Le miliardarie forniture belliche dell'Italia alla Turchia
Incalzato dall'indignazione popolare e dalle combattive manifestazioni contro l'invasione turca e la pulizia etnica dei curdi del Nord della Siria, il 16 ottobre il premier Conte e il ducetto Cinquestelle Di Maio, invece di rompere immediatamente le relazioni diplomatiche col governo fascista, imperialista e colonialista di Erdogan, si è limitato a varare un semplice decreto ministeriale interno alla Farnesina “per bloccare le vendite future di armi alla Turchia e per avviare un'istruttoria sui contratti in essere” che non avrà alcun effetto concreto sull'aggressione in corso e men che meno contribuirà a fermare il massacro del popolo curdo.
L'embargo-truffa sulla vendita delle armi alla Turchia, tra l'altro arrivato in ritardo rispetto a tutti gli altri Paesi europei, è stata addirittura spacciato da Conte e Di Maio come “una moratoria unilaterale per evitare ulteriori sofferenze al popolo siriano, in particolare curdo, e contrastare iniziative destabilizzanti della regione”.
Ma nessuno dei due spiega che si tratta in realtà di una moratoria a futura memoria che non è retroattiva e che quindi non avrà alcun effetto né sui contratti già in essere né sulle forniture belliche già in atto e che quindi proseguiranno nei prossimi giorni. Come ad esempio i micidiali elicotteri Agusta A129 Mangusta “orgoglio nazionale turco” prodotti dal colosso pubblico Leonardo, dotati di strumenti e sistemi elettronici all'avanguardia nel mondo, in grado di individuare gli obiettivi con un sofisticato radar e un sistema infrarossi a cui non sfugge nulla neppure di notte; armati con una torretta e un cannone a tre canne rotanti con sistema di puntamento a vista (per puntarlo basta che il pilota guardi il bersaglio e l’arma segue il suo occhio) in grado di sparare 500 colpi in meno di un secondo. Hanno la cabina, motori e trasmissioni super blindati. Possono lanciare 76 razzi che trasformano l'intero perimetro di attacco in un inferno. Sono in grado di guidare missili che sbriciolano i bunker e sono perfino dotati di un sistema in grado di deviare e neutralizzare i missili terra-aria.
Per i curdi fermarli è quasi impossibile.
Non a caso Erdogan ha dichiarato che di tutti gli armamenti di cui dispone l'esercito turco, i velivoli Agusta A129 Mangusta progettati dal gruppo Leonardo sono l’unica arma insostituibile. Erdogan ne possiede già una quarantina e sono già tutti impiegati in prima linea nell'aggressione contro i curdi nel Nord della Siria.
"Leonardo - precisa la società - opera nel rispetto delle normative nazionali, europee, internazionali e Nato sull’esportazione militare. Nel caso di evoluzioni del quadro normativo, Leonardo naturalmente si adeguerà alle nuove direttive nazionali". Sic!
Ma si dà il caso che il contratto per i Mangusta risale al 2007, quando la Turchia era ancora a un passo dall’entrare in Europa. E all'epoca Erdogan non si limitava a comprare gli elicotteri italiani, ma chiedeva e otteneva dal governo italiano anche tutto quello che serviva per costruirli in casa. E per questo ha pagato una cifra enorme: Finmeccanica ha incassato un miliardo e 79 milioni soltanto per la licenza, l’assistenza e i prototipi. Altri 300 milioni ha ricevuto nel 2010 per una fornitura rapida di nove Mangusta. In più il contratto con Finmeccanica consentiva il salto di qualità nell’industria aeronautica, con i tecnici italiani che hanno insegnato tutto ai turchi e per cui Ankara ha sborsato oltre tre miliardi.
"Abbiamo superato gli ostacoli, realizzando gli elicotteri che pattugliano orgogliosamente i nostri cieli" ha dichiarato il fascista Erdogan. Il contratto prevede di costruirne 52, più un’opzione per altri 41: questi ultimi destinati ai reparti del ministero dell’Interno, ossia i giannizzeri del regime quasi completamente dotati di apparati made in Turkey
, ma Leonardo continua a ricevere secondo contratto una ingente somma per ogni esemplare assemblato ad Ankara.
Lo stesso discorso vale per i micidiali cannoni automatici Oerlikon da 25 mm, 600 colpi al minuto, installabile su navi da guerra e carri armati, assemblati dalla Rheinmetall spa, controllata italiana del colosso tedesco degli armamenti Rehinmetall Defence con sede in via Affile, tra i capannoni della zona industriale di Settecamini, a Roma, sulla cui esportazione in Turchia il decreto interministeriale di Conte e Di Maio non avrà alcun effetto perché, come ha rivelato “Repubblica”, la società italiana ha ricevuto nel maggio del 2016 un ordine per 12 cannoni Oerlikon dalla Aselsan Elektronic, fornitrice delle forze armate turche. Valore: due milioni e mezzo di euro. Il contratto è stato approvato tre anni fa dalla Farnesina, e in particolare dall’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento da cui passano tutte le esportazioni di questo tipo. A quanto risulta, la Rheinmetall Italia ne ha già consegnati uno nel 2017, cinque nel 2018, due nel marzo scorso, e uno già pronto per essere spedito nonostante il presunto embargo.
