Lo stabilimento Whirlpool di Napoli non deve chiudere
Da due mesi Di Maio conosceva le scelte dell'azienda

Sono in bilico i 430 posti di lavoro della Whirpool, più altri 1.500 dell'indotto, dopo che la multinazionale americana produttrice di elettrodomestici ha deciso di chiudere lo stabilimento di Napoli. L'ultimo incontro al Ministero dello sviluppo economico (Mise) del 12 giugno ha lasciato ancora tutto in sospeso.

Desertificazione industriale
Quella della Whirlpool è l'ultimo atto di una lunga serie di chiusure e delocalizzazioni che hanno portato alla desertificazione industriale della Campania. Nel territorio tra Caserta e il capoluogo partenopeo si producevano televisori, frigoriferi, lavatrici, piani cottura; un polo industriale che assieme all'indotto negli anni '80 occupava circa 8mila persone e assieme al resto del Paese facevano dell'Italia il maggior produttore di elettrodomestici.
La delocalizzazione nei Paesi dell'Est europeo e in Asia, la crisi dei consumi in Europa, hanno portato alla chiusura di molte fabbriche e marchi storici italiani, che sono stati venduti o hanno chiuso i battenti. Whirlpool è entrata prepotentemente in Italia (con i finanziamenti dell'Unione Europea) insediandosi in numerosi stabilimenti tra cui quelli di Napoli (ex Ignis) e di Carinaro (CE), aggiunto attraverso l'acquisizione dell'Indesit nel 2014 che Renzi, allora al governo, definì “ un'operazione fantastica”.
Lo stabilimento casertano è già stato ridotto ai minimi termini da Whirlpool EMEA (la divisione Europa, Medio Oriente e Africa). Degli oltre 5mila dipendenti degli anni '90 ne sono rimasti prima 800 e, dopo la cessazione della produzione e la trasformazione in centro logistico per i ricambi, circa 200 che adesso, assieme ai colleghi di Napoli, rischiano il posto di lavoro.
Alla fine di maggio l'azienda ha annunciato che “nonostante le diverse azioni finanziarie e industriali messe in campo, i volumi e i piani per lo stabilimento sono diventati insostenibili. Per questa ragione, Whirlpool EMEA intende procedere con la riconversione del sito e la cessione del ramo d’azienda a una società terza in grado di garantire la continuità industriale allo stabilimento e massimi livelli occupazionali, al fine di creare le condizioni per un futuro sostenibile del sito napoletano”.
La multinazionale americana ha quindi intenzione di lasciare Napoli, trasferirne la produzione altrove (sembra in Polonia) e vendere la fabbrica al primo acquirente. Un colpo durissimo per un'area metropolitana che in pochi decenni ha visto perdere quasi tutte le industrie che si trovavano sul suo territorio.

La reazione dei lavoratori
La reazione dei lavoratori e di tutta la città è stata molto forte perché ci si sta rendendo conto che questa deindustrializzazione non è più sostenibile in una provincia e una regione dove la disoccupazione supera il 20% mentre quella giovanile sfonda addirittura il 50%. Una situazione drammatica che alimenta un'emigrazione da allarme demografico: in venti anni la Campania ha perso quasi mezzo milione di abitanti.
Fin dall'annuncio gli operai hanno presidiato lo stabilimento. Ripetutamente sono sfilati per le vie del quartiere Ponticelli e nel centro città. Nell'assemblea svolta il 5 maggio i lavoratori hanno espresso tutta la loro rabbia e la volontà di lottare contro qualsiasi ipotesi di chiusura o ristrutturazione. Anche di domenica la mobilitazione non si è fermata e il 16 giugno gli operai hanno marciato in corteo alla volta del consolato americano davanti al quale hanno intonato cori ed esposto striscioni gridando: ”Napoli non molla” e “lo stabilimento di Ponticelli non si tocca”.
Durante lo sciopero generale dei metalmeccanici del 14 giugno, alla manifestazione di Napoli che radunava i lavoratori di tutto il sud, il corteo è stato aperto dalle combattive donne della Whirlpool. Era presente anche la Cellula “Vesuvio Rosso” del PMLI che ha diffuso centinaia di volantini contro il governo nero Salvini-Di Maio e quelli in appoggio alla lotta dei lavoratori degli stabilimenti campani della Whirlpool.

