La governatrice Carrie Lam annuncia: “Il progetto di legge sull'estradizione è morto”
Occupato il parlamento di Hong Kong
Pechino lo considera “un grave atto illegale”, “una sfida deliberata ai presupposti fondamentali di uno Stato, due sistemi”
L'1 luglio i manifestanti sono entrati nella sede del parlamento di Hong Kong, lo hanno occupato e hanno affrontato la polizia che in tenuta antisommossa è entrata nel palazzo e a forza di manganellate e lacrimogeni li ha cacciati; il bilancio parla di almeno 54 feriti di cui tre gravi. La manifestazione e l'occupazione pur breve dell'assemblea legislativa ha avuto un evidente significato politico, è caduta nel ventiduesimo anniversario del ritorno di Hong Kong alla Cina.
A poca distanza dalla sede del parlamento altre decine di migliaia di manifestanti partecipavano all'inziativa organizzata dal Civil Human Rights Front, l’organizzazione che ha promosso le proteste contro la modifica alla legge sulle estradizioni per renderle possibili in particolare verso la Cina. La polizia interveniva anche contro questa manifestazione e la disperdeva con la forza; oltre 50 i dimostranti feriti.
Lo scorso 15 giungo la governatrice di Hong Kong, Carrie Lam, a fronte delle forti proteste esplose nel paese annunciava che la modifica della legge sulle estradizioni era “sospesa, senza nessuna data ultima” per l’approvazione. Si trattava di una vittoria parziale per i manifestanti che l'avevano contestata con l'accusa di limitare l’autonomia dell’ex colonia a favore di una maggiore ingerenza da parte di Pechino. Il 9 luglio la governatrice faceva un altro passo e aggiungeva che “il progetto di legge è morto”. Rappresentanti del movimento di protesta sottolineavano che la Lamm non aveva annunciato ufficialmente il ritiro definitivo e chiedevano che il testo fosse rimosso immediatamente dall'ordine del giorno del parlamento senza attendere che scadesse automaticamente nel luglio 2020, alla fine della prossima sessione parlamentare.
I manifestanti erano già entrati nella sede del parlamento durante le proteste del 12 giugno quando avevano impedito l'avvio della discussione della legge; il 16 giugno erano in due milioni in piazza contro la legge, per chiedere le dimissioni della governatrice e la garanzia della libertà per i manifestanti arrestati nei giorni precedenti e accusati di sommossa.
Alla sospensione delle modifica della legge sulle estradizioni annunciata a metà giugno il movimento di protesta non aveva giustamente smobilitato e aveva continuato a tenere sotto pressione l'amministrazione locale ritenendo che la questione della legge fosse solo uno dei tanti passaggi coi quali il governo di Pechino potrebbe accelerare il percorso di inglobamento della città governata in base a un protocollo che ne preserva l'autonomia politica, economica e giudiziaria fino al 2047, come definito nell'intesa negoziata nel 1997 tra la Cina e l'ex potenza coloniale inglese.
Chiamato in causa dall'occupazione del parlamento dell'1 luglio il governo di Pechino affidava il primo commento a un editoriale dello Huanqiu Shibao, il quotidiano affiliato al Quotidiano del Popolo, l'organo di stampa del Partito Comunista Cinese che ammoniva: “i manifestanti hanno fatto irruzione nel parlamento e questa è una linea rossa che assolutamente non può essere varcata”. Successivamente un portavoce dell’Ufficio per gli affari di Hong Kong e Macao affermava che l'occupazione della sede del Consiglio legislativo era un “grave atto illegale che calpesta lo Stato di diritto, mina l’ordine sociale e gli interessi fondamentali di Hong Kong. È una sfida deliberata ai presupposti fondamentali di uno Stato, due sistemi”. I socialimperialisti di Pechino non possono cedere sul meccanismo di “uno Stato due sistemi”, ossia la convivenza per un certo periodo di una autonomia regionale a livello amministrativo ed economico, accanto alle competenze dello Stato centrale; un meccanismo che vorrebbero attuare anche per riprenderesi, quando sarà possibile, il controllo di Taipei e che di conseguenza non può fallire a Hong Kong.
10 luglio 2019