No ai tagli all'ex Ilva di Taranto
L'azienda va nazionalizzata
Nuove nubi nere si addensano sopra l'ex Ilva di Taranto. Gli attuali proprietari di Arcelor-Mittal hanno infatti annunciato, tramite il nuovo Amministratore Delegato Lucia Morselli, che potrebbero cambiare i piani delle acciaierie, minacciandone il ridimensionamento con i conseguenti licenziamenti di migliaia di lavoratori. L'azienda per scongiurare tutto ciò pretende che il governo ripristini immediatamente lo “scudo penale” nei suoi confronti.
Lo “scudo penale”
La norma fu introdotta ai tempi del governo Renzi dall’ex ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, ancor prima che entrasse in gioco Arcelor Mittal. All’epoca, nel 2015, l’obiettivo era dare una copertura a chi era disposto a svolgere il ruolo di commissario, visto che nessuno avrebbe accettato il rischio di essere perseguito. Dopo di che, lo scudo fu garantito anche al gruppo franco-indiano, sempre con la stessa logica: chi lavora nell’interesse dell’acciaieria non può essere accusato di reati che traggono origine dalla condotta dei precedenti gestori.
Una sorta d'immunità che fu giustamente criticata da molti cittadini tarantini perché metteva la loro salute in secondo piano e permetteva a chiunque fosse diventato il proprietario dell'acciaieria di eseguire senza fretta gli inderogabili e urgenti interventi necessari ad abbassare drasticamente l'impatto ambientale della fabbrica ex-Ilva. Arcelor-Mittal aveva chiesto e ottenuto la proroga di questo “scudo legale”.
Nel recente decreto “salva imprese”, che ha ottenuto il via libera del Senato il 24 ottobre, questa norma non è stata reinserita, ed è la seconda volta che succede.
La prima retromarcia è arrivata lo scorso giugno, quando il governo Salvini-Di Maio, per volere dei pentastellati, inserì nel decreto Crescita un emendamento che limitava al 6 settembre 2019 l’immunità penale sull’attuazione del piano ambientale. Con questa formula di compromesso, i pentastellati speravano di recuperare parte del consenso perduto dopo la mancata chiusura dell’acciaieria pugliese, una promessa elettorale non mantenuta.
A quel punto Arcelor Mittal, che senza lo scudo non avrebbe mai rilevato lo stabilimento, minacciava di chiudere l’acciaieria se il governo non avesse ripristinato l’immunità. Col risultato che sul finire del governo Lega/5Stelle, Luigi Di Maio faceva reinserire lo scudo penale nel decreto Salva imprese. Alla fine la norma è stata stralciata via emendamento dopo le proteste di 17 senatori M5S.
Il ministro del Sud, Giuseppe Provenzano (Pd), sostiene che in realtà Arcelor Mittal è già tutelata dalla legge italiana. “Per l’articolo 51 del Codice penale chiunque agisce nell’adempimento di un dovere come per il piano ambientale non è punibile, tanto meno per colpe di altri ed errori commessi in precedenza. Dunque, una tutela c’è. Gli accordi con Arcelor Mittal restano validi. Non ci sono alibi o pretesti”. Ma non sembra pensarla così il gruppo franco-indiano, che finora non ha ritirato la minaccia di chiudere l’acciaieria. Anzi, la nomina del nuovo AD Lucia Morselli, che ha già tagliato centinaia di posti di lavoro in altre aziende siderurgiche non lascia presagire nulla di buono ai lavoratori dell’ex Ilva.
Le minacce di Arcelor-Mittal
Insomma, un vero e proprio pasticcio che sembra fatto apposta per dare ad Arcelor-Mittal il pretesto per tagliare drasticamente l'occupazione. Il colosso euroasiatico vuol far quadrare i suoi conti, che con la crisi e la diminuzione del consumo d'acciaio non sono più rosei come previsto. La produzione di questo primo anno si è attestata sui 4,5 milioni di tonnellate contro le 5 stimate alcuni mesi fa e lontano dalle 6 concesse dall'Autorizzazione integrata ambientale (Aia), e ben al di sotto delle capacità produttive dello stabilimento pugliese.
