggiato vi è un’ulteriore considerazione: quelli registrati dalle anagrafi comunali italiane sono inferiori agli archivi statistici dei paesi di destinazione, specialmente della Germania e della Gran Bretagna (dove è obbligatorio iscriversi per provvedere alla registrazioni di un contratto, alla copertura previdenziale, all'acquisizione della residenza e così via).
Per il centro studi e ricerche Idos e Confronti
vanno aumentati di 2,5 volte perché rispetto ai dati dello Statistisches Bundesamt
tedesco e del National Insurance Number
britannico le cancellazioni anagrafiche rilevate in Italia rappresentano appena un terzo degli italiani effettivamente iscritti. Pertanto, i dati dell'Istat sui trasferimenti all'estero dovrebbero essere aumentati almeno di 2,5 volte e di conseguenza si passerebbe da 115.000 cancellazioni a 285.000 trasferimenti all'estero annui, un livello pari ai flussi dell'immediato dopoguerra e a quelli di fine Ottocento.
Naturalmente andrebbe effettuata una maggiorazione anche del numero degli espatriati ufficialmente nel decennio 2008-2017, senz'altro superiore ai casi registrati (740.000). Le destinazioni principali rimangono il Regno Unito (18%) e la Germania (16,1%), seguiti da Francia (10,8) e Svizzera (9,1). Una platea variegata che vede molti giovani con titoli di studio. Nel 2017 il 52,6% degli italiani emigrati è partito con un diploma o una laurea in tasca.
Non si tratta però solamente di “alti profili” in cerca di stipendi migliori. Non mancano gli ultra 55enni che hanno perso il lavoro e in Italia hanno scarsissime possibilità di essere riassunti per arrivare alla pensione. In assenza di garanzie lavorative e di una stabilità economica molti italiani scelgono la fuga all’estero, dove spesso le tutele non sono maggiori ma è più facile trovare un lavoretto in tempi brevi.
Un altro aspetto interessante e allo stesso tempo allarmante è il rapporto sulla mobilità interna che, anche qui, rileva come l'emigrazione dal Sud verso il Nord sia tornata ai livelli del dopoguerra. Negli ultimi anni questo fenomeno, che non si è mai fermato, ha subito una forte accelerazione portando a un vero e proprio spopolamento del nostro Mezzogiorno.
Se guardiamo l'andamento demografico del 2017 le undici regioni con saldo positivo appartengono tutte al Centro-nord: Lombardia (+18 mila) e Emilia-Romagna (+13 mila) sono quelle con il guadagno netto di popolazione più consistente. Salvo rare eccezioni tutte le provincie del centro-sud hanno un saldo negativo mentre quelle del centro-nord aumentano. Ancor più netto è il travaso della popolazione giovanile, più disposta a trasferirsi.
Le nove regioni con saldo negativo, tutte del Mezzogiorno, vedono in prima fila Campania (-16 mila) e Sicilia (-15 mila) che insieme rappresentano oltre il 56% della perdita di popolazione, circa 54 mila unità, nella ripartizione meridionale. Da sola la Campania in 20 anni ha perso 464mila abitanti, come se mezza Napoli se ne fosse andata altrove. Se guardiamo al dato netto, in base agli abitanti, vediamo che la Calabria sta peggio di tutti (-4,2 per mille), seguono la Basilicata (-4,0 per mille) e il Molise (-3,5 per mille).
Numeri drammatici ma che non meravigliano, viste le condizioni in cui versano le nostre regioni meridionali grazie all'operato dei governi borghesi nazionali e locali che invece di ridurre e annullare le diseguaglianze con il resto del Paese le hanno allargate. Basti pensare che il reddito medio al Sud è di 18,5mila euro l’anno, al Nord si aggira sui 35mila euro e al Centro intorno ai 30,7mila; chi vive nel Mezzogiorno guadagna la metà di un abitante della Lombardia.
9 gennaio 2019