Liu He ritorna a Pechino a mani vuote
Nessun accordo sulla guerra commerciale tra l'imperialismo americano e quello cinese
Le merci cinesi vedranno aumentare i dazi dal 10 al 25%. Contro-dazi da parte di Pechino
Dal 10 maggio sono scattati gli aumenti dei dazi dal 10% al 25% su 200 miliardi di merci cinesi importati negli Usa come promesso dal presidente Donald Trump nel messaggino a inizio del mese. A nulla è valso l'ennesimo incontro ad alto livello tra le delegazioni americana e cinese che proprio il 9 e 10 maggio si è svolto a Washington e che non ha prodotto nessun accordo ma solo un inutile scambio di accuse sulle responsabilità del fallimento. La delegazione cinese era guidata dal vice primo ministro Liu He, che è anche ritenuto il principale consigliere economico del presidente Xi Jinping, a testimoniare la volontà del governo di Pechino di voler evitare lo scontro diretto, cercato e alimentato dalla Casa Bianca ma è tornato a casa a mani vuote.
Trump ha impresso una accelerazione alla sua politica che vuole riportare l'imperialismo americano al ruolo di prima e indiscussa potenza mondiale, un ruolo insidiatogli seppur a distanza sul piano militare dal concorrente imperialismo russo di Putin e conteso alla pari sul piano economico e finanziario dal concorrente socialimperialismo cinese; Trump, incassato il successo dell'intervento di Putin in Medio Oriente dove è divenuto ago della bilancia nella crisi siriana, si è appuntato sul petto la medaglia della vittoria sullo Stato islamico e continua a agire nell'area mediorientale con la coppia di alleati formata dai sionisti di Tel Aviv e dalla reazionaria monarchia saudita, ma si è mosso direttamente accendendo nel giro di due settimane la miccia della guerra in Venezuela per far fuori il governo legittimo di Maduro appoggiato da Russia e Cina, ha messo in moto la flotta nel Golfo Persico minacciando l'intervento militare contro l'Iran alleato di Putin e Xi e con l'ultimo aumento dei dazi ha salito un altro pericoloso gradino nella guerra commerciale contro la Cina. Che intanto ha risposto per le rime e varato dei contro-dazi.
Il ministero delle Finanze cinesi pubblicava il 13 maggio l'annuncio dell'aumento al 25% dei dazi su quasi 2.400 beni per un valore di 60 miliardi di dollari di esportazioni americane a partire dall'1 giugno, l'interruzione dei maggiori acquisti di prodotti agricoli ed energetici promessi nel corso dei negoziati e la riduzione degli ordini di aerei alla Boeing.
La guerra commerciale tra l'imperialismo americano e quello cinese già in corso aveva un sussulto lo scorso 5 maggio quando via tweet il presidente americano esultava perché “per 10 mesi, la Cina ha pagato dazi del 25% su 50 miliardi di dollari di prodotti high-tech e del 10% su altre merci per 200 miliardi. Questi pagamenti sono parzialmente responsabili per i nostri grandi risultati economici”. I dazi funzionano, sosteneva Trump che contemporaneamente annunciava per il 10 maggio l'aumento dal 10 al 25% e la possibilità di un aumento al 25% di altri prodotti cinesi per un valore di 325 miliardi di dollari finora non tassati. L'aumento dei dazi scattava proprio nella settimana nella quale era attesa a Washington la delegazione di Pechino per concludere la trattativa commerciale. “Il negoziato per l’accordo commerciale con la Cina continua, ma troppo a rilento, mentre loro cercano di ritrattare” accusava Trump che nei pochi caratteri del tweet sintetizzava quanto sarebbe accaduto nei giorni seguenti a volere dimostrare che anche in questa guerra il pallino è in mano all'imperialismo americano.
Appena tornato a Pechino il vice presidente Liu He dichiarava che i negoziati commerciali con gli Stati Uniti continueranno nella capitale cinese, quando non si sa. Il segretario al Tesoro Usa Steven Mnuchin ha dato quasi un ultimatum a Pechino per arrivare a dei risultati entro poche settimane, prima dell'incontro tra Xi e Trump al G 20 in Giappone di fine giugno. La Cina ha più volte detto che non vuol trattare con la pistola dei dazi puntata alla testa.
La posizione di Trump espressa nel suo tweet è chiara, la bilancia commerciale tra i due paesi è sfavorevole agli Usa che cercano di recuperare con la politica dei dazi. Quella cinese era spiegata da Liu He che anzitutto sosteneva che “la Cina non farà nessuna concessione in materia di principi” e illustrava i tre punti determinanti secondo la parte cinese per arrivare alla pace commerciale: che siano rimossi gli aumenti delle tariffe Usa, che ci siano maggiori acquisti di prodotti americani per riequilibrare il saldo commerciale ma sulla base delle necessità del mercato cinese e non solo per fare cassa, che il testo dell'accordo assicuri pari dignità ai due contendenti e non determini un vinto e un vincitore in quella che è già stata definita la più grave disputa commerciale dagli anni Trenta. Liu He impersonava il ruolo del negoziatore disponibile all'intesa, a certe condizioni, e lasciava al portavoce del ministero del Commercio Gao Feng minacciare che la Cina “è del tutto preparata” per la guerra commerciale con gli Usa, ha “la determinazione e la capacità per difendere i suoi interessi”, pur auspicando che le due parti “possano incontrarsi a metà strada”.
Trump vuole una rivincita sulla concorrente Cina e cerca risultati per la sua riconferma alla Casa Bianca ma deve mettere nel conto che una volta appiccato il fuoco rischia di bruciarsi le mani anche lui. Intanto il possibile terzo pacchetto di aumenti dei dazi annunciato dal tweet presidenziale del 5 maggio e confermato il 14 maggio dal Responsabile speciale al commercio Usa Robert Lighthizer colpirebbe, tra gli altri, prodotti quali l'elettronica di consumo. Prodotti che le multinazionali americane producono in Cina e vendono sui mercati mondiali al prezzo decuplicato, con un guadagno che i dazi ridurrebbero. Come dire che nell'economia globalizzata Trump rischia di darsi in parte la zappa sui piedi.
Ma la peggiore e più temuta ritorsione cinese potrebbe scattare in campo finanziario. Cina e Giappone sono tra i principali acquirenti dei titoli di stato emessi dal Tesoro Usa per coprire il sempre più profondo buco del debito americano; le aste del 7 e 8 maggio del Tesoro per la vendita di 38 miliardi di titoli a 3 anni e di 27 miliardi di dollari di bond decennali sono state disertate dalla Cina e finite con un fallimento. Un segnale arrivato dritto alla Casa Bianca ma che Trump si aspettava e ha al momento ignorato. Impegnato a esaminare altri campi di battaglia commerciali, dalle minacciate tasse contro le importazioni di auto dalla Ue all'abolizione già decisa dei privilegi commerciali su alcuni prodotti finora garantiti a India e Turchia.
15 maggio 2019