Tra le opzioni la prosecuzione della cassa integrazione, che attualmente coinvolge un migliaio di lavoratori su 10mila, e l'ipotesi estrema dello spegnimento degli altiforni che getterebbe sul lastrico ben 5.000 addetti. Per questo i sindacati Cgil, Cisl e Uil hanno chiesto ad Arcelor-Mittal di rispettare l'accordo dello scorso anno e la salvaguardia dei posti di lavoro, e al governo di non fornire pretesti alla multinazionale ripristinando lo “scudo legale”, limitatamente al piano ambientale, che non deve includere, ad esempio, la sicurezza e gli infortuni sul lavoro.
Se l’ex Ilva chiudesse, nell'immediato 5mila persone (e poi fino a 15mila) perderebbero il lavoro, inoltre molte aziende italiane verrebbero private delle forniture d’acciaio garantite da Taranto e sarebbero costrette a rivolgersi all’estero, con il rischio di prezzi più alti e qualità più scadente- E tuttavia occorre tener presente che lo stabilimento è la principale fonte che ha reso Taranto una delle città più inquinate d'Europa.
Conflitto tra lavoro e ambiente
Dobbiamo considerare che quello di Taranto è l'impianto siderurgico più grande d'Europa, Un impianto a “ciclo integrale” tradizionale, ovvero che impiega le materie prime così come si trovano in natura (minerali, fossili). Queste arrivano via mare e vengono trasferite da un nastro trasportatore verso ampie aree di stoccaggio all’aperto e messe a parco (parco minerali). Il materiale è poi destinato alla cokeria, ossia l'impianto per la trasformazione del carbon fossile in carbon coke, e successivamente, trasferito all’altoforno, cuore di tutto il complesso, per la produzione della ghisa liquida, che a sua volta verrà “affinata” in acciaieria.
Questo tipo di lavorazione ha un forte impatto sull'ambiente e sulla salute dei cittadini, essendo lo stabilimento ubicato in un'area a forte densità abitativa, dove si è continuato a costruire a ridosso della fabbrica. Ciò ha reso ancor più acuto il conflitto tra ambiente e sviluppo, tra occupazione e salute che ha diviso i cittadini tra coloro che vorrebbero che l’acciaieria continui a produrre e chi invece ne auspica la totale chiusura.
Il parco minerali genera polveri sottili di ferro e carbone, i forni di cottura del carbon coke producono idrocarburi policiclici aromatici: benzene, toluene e xileni; i fumi di altoforno sono densi di monossido di carbonio e zolfo, il trattamento della ghisa produce solfuro di magnesio e zolfo; i convertitori a ossigeno che trasformano la ghisa liquida in acciaio generano monossido di carbonio ed anidride carbonica. L’acqua di raffreddamento dell’altoforno e di raffreddamento delle colate di lingottiera si contamina di metalli pesanti, ammoniaca, fenolo, cianuri.
L'ex Ilva non deve chiudere, va nazionalizzata
Le polveri sottili e le emissioni sono quindi gli imputati numero uno, ma esistono le tecnologie per ridurre drasticamente gli effetti inquinanti. Naturalmente una fabbrica di questo tipo e di queste dimensioni necessita di una politica ambientale rigorosa e finanziariamente onerosa, assai diversa da quella tenuta fino ad ora. Dubitiamo fortemente che questa sia la volontà di Arcelor-Mittal, che non effettua nemmeno la manutenzione ordinaria degli impianti (vedi i numerosi infortuni mortali).
Per questo l'Ilva deve essere nazionalizzata, l'unica strada in grado di mettere in campo un piano che possa salvaguardare posti di lavoro e salute. Questi due obiettivi devono stare insieme, i lavoratori e la popolazione, devono portare avanti la lotta in maniera unitaria perché chi lavora in fabbrica è il primo a subire l'inquinamento e chi sta fuori subirà comunque l'impoverimento economico di tutta la città. In ogni caso non si deve accettare una produzione industriale che in nome del profitto sacrifichi le condizioni di vita e la salute dei lavoratori e di tutti gli abitanti di Taranto.
Sì alla bonifica ambientale. E no alla chiusura dell'acciaieria, che non porterebbe soltanto povertà e disoccupazione. Come insegnano esperienze come quella di Bagnoli a Napoli, i soldi delle bonifiche vanno a finire nelle tasche di faccendieri e mafiosi, i terreni in mano alla speculazione, i veleni si mettono sotto il tappeto, la bomba ecologica rimane e la città non viene risanata.
30 ottobre 2019