Trump: Ritireremo lentamente le truppe dalla Siria perché abbiamo sconfitto lo Stato islamico
Le forze curde denunciano il tradimento e invocano il sostegno dei paesi imperialisti. Russia e Turchia trattano per il futuro della Siria

 
Era appena uscito il rapporto finale dei lavori della Commissione bi-partisan del Congresso Usa che peraltro si dichiarava contraria alla riduzione della presenza militare americana in Medio Oriente, una presenza definita necessaria per contrastare i pericoli di un aumento del numero di islamisti “radicali” e dell'influenza dell'Iran che il presidente americano Donald Trump col solito messaggio via twitter annunciava dalla Casa Bianca il ritiro entro un mese dei circa duemila soldati presenti in Siria perché era accertata la sconfitta dello Stato islamico (IS). Dall'annuncio dell'uscita dalla Siria del 19 dicembre passavano solo 24 ore e arrivava quello del ritiro di circa una metà dei 14 mila soldati in Afghanistan e le dimissioni del segretario della Difesa, il generale Jim Mattis, che salutava con un “il presidente merita un collaboratore allineato con le sue posizioni“. Che Trump e i vertici militari non siano in perfetta sintonia è cosa nota, tanto che il presidente è da un anno e mezzo che annuncia di volersi disimpegnare dalla guerra in Siria e veniva regolarmente stoppato dal Pentagono e dalla Difesa che chiedevano una proroga alla presenza militare perché “la lotta all'Is non è finita”. Proroga richiesta anche questa volta, annunciata già durante la visita di Trump il 26 dicembre alla base aerea di Al Asad, nella provincia irachena di Al Anbar e ufficializzata ai primi di gennaio quando Trump concedeva al Pentagono circa quattro mesi per il ritiro.
In tempi più o meno rapidi l'imperialismo americano vuol tirarsi fuori dalla Siria, che per Trump è un paese ricco solo di sabbia, e lasciare il compito di completare la liquidazione dello Stato islamico come entità territoriale agli alleati Turchia e Arabia saudita. Se sarà necessario un aiuto militare, gli Usa sono pronti a darlo purché pagati, non gratis come ora, ripete Trump che conferma di voler mantenere le basi in Iraq per tenere sotto pressione il principale bersaglio regionale, l'Iran.
Un compito nel quale viaggia a braccetto con gli imperialisti sionisti di Tel Aviv con il premier Benyamin Netanyahu che pur non condividendo la decisione di Trump assicurava che avrebbe “continuato ad agire con forza contro i tentativi dell'Iran di arroccarsi in Siria”.
Quando otto anni fa l'amministrazione Obama preparava l'aggressione militare alla Siria sul modello di quella alla Libia, falliti i tentativi della primavera araba a Damasco coi quali pensava di demolire l'alleanza sciita tra Iran, Siria e Libano di Hezbollah, fu stoppata da Mosca che difendeva il regime di Assad e le sue basi militari; l'intervento esterno col finanziamento di milizie contro Assad da parte della Casa Bianca, della Turchia e dei regimi arabi reazionari non ha avuto effetto, il governo di Damasco era messo in difficoltà soprattutto dalla nascita e dalla guerra di resistenza dello Stato islamico fino all'intervento diretto dell'imperialismo russo. Che si è portato dietro quello dell'imperialismo americano che non voleva essere del tutto emarginato in Siria. Washington appoggiava le formazioni dei curdi siriani delle Sdf per il lavoro sul terreno, una delle cause della rottura col regime fascista turco di Erdogan per il quale le legittime aspirazioni nazionaliste dei curdi sono il primo bersaglio da colpire nella regione.
“Abbiamo sconfitto l'Isis in Siria, per me l'unico motivo di restare lì durante la mia presidenza“, annunciava il tweet di Trump del 19 dicembre, confermato dalla nuova responsabile stampa della Casa Bianca, Sarah Huckabee Sanders: “abbiamo iniziato a riportare a casa le truppe degli Stati Uniti. Cinque anni fa, l'Is era una forza molto potente e pericolosa in Medio Oriente e ora gli Stati Uniti hanno sconfitto il califfato territoriale“.
L'uscita dalla Siria era stata preparata da accordi con la Turchia in diversi colloqui telefonici con Erdogan, come rivelava lo stesso Trump il 23 dicembre: “ho appena avuto una telefonata lunga e produttiva con il presidente della Turchia Erdogan. Abbiamo discusso dell'Is, del nostro rispettivo coinvolgimento in Siria, e del ritiro lento ed estremamente coordinato delle truppe Usa dall'area. Dopo molti anni tornano a casa“. Erdogan “ha accettato il compito di eliminare eventuali resti dell'Is“ nella Siria orientale annunciava il presidente americano che in quel momento sembrava dimenticare che per Ankara terroristi vuol dire le forze curde, i suoi alleati in Siria. E il 2 gennaio era costretto a precisare che gli Stati Uniti non si dimenticheranno dei curdi. “Non mi è piaciuto il fatto che stanno vendendo all’Iran il petrolio che hanno e noi gli abbiamo chiesto di non farlo. Vogliamo ciononostante proteggere i curdi. Vogliamo proteggere i curdi, ma non rimanere per sempre in Siria. È sabbia”.
