Come ha fatto Gentiloni per Mps e le venete
Il governo Salvini-Di Maio salva banca Carige con i soldi pubblici
Conflitto di interesse per Conte
Le banche vanno nazionalizzate

"Il governo ha approvato un decreto legge che interviene a offrire le più ampie garanzie di tutela dei diritti e degli interessi dei risparmiatori della Banca Carige", ha detto Giuseppe Conte al termine del Consiglio dei ministri riunito d'urgenza il 7 gennaio per salvare la banca genovese sull'orlo del fallimento, a pochi giorni dal suo commissariamento da parte della Bce. Esattamente la stessa operazione - fatte le debite proporzioni - del salvataggio di Mps e delle due banche venete, Popolare di Vicenza e Veneto Banca, che il governo Gentiloni aveva fatto con un analogo decreto nel dicembre 2016, e che le due forze ora al governo avevano tanto vituperato: in particolare il M5S, che con Di Maio aveva attaccato Gentiloni accusandolo di aver fatto come "suo primo atto politico" un decreto "per trasferire 20 miliardi di euro alle banche italiane".
Ora Salvini, Di Maio, Conte e il ministro Tria, hanno ripetuto la stessa operazione con un semplice copia-incolla dal decreto di Padoan e Gentiloni, mettendo a disposizione di Carige circa quattro miliardi, ma con la loro impareggiabile faccia tosta non la chiamano più "regalo statale alle banche private", come aveva fatto allora Alessandro Di Battista alla Camera a proposito di Mps, ma la chiamano "tutela dei risparmiatori", la stessa formula che usò a suo tempo l'allora premier Gentiloni per giustificare l'operazione. Il decreto di salvataggio stanzia infatti tre miliardi di soldi pubblici a garanzia delle obbligazioni di nuova emissione di Carige e sui finanziamenti erogati discrezionalmente ad essa dalla Banca d'Italia, e un altro miliardo per un'eventuale ricapitalizzazione pubblica "a scopo precauzionale", nel caso la banca dovesse trovarsi a fronteggiare "scenari ipotetici di particolare severità e altamente improbabili".
In questa vicenda emerge pure un conflitto di interesse a carico di Conte, che naturalmente egli respinge come "inesistente e assurdo", in quanto il suo mentore, l'avvocato Guido Alpa, che è stato nel Cda di Carige dal 2009 al 2013, è anche il legale della cordata guidata dal finanziere e socio di minoranza Raffaele Mincione, che puntava a scalare la direzione dell'istituto. E Conte non solo risulta essere stato consulente di una società presieduta da Mincione, ma ha fatto anche pressioni sul socio di maggioranza, la famiglia Malacalza, affinché accettasse di fare un aumento di capitale come richiesto dalla cordata di Mincione.
 

Un decennio di sperperi e di malaffare
Ma come si è arrivati al quasi fallimento Carige e al suo salvataggio in extremis coi soldi pubblici, una banca che risale al 1483 e che prima della crisi del 2008 era il quinto istituto nazionale per capitalizzazione, una vicenda che sembra ricalcare in tutto e per tutto, a parte le minori dimensioni, quella del Monte dei Paschi di Siena?
Nel primo decennio del Duemila Carige conosce una forte espansione, acquistando compagnie di assicurazione e banche minori, in Toscana ma anche a Milano, e facendo soprattutto incetta di sportelli dismessi da Unicredit, Intesa e Mps (ad un prezzo che poi si rivelerà eccessivo), arrivando a contare oltre 600 sportelli nel 2010. Tra il 2012 e il 2013 emerge però il dissesto provocato dalla gestione di Giovanni Berneschi, che nel 2006 aveva partecipato anche alla scalata di Antonveneta da parte della cordata di Fiorani e dei "furbetti del quartierino", e che presiedeva ininterrottamente l'istituto dal 2003: dopo segnalazioni di anomalie da parte degli ispettori di Bankitalia, esplode l'inchiesta della procura di Genova su un buco nero di violazioni delle norme antiriciclaggio e di prestiti milionari facili a amici imprenditori, faccendieri, vip e consorterie politiche varie (quelle dell'ex ministro forzista savonese, Claudio Scajola e dell'ex presidente regionale PD, Claudio Burlando, in primis), tanto che ad oggi si parla di 3 miliardi di crediti deteriorati in pancia a Carige.
Tra questi prestiti facili mai restituiti o restituiti solo in parte e a rate, ci sono 450 milioni alla compagnia di armatori e terminalisti genovesi Messina, 91 milioni alla famiglia Orsero, i re savonesi dell'importazione di frutta, 250 milioni al Parco degli Erzelli per una speculazione su un polo tecnologico da costruire sulla collina di Cornigliano voluto dall'allora amministrazione di "centro-sinistra", i 70 milioni al costruttore Andrea Nucera, indagato dai pm di Savona per bancarotta e attualmente latitante ad Abu Dhabi e i 50 milioni all'industriale del giocattolo e patron del Genoa calcio, Enrico Preziosi. E poi c'erano tanti altri finanziamenti allegri agli amici degli amici come all'europarlamentare UDC-PDL Vito Bonsignore, agli armatori Rosina e Rasero, al terminalista Aldo Spinelli, al gruppo Cozzi-Parodi, ai coniugi Vincenzo capelluto e Franca Roveraro, (la Roveraro presiedeva l'unione provinciale degli albergatori e la figlia, oltreché presidente dei giovani industriali savonesi, è stata consigliera della Cassa di Risparmio di Savona, controllata da Carige), per un progetto che prevedeva la costruzione di tre torri di 20 piani ad Albisola Superiore, e così via.
Diversi di questi prestiti riguardano la filiale di Nizza, indagata anche per riciclaggio, diretta da Paolo Pippone, responsabile Carige per tutta la provincia di Imperia, ex consigliere provinciale e fedelissimo di Claudio Scajola; il cui fratello, Alessandro Scajola, è stato fra l'altro vicepresidente di Carige, con un consuocero che sedeva nella Fondazione, accanto a Flavio Repetto, industriale vicino ai cardinali Tarcisio Bertone e Angelo Bagnasco, e al vicepresidente Pierluigi Vinai, prima scajoliano e poi renziano, sostenuto anch'egli dalla curia genovese.
 

