I militari scippano la vittoria al popolo del Sudan
“No al regime militare dopo Bashir”
La rivolta è scoppiata il 19 dicembre 2018 a causa dell'aumento del prezzo del pane

 
Omar Hassan Ahmad al-Bashir prese il potere in Sudan 30 anni fa col golpe del 30 giugno 1989 con il sostegno della componente islamica dei Fratelli musulmani, quattro anni dopo, nel 1993, si mise alla guida del Paese fino all’11 aprile scorso, deposto da un golpe dei militari ma oramai sconfitto da mesi di proteste popolari; proteste che sono proseguite perché le opposizioni che hanno portato alla caduta del trentennale regime di Bashir non hanno intenzione di lasciare campo libero ai generali dell'esercito, molti dei quali rappresenterebbero una continuità del deposto presidente e che per farsi spazio hanno cercato e trovato appoggi nella cordata dei paesi arabi reazionari guidata dall'Arabia Saudita, quella all'offensiva con Haftar in Libia.
Nel suo curriculum Bashir può vantare la repressione dei movimenti nel Sud Sudan che nel 2005, con l'aiuto dell'imperialismo americano, riuscirono a staccarsi dal paese e privarlo delle risorse petrolifere della regione secessionista. Nei primi anni duemila il regime di Khartoum tornò sotto i riflettori per la sanguinosa repressione della ribellione in Darfur e per le responsabilità nei massacri compiuti dalla milizie arabe Janjaweed, al servizio del regime. Bashir, per i massacri in Darfur, fu condannato nel 2009, dalla Corte Penale Internazionale (CPI) per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Una condanna meritata ma dal volto ipocrita perché presa da un tribunale al servizio dell'imperialismo e del neocolonialismo, tanto che è stata la prima e finora unica condanna di questo tipo per un Presidente in carica mentre i macellai imperialisti abbondano in tutto il pianeta, uno per tutti il sionista Netanyahu.
La perdita delle risorse del Sud Sudan avevano ancora di più messo in difficoltà le già povere le masse popolari che nel 2013 dettero vita a una serie di proteste a Khartoum, brutalmente represse dalla polizia. A sei anni di distanza la protesta popolare contro il governo ripartiva il 19 dicembre 2018 ad Atbara, nel nord del Paese, si allargava rapidamente nelle zone rurali e dilagava nelle principali città da Port Sudan a Wad Madani, a Um Rawaba e Gadarif fino alla capitale, dove le sedi locali del partito di governo, il National Congress Party (NCP), erano assaltate e incendiate. A scatenare la rivolta popolare era stata in particolare la decisione del governo, di fronte alla crisi economica, di abolire i sussidi su vari generi di prima necessità che causavano tra l'altro un aumento del prezzo del pane, triplicato. La svendita delle terre ai paesi arabi del Golfo Persico e gli investimenti piovuti nel paese in particolare negli ultimi due anni dalla rivale dell'Arabia Saudita, il Qatar, non erano finiti a beneficio delle masse popolari. Nel frattempo il regime di Bashir, tramite il capo dei servizi Salah Gosh lavorava per chiudere definitivamente i rapporti con l'Iran e si stava avvicinando alla cordata di Riad e al regime sionista di Tel Aviv.
La guerra del pane aveva subito identificato come nemico principale il governo di
Khartoum, le proteste non si fermavano nonostante la repressione abbia causato la morte di oltre sessanta manifestanti, centinaia di feriti e migliaia di arresti; nella capitale le manifestazioni si ripetevano fino a diventare dal 6 aprile un presidio costante nel centro della città per tenere sotto assedio la sede delle Forze armate, organizzate dalle opposizioni coalizzate nel National Front for Change (NFC), dalle associazioni professionali, degli sutudenti universitari e dai sindacati. La rivendicazione unitaria diventava la richiesta di dimissioni del Presidente e il passaggio del potere a un organo collegiale col compito di varare riforme democratiche e gestire il periodo di transizione verso nuove elezioni.
L'esercito non interveniva contro i dimostranti, riservandosi un ruolo da gestore della crisi ma l'11 aprile, quando il Ministro della difesa Awad Mohamed Ahmed Ibn Auf annunciava l’arresto di Bashir e la costituzione di un consiglio militare che per due anni avrebbe guidato il paese in preparazione di elezioni democratiche, i manifestanti non smobilitavano. Tanto che lo stesso Ibn Auf già il 12 aprile lasciava la guida del golpe e garantiva che ci sarebbe stata una transizione verso un governo civile. Il generale era sostituito da un altro militare, Abdel Fattah Al-Burhane, meno conosciuto a livello internazionale ma evidentemente più che noto negli Emirati arabi e in Arabia Saudita, che con un comunicato ufficiale gli assicuravano il loro sostegno e disponevano l'invio di aiuti, petrolio, grano e medicinali del valore di 3 miliardi di dollari.
Il 20 aprile diverse migliaia di manifestanti erano di nuovo radunati davanti al quartier generale delle forze armate a Khartoum per una preghiera collettiva e per ribadire la richiesta delle dimissioni dell'attuale Consiglio militare, la costituzione di un consiglio provvisorio civile e la nomina di un’assemblea legislativa. Richieste appoggiate in maniera blanda dal Dipartimento di Stato americano e dall'Alto rappresentante dell’UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, l'italiana Federica Mogherini; il 15 aprile l’Unione Africana invece minacciava di sospendere il Sudan se il Consiglio militare non si fosse dimesso entro il 30 aprile.
Il 21 aprile il Consiglio militare ordinava la perquisizione nell’abitazione dell’ex presidente, trovava un tesoro del valore di 100 milioni di euro e accusava Bashir anche di riciclaggio. I rappresentanti dei manifestanti rispondevano con la rottura dei negoziati con i militari accusandoli di cercare di presentarsi “come parte del cambiamento” mentre invece sono in continuità col regime Bashir. La posizione dei manifestanti resta “No al regime militare dopo Bashir”.
 

24 aprile 2019