Anche il presidente russo Vladimir Putin plaudiva alla decisione di Trump, “ha fatto bene”; Mosca è intervenuta in Siria su “richiesta” di Assad, non di forza come gli Usa ma non può pensare di avere mani libere nel paese e nella regione dove ha salvato la testa di Assad e le sue basi nel paese d'intesa con Iran e Turchia, e con Tel Aviv che bombarda a suo piacimento. Non sarà facile sciogliere i nodi quali la presenza delle formazioni filoiraniane bersaglio dell'aviazione sionista ma soprattuto quelli legati al controllo delle regioni nord occidentali che vedono di fronte con interessi non proprio convergenti gli alleati Russia e Turchia. Resta la questione del controllo della zona di Idlib dove si sono rifugiate le formazioni delle opposizioni siriane finanziate da Turchia e paesi arabi che già nel settembre scorso sembrava prossima a cadere sotto il tiro dei soldati di Assad e dell'aviazione russa, stoppati da Ankara e dagli Usa; la spartizione della Siria definita sul campo dalle zone occupate dalle varie formazioni militari era “congelata” dal vertice di Istanbul del 27 ottobre che per la prima volta dall’inizio della guerra in Siria nel 2011 vedeva allo stesso tavolo i vertici di Turchia, Russia, Francia e Germania. Della coalizione imperialista guidata da Putin che si muoveva secondo gli accordi di Astana, c'era una assenza significativa, l'Iran, e l'altrettanto significativa presenza dei due paesi imperialisti europei, il tandem franco-tedesco con Macron che rinverdiva il passato di ex potenza coloniale in Siria e la Merkel sempre più presente nei vertici con Putin e negli scenari militari.
Nello vespaio siriano restano la questione del cantone curdo di Afrin, occupato dalla Turchia con l'assenso di Mosca, e delle regioni curde confinanti con la Turchia dove si è instaurata una amministrazione di fatto autonoma; due parti divise dalla zona cuscinetto di Mambij occupata dai curdi e presidiata dai marines americani che finora avevano impedito a Erdogan di attuare il suo proposito di occupare la città se le milizie curde non se ne fossero andate.
L'1 gennaio nella periferia della città arrivavano i soldati di Assad, su richiesta delle forze curde delle Ypg che se ne andavano sulla base degli “accordi sul ritorno alla vita normale dei territori situati nel nord della Siria”, come annunciava un comunicato del governo di Damasco. Un passo definito “una tendenza positiva” dal portavoce del Cremlino Dmitri Peskov per conto di Putin ma che ha fatto infuriare Edrdogan e che rende un'idea delle difficoltà della trattative sul futuro della Siria tra Russia e Turchia.
La portavoce Sanders nell'annunciare la sconfitta dell'Is aveva avvisato che “queste vittorie sull'Is in Siria non segnano la fine della Global Coalition”, una dichiarazione che aveva dato fiato alle proteste degli alleati della coalizione imperialista non certo contenti di non essere stati preavvisati. Francia, Germania e altri Paesi della coalizione criticavano la decisione Usa. Il ministro della Difesa francese, Florence Parley, la definiva una “decisione pericolosa” e il presidente Macron dichiarava che la Francia avrebbe garantito la sicurezza nel nord e nell'est della Siria e invitava i due co-Presidenti dell’MSD (Consiglio Democratico Siriano, l'organizzazione politica delle Forze Democratiche Siriane, FDS) a Parigi per discutere la loro richiesta di istituire sulla regione una zona di divieto di sorvolo. L'attenzione dell'imperialismo francese verso la Siria si era già manifestata con l'invio di forze speciali a sostegno delle forze curde, insieme ai marines Usa.
Il 7 gennaio migliaia di manifestanti protestavano contro le minacce di occupazione da parte della Turchia e ribadivano la richiesta della istituzione di persone una zona di divieto di sorvolo per la Siria del nord e dell’est davanti alla rappresentanza Onu di Qamişlo, la capitale della Rojava.
Nella guerra in Siria le forze curde si sono trovate nelle vesti del vaso di coccio e sono state prima usate come truppe cammellate e poi lasciate da Trump col cerino in mano; adesso invocano il sostegno dei paesi imperialisti. Della Russia, tramite il governo di Assad cui le Ypg hanno chiesto di aiutarli a proteggere il nord della Siria: “invitiamo le forze del governo siriano, che sono obbligate a proteggere il Paese, la nazione e le sue frontiere, a prendere il controllo delle aree dalle quali si sono ritirate le nostre forze, in particolare Manbij, e a proteggerle contro un’invasione turca”. Della Francia, invitata a farsi promotrice della creazione di una zona di divieto al volo per impedire i bombardamenti dell'aviazione turca e disinnescare la principale arma delle forze armate di Ankara che credono di poter contrastare a terra.
In attesa che Trump metta finalmente in atto il pluriannunciato ritiro, Putin e Erdogan preparano con la cancelliera Angela Merkel e Macron un nuovo summit a quattro sul futuro della Siria.

9 gennaio 2019