Lotta per il potere in una banca in rovina
Travolto dallo scandalo Berneschi esce di scena (sarà poi condannato l'anno scorso a 8 anni e 7 mesi di carcere per truffa ai danni di Carige), e nel 2014 arriva il primo aumento di capitale di 800 milioni, seguito da altri due in tre anni. Nel 2015 la famiglia genovese dei Malacalza entra nel capitale della banca acquistandone il 10,5%, e nel tempo salirà fino al 27,5% attuale, investendo complessivamente 430 milioni. Dal 2016 di assiste ad un vorticoso ricambio dei vertici aziendali, con tre amministratori delegati che si succedono fino ad oggi, ma nel frattempo la capitalizzazione di Carige continua a scendere, fino ad arrivare oggi a solo 80 milioni.
Nell'estate del 2018 scoppia un contrasto tra i Malacalza e l'allora amministratore delegato di Carige, Paolo Fiorentino, che sostiene la cordata del terzo azionista Mincione, che rappresenta un gruppo di investitori col 5% del capitale, e di Gabriele Volpi, che col 9% è il secondo azionista. I due tentano la scalata alla banca e sono sostenuti e difesi da Guido Alpa, il vecchio amico del premier Conte. La guerra intestina porta alle dimissioni dell'intero cda, e ciò anche in conseguenza di un'intercettazione della guardia di finanza di una telefonata tra Fiorentino e Luca Parnasi, il costruttore travolto dall'inchiesta sul nuovo stadio della Roma e finanziatore di tutti i partiti, in cui quest'ultimo chiedeva all'allora ad di Carige di concedere una consulenza di facciata da 30-50 mila euro a Luca Lanzalone, avvocato genovese chiamato dal M5S e dalla sindaca Raggi a dirigere l'Acea, finito anch'egli agli arresti nella stessa inchiesta romana.
Al commissariamento dell'istituto da parte della Bce si arriva infine lo scorso 2 gennaio, dopo che l'astensione di Malacalza alla deliberazione di un nuovo aumento di capitale di 400 milioni per coprire il prestito di 320 milioni del Fondo interbancario di tutela dei depositi fa mancare il quorum necessario. Cinque giorni dopo il governo interviene per decreto con il salvataggio da quattro miliardi. Le pressioni di Conte sui Malacalza affinché rivedessero la propria posizione contraria alla ricapitalizzazione della banca, presumibilmente ispirate dal suo amico Alpa e da Mincione, avvengono proprio nel periodo cruciale tra il 22 dicembre, alla vigilia dell'ultima assemblea, e il 31 dicembre, due giorni prima del commissariamento da parte della Bce.
 

I frutti della privatizzazione delle banche
È incredibile come tutte le vicende di dissesti bancari di questi anni, dal Mps a Banca Etruria e le altre tre Bcc, dalle due venete a Carige, si somiglino mettendo regolarmente in luce lo stesso verminaio di conflitti di interesse nei vertici gestionali, investimenti sconsiderati, prestiti facili a imprenditori amici e consorterie politiche, occultamento dei conti e manipolazione dei bilanci, e così via. La privatizzazione del sistema bancario, che avrebbe dovuto portare alla fine dell'intreccio con la politica e a una maggiore trasparenza ed efficienza a vantaggio dei risparmiatori e del mercato finanziario, ha portato invece all'esatto contrario: non solo non sono spariti gli intrecci con i partiti politici, ma si sono moltiplicati i conflitti di interesse, gli sperperi, le gestioni allegre, le appropriazioni indebite e le truffe, all'ombra di cda gestiti del tutto privatamente e senza alcun controllo pubblico. Salvo poi, a disastro avvenuto, dover assistere ogni volta all'intervento dello Stato per salvare coi soldi pubblici carcasse di banche spolpate da avvoltoi e piene solo di crediti deteriorati.
Adesso nel governo si punta a una "soluzione di mercato", ossia all'intervento di un investitore privato per ricapitalizzare Carige. Ma nel caso non si dovesse trovare non si esclude che la nazionalizzazione sia "un'ipotesi concreta", come ha affacciato il sottosegretario Giorgetti. Anche eventualmente in una forma mascherata, come potrebbe essere quella di un ingresso di Mps (il cui azionista di maggioranza è oggi il Tesoro) nel capitale di Carige. Eventualità questa che non dispiace al ducetto Di Maio, il quale ha fatto sapere di non avere "nessun problema a pensare alla banca dello Stato". Certo perché immagina che una Carige nazionalizzata potrebbe potrebbe tornare utile per supportare la politica economica e sociale del governo basata su promesse pagate a debito e mance elettorali, come il reddito di cittadinanza e Quota 100.
Per noi invece è l'intero sistema bancario che va nazionalizzato e sottoposto al controllo pubblico, liberandolo completamente dall'influenza dei partiti borghesi e degli interessi privati, e mettendolo al servizio esclusivo dei lavoratori e delle masse popolari e per favorire l'occupazione e gli investimenti, in particolare nel Mezzogiorno.

23 gennaio 2019