La Corte suprema britannica all'unanimità
Illegale la sospensione del parlamento
Il golpista Johnson costretto a riaprire la Camera dei comuni
La Corte Suprema britannica all'unanimità dichiarava “illegale, nulla e senza effetto” la decisione di sospendere i lavori parlamentari dal 9 settembre al 14 ottobre, la data fissata per il discorso annuale della Regina di presentazione del programma di governo. La chiusura del parlamento era voluta dal premier Boris Johnson per pilotare la Gran Bretagna lungo quella che è diventata una rotta di collisione con la Ue all'approssimarsi della data limite della Brexit, dell'uscita con un accordo più vantaggioso di quello già definito con la Ue o senza accordo, il no deal. Il percorso deciso dal premier ha avuto l'approvazione del suo sponsor d'oltre oceano, il fascista americano Donald Trump, non prevede intralci dall'assise di Westminster, dove ha perso la maggioranza con 21 deputati conservatori espulsi dal gruppo perché hanno votato contro il no deal, e della Camera dei Lord. Il piano del premier era avallato dalla regina Elisabetta II che emanava il provvedimento di chiusura ma era bocciata dalla Corte il 25 settembre.
L'ultimo atto della Camera dei comuni era stato proprio il varo di una legge, il cosiddetto Benn Act, che stabiliva l'impossibilità dell'uscita del paese dalla Ue senza un accordo che doveva essere presentato almeno entro il 19 ottobre. Da questo passaggio ripartiva a fine settembre il lavoro del parlamento che il golpista Johnson voleva imbavagliare.
La Corte suprema britannica era intervenuta sulla questione della sospensione dei lavori parlamentari su richiesta di una attivista contraria alla Brexit che aveva visto un suo ricorso approvato dall’Alta Corte scozzese ma bocciato da quella inglese che aveva giudicato la sospensione di Westminster “materia puramente politica e non di competenza dei tribunali”. Una sentenza ribaltata dalla Corte suprema che
sottolineava come “la prolungata sospensione della democrazia parlamentare è avvenuta in circostanze eccezionali” a ridosso del “cambiamento fondamentale che sarebbe intervenuto nella Costituzione del Regno Unito il 31 ottobre“ e sosteneva che “il Parlamento, ed in particolare la camera dei Comuni come rappresentante eletto del popolo, ha diritto di parola su come questo cambiamento debba avvenire”. “Gli effetti sui principi fondamentali della democrazia sono stati estremi”, sosteneva la Corte che nel dichiarare la richiesta del premier alla Regina un atto “immotivato e inaccettabile in termini di limitazione di sovranità e poteri di controllo parlamentari”, definiva di fatto Boris Johnson un golpista.
Una censura del comportamento del premier altrettanto rara come la richiesta a Elisabetta II l’autorizzazione a una sospensione straordinaria del Parlamento, la prima dal 1948 che evidenziano lo stato di fibrillazione e di difficoltà della borghesia britannica nel trovare una soluzione al suo divorzio da quella europea.
La Ue, forte dell'intesa definita col precedente governo di Theresa May, bocciata ben tre volte in parlamento dalle opposizioni e dalla fronda dei conservatori guidati da Johnson, stava a guardare cosa succedeva a Londra, salvo mandare un messaggio apparentemente ultimativo. Il premier finlandese e presidente di turno dell’Unione Europea Antti Rinne, dopo una consultazione col presidente francese Emmanuel Macron tanto per registrare chi comanda nella Ue, chiedeva il 19 settembre al governo britannico di presentare una proposta scritta sulla Brexit entro 12 giorni, altrimenti sarebbe scattata la modalità no deal.
Al presidente Ue rispondeva un portavoce di Downing Street, che si predeva beffa definiva dell'ultimatum, definito una “scadenza artificiale” e indicava il Consiglio Europeo del 17 e 18 ottobre come il termine ultimo per un’intesa. Consiglio che al momento ha all'ordine del giorno il bilancio a lungo termine dell'Ue e la discussione sull'agenda strategica e le priorità per l'Ue per il periodo 2019-2024, oltre alla ufficializzazione della nuova Commissione europea e del nuovo presidente della BCE se nel frattempo hanno ottenuto il via libera del Parlamento europeo.
Boris Johnson si limitava a dichiarare che nonostante la chiusura delle aule i deputati avrebbero potuto esprimere la loro opinione “sul discorso della Regina e sul programma di Governo prima del Consiglio europeo del 17 ottobre e poi votare il 21 e 22 ottobre una volta noto l’esito del summit”. Un percorso dai tempi contingentati per i parlamentari e che nei disegni del premier avrebbe portato al risultato che il 31 ottobre il Regno Unito sarebbe uscito comunque dall’Unione europea. Posizione ribadita anche dopo la sentenza della Corte.
2 ottobre 2019