La demagogia di Di Maio e De Magistris
Circa un migliaio di lavoratori in pullman erano giunti anche a Roma il 12 giugno per essere presenti all'incontro tenutosi al Mise tra Di Maio e i responsabili della multinazionale americana in Campania, dopo che il ministro dello Sviluppo economico aveva invitato la Whirlpool a rispettare gli accordi sottoscritti a ottobre 2018.
Di Maio, che ha firmato personalmente quell'intesa, ha cercato di mostrare la faccia dura affermando: “è finita l'epoca del bengodi”, “lo Stato si farà rispettare”. Il vice-premier 5 Stelle ha definito la condotta di Whirlpool inaccettabile, “hanno preso 50 milioni di euro dal 2014 ad oggi e io inizio a revocargli i fondi perché non sono stati collaborativi, continuano a dire che vogliono disimpegnarsi dallo stabilimento di Napoli". Firmando in diretta Facebook tre atti d'indirizzo per la revoca dei finanziamenti a Whirlpool ha aggiunto: "Verificheremo fino all'ultimo euro che potremo togliergli".
Di fronte all'annuncio della chiusura Di Maio è sembrato cadere dalle nuvole ma è accusato di essere stato al corrente delle intenzioni dell'azienda da due mesi. Il suo predecessore al Mise Carlo Calenda, e il sito Politico lo accusano di aver preferito tacere vista l'imminenza delle elezioni europee e amministrative del 26 maggio. L'interessato smentisce mentre l'azienda tace, almeno fino al prossimo incontro previsto per il 21 di giugno.
In ogni caso in quell'accordo si diceva che il Mise avrebbe monitorato continuamente l'attuazione del piano d'investimenti e sviluppo che la Whirlpool aveva promesso per tutti gli stabilimenti italiani e che era tenuta a mantenere per tutte le agevolazioni ottenute, compreso l'allungamento dei “contratti di solidarietà” a Napoli fino al 2020. Non a caso i lavoratori erano preoccupati da mesi tanto che, di fronte allo stallo e alla mancanza di notizie, ad aprile le RSU degli stabilimenti di Napoli e Carinaro avevano indetto uno sciopero.
Adesso tutti sembrano accorgersi che le multinazionali non guardano in faccia a nessuno e di fronte a prospettive di maggiori profitti non hanno esitazioni a cancellare con un tratto di penna centinaia o migliaia di posti di lavoro. Il consiglio comunale di Napoli, in riunione straordinaria monotematica e alla presenza di decine di operai e dei rappresentanti sindacali, con un documento votato all'unanimità si è schierato con i lavoratori in lotta.
Ben vengano quindi le prese di posizione a difesa degli operai Whirlpool, anche quelle delle cosiddette istituzioni. Non bisogna però farsi abbagliare dalle parole roboanti di Di Maio e De Magistris perché più che gli interessi dei lavoratori costoro hanno a cuore quelli elettorali. Gli stessi che muovono l'attuale sindaco. La sua giunta, come quelle precedenti, non ha mai messo al primo posto il lavoro e il contrasto alla deindustrializzazione, che in una città con indici di disoccupazione drammatici sarebbe d'obbligo.
Fin dai tempi di Bassolino e del suo “rinascimento” si è sempre preferito lucidare il centro cittadino, fare opposizione di facciata alla camorra, credendo di campare solo con il turismo mentre i quartieri periferici languono nell'indifferenza e la criminalità dorme tranquilla favorita dal dilagare della disoccupazione e dall'abbandono di intere zone industriali finite nel degrado o nelle mani della speculazione edilizia.

La Whirlpool non deve chiudere né ristrutturare
Per adesso la forte mobilitazione sembra aver momentaneamente fermato la Whirlpool che nell'ultimo incontro al Mise ha confermato a ministro e sindacati di non aver intenzione di chiudere il sito di Napoli e tanto meno di volersi disimpegnare dal futuro dello stabilimento e dei suoi 430 dipendenti, mostrandosi quindi disponibile a ragionare sul proseguimento dell'attività’. Ma i lavoratori non si fidano di un'azienda che rinnega gli accordi firmati appena sei mesi prima perciò terranno alta la mobilitazione.
La Whirlpool, che ha ottenuto aiuti per milioni di euro, ha chiesto continui sacrifici ai lavoratori e raggiunto dei lauti profitti non deve assolutamente chiudere lo stabilimento di Napoli. I lavoratori non chineranno di certo la testa e lo Stato dovrà costringere l'azienda a continuare la produzione senza chiedere ulteriori ristrutturazioni con altri “esuberi”.
La politica che ha mosso i governi precedenti e l'attuale, che si definisce “sovranista”, è stata quella di permettere alle multinazionali di appropriarsi dei marchi e delle conoscenze professionali dei lavoratori italiani, ottenere lauti finanziamenti dallo Stato e deroghe ai contratti e alle leggi italiane, per poi lasciare dietro di se fabbriche vuote e operai sul lastrico. Se si continua di questo passo l'industria, quanto meno nel Mezzogiorno, sparirà del tutto.
Si dice che l'Unione Europea non permette l'intervento dello Stato nell'economia, e anche questo è un altro motivo per stare fuori dalla UE. Anche se questo non è vero fino in fondo perché la recente vicenda FCA-Renault ha mostrato che lo Stato francese non solo detiene la quota maggiore, ma decide le scelte strategiche delle aziende più significative e non dice di sì a qualsiasi condizione.
Cosa che invece succede in Italia dove si spalancano porte a qualsiasi azienda che investe nel nostro Paese, sacrificando i diritti e i salari dei lavoratori e spesso anche la salute della popolazione. Non si tratta di schierarsi con i capitalisti italiani (come fanno i sindacati confederali) contro quelli stranieri, ma di difendere posti di lavoro ed evitare di gettare nella disperazione centinaia di famiglie.
 

19 giugno 2019