I quattro Oerlikon ancora da consegnare, infatti, sono stati ordinati tre anni fa, quindi sono fuori dallo "stop solo alle nuove licenze" sbandierato dal ducetto Di Maio. Anche perché nel solo 2016 la Farnesina ha concesso 75 licenze per vendere armi alla Turchia, con un valore totale dell’export di 133 milioni di euro. Quanti di quei siluri, razzi, missili e accessori sono stati già spediti? Quante armi di calibro superiore a 12,7 mm (una delle categorie delle licenze) sono ancora da consegnare all’esercito turco? E ancora, quanti esplosivi e quanti combustibili militari prenderanno il volo nei prossimi giorni verso Ankara, se l’embargo italiano ed europeo non sarà valido per i contratti già in essere?
Per non parlare degli aerei ATR 72-600 in versione da trasporto o antisommergibile piazzati sempre da Leonardo alla Marina turca.
"Se a fine 2019 e dopo l’inizio dell’invasione della Siria — osserva Francesco Vignarca, della Rete disarmo — si stanno ancora portando in Turchia armamenti autorizzati nel 2016 allora abbiamo ragione: è fondamentale che anche dopo il rilascio di una licenza continui il monitoraggio. Inoltre è chiaro come un embargo efficace debba comprendere anche i vecchi contratti, altrimenti le consegne potrebbero andare avanti per anni e l’annunciato decreto avrebbe solo una valenza politica”.
Nel 2017 le più grosse aziende italiane del comparto armamenti (fra cui Vitrociset, Beretta e appunto Leonardo) hanno avuto licenze per commesse dalla Turchia per per 265 milioni, nel 2018 per 362 milioni, nei primi sei mesi del 2019, secondo l’Istat, sono state trasferite munizioni e armi per 46 milioni di euro. Mezzo miliardo di euro negli ultimi tre anni.
Secondo il Sipri, l’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma che monitora il “mercato della difesa”, che ha classificato le prime 100 società produttrici di armi e servizi militari al mondo (escluse quelle cinesi, i cui dati non vengono resi noti) il 2017, l’ultimo anno per il quale i dati sono disponibili, ha visto un aumento del fatturato globale del 2,5% rispetto ai 358,2 miliardi di euro del 2016.
Nella speciale classifica gli Stati Uniti la fanno da padrone, con cinque società nella “top ten” e i tre gradini del podio con la prima (Lockheed Martin), seconda (Boeing) e terza ( Raytheon). Delle altre cinque aziende tra le prime dieci, una è inglese (Bae Systems), una francese (Thales), un altro è un consorzio europeo (Airbus). Al nono posto c’è proprio l’italiana Leonardo (ex Finmeccanica), che nonostante l’aumento del fatturato ha perso una posizione rispetto al 2016, e la decima è russa (Almaz-Antey). Tra i top 100 figura la Fincantieri alla 58esima posizione.
Ma anche tutte le altre grosse aziende italiane hanno interessi enormi in Turchia. Sono oltre 1.400 le società italiane che hanno stabilimenti sul suolo turco. Dal 2002 hanno investito 2,6 miliardi. C’è innanzitutto Fca, l’ex Fiat, presente a Bursa dal 1968 e leader in Turchia grazie alla joint venture Tofas con Koç, maggiore gruppo industriale privato nazionale, oltre che con le controllate Iveco e Cnh Industrial Turk Traktor. Pirelli è presente dal 1960 con la fabbrica di Izmit, ma oggi, fa sapere, si tratta di “un business residuale”. In Turchia ci sono poi Çimentas del gruppo Cementir, Prysmian (cavi), Luxottica- Essilor ( occhiali), gruppo Miroglio e Benetton (tessile e moda), Recordati e Menarini (farmaceutica), Mapei e Versalis (la società chimica del gruppo Eni), Bialetti, Ariston, Ferroli, nell’alimentare Barilla (dal 1994 con lo stabilimento di Bolu) e Ferrero (che dalla Turchia importa una grande quantità di nocciole), Eataly e Perfetti Van Melle (dolciaria) e ancora Candy (elettrodomestici), il gruppo integrato Maccaferri.
Nel settore delle costruzioni sono presenti Italferr (gruppo Ferrovie dello Stato), Salini, Trevi e Astaldi la quale dagli anni 80 ha costruito le autostrade dell’Anatolia e Gebze-Orhangazi-Izmir, la metropolitana e il ponte Haliç a Instanbul oltre un terminal all’aeroporto di Milas-Bodrum.
Negli impianti per l’energia c’è una controllata del gruppo Sicim di Busseto (Parma). Nella finanza Generali e Azimut, il gruppo di gestione del risparmio, ma soprattutto UniCredit, che in partner ship con Koç controlla il 41% di Yapi Kredi, quarta banca retail del Paese. Anche se nelle ultime settimane UniCredit ha fatto trapelare l’intenzione di scorporare la sua quota di Yapi in una subholding dove saranno raggruppate tutte le controllate estere, forse per quotarla in Borsa.
In Turchia ci sono anche le aziende di armi Vitrociset, Beretta e Leonardo, che su sua licenza vi fa produrre elicotteri Mangusta. C’è poi Saipem che nel 2005, alla presenza di Erdogan Berlusconi e Putin, ha consegnato alla Turchia il gasdotto Blue Stream, costruito in joint venture con la russa Gazprom, che trasporta gas naturale dalla Russia attraverso il Mar Nero.
Ecco perché il governo Conte e il ducetto Di Maio si guardano bene dal rompere le relazioni diplomatiche con la Turchia e cessare definitivamente le forniture belliche al fascista Erdogan.
Tutto ciò in barba all’articolo 11 della Costituzione e alla legge 185 del 1990 che proibisce di esportare armi a Paesi in guerra o che violano i diritti umani.
23 ottobre 2019