Zuckerberg obbedisce alla richiesta dell'invasore Erdogan
Facebook oscura le pagine pro-curdi
La Federazione nazionale stampa italiana e Rete No bavaglio sostengono la battaglia degli oscurati. “La Città futura” cita il tentativo di Tiscali di oscurare il sito del PMLI
Il 9 ottobre scorso, la Turchia di Erdogan attacca militarmente il Rojava, macchiandosi ancora una volta le mani di sangue curdo. Naturalmente la notizia si diffonde capillarmente su tutti i media, inclusi i social network, che ormai rappresentano il canale principale dell’informazione a livello globale.
Di lì a breve in Italia iniziano a sparire da Facebook e Instagram alcuni post ed altrettante pagine che esprimono contenuti di condanna all’aggressione e di sostegno al popolo curdo aggredito con la vile scusa della lotta al terrorismo; l’inizio colpisce il fotografo Michele Lapini al quale viene cancellata una sua foto di un corteo bolognese, ed alla pagina facebook del documentario “Binxet”, girato da Luigi D’Alife lungo il confine turco-siriano.
L’oscuramento cresce nei giorni successivi e in rapida successione vengono chiuse o sospese tutte le principali testate di informazione legate ai movimenti schierati apertamente contro l’occupazione turca quali Contropiano, Milano In Movimento, Global Project, Ya Basta! Edi bese!, Radio Onda d’Urto e Rete Kurdistan, in parte riattivate dopo 48 ore.
DinamoPress e Infoaut ricevono invece ripetute segnalazioni di avviso, intimidatorie, di un imminente oscuramento, ma rimangono online; da giovedì 17 ottobre l’epurazione prende la via dei Centri Sociali e colpisce il “Cantiere” di Milano, Tpo e Làbas a Bologna, Askatasuna a Torino, Magazzino 47 a Brescia ed anche l’ Ex opg “je so’ pazzo” di Napoli, che risponde con una dura nota a firma di Potere al Popolo!.
In seguito, stessa sorte accade anche al PD di Lecco e ai Giovani Democratici piemontesi, che si affrettano a precisare di quanto il partito prenda le distanze dall’aggressione militare turca, ma contemporaneamente anche dal Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK)
Cos’è che il colosso americano cerca di oscurare
L'origine di questa azione vergognosa, che schiera Facebook e Instagram – e quindi i network principali di Zuckerberg che contano quasi due miliardi e mezzo di iscritti – direttamente al fianco del fascista Erdogan, risale al febbraio 2012 quando Amine Derkaoui ex dipendente di oDeck, una delle aziende esterne incaricate del controllo della piattaforma Facebook, diffuse alcune linee guida (policy) sui contenuti postati, indicando fra le altre limitazioni anche le mappe del Kurdistan o i post di appoggio al PKK come proibiti; poco importa se il divieto avrebbe dovuto riguardare solo la Turchia come inizialmente sembrava.
Con il riacutizzarsi della vicenda curda, stavolta però non occupata a tentare di distruggere il nemico comune individuato nell’ISIS, ma nell’intento di resistere all’aggressione turca, Facebook mette al bando il simbolo del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) e il volto del suo fondatore Abdullah Öcalan, spesso ritratto in striscioni e bandiere. A coloro che in passato, per essersi visti oscurare alcuni contenuti, hanno chiesto spiegazioni, è stato risposto che “Il Pkk è considerato un’organizzazione terroristica da Regno Unito e Usa. Come azienda americana aderiamo alle classificazioni statunitensi delle organizzazioni da considerare pericolose”.
Ma nella pratica, e visti i destini delle pagine sotto attacco, non solo sarebbe vietato dimostrare sostegno ma persino parlare, nominare, dare conto dell’organizzazione fondata da Öcalan. Dall’analisi dei post segnalati e poi cancellati in base al punto due del primo paragrafo degli standard della community di Facebook (che sarebbe poi una sorta di regolamento), riferito alle “persone e organizzazioni pericolose”, si nota come siano stati trattati allo stesso modo sia i contenuti di sostegno alla causa curda, sia quelli che semplicemente documentavano le mobilitazioni promosse da altre forze, siano esse partiti o movimenti, in cui erano presenti bandiere e simboli del Pkk e di Öcalan.
Per fare un esempio, a Global Project è stato contestata una foto del funerale dell'anarchico Lorenzo Orsetti, fiorentino che aveva appoggiato la causa curda imbracciando il fucile a fianco del Ypg, a Radio Onda d’Urto, attiva dal 1986, un post contenente una trasmissione sulla storia del PKK.
Nei fatti però, data l'incontestabile contiguità dell'aggressione turca e la censura di certe immagini, pare scontato che Facebook abbia recepito pressioni dal governo turco – che per il network rappresenta solo l'ennesimo grande mercato d'affari – per cancellare o sospendere le pagine in quel momento non gradite; ci sembra poco ragionevole la tesi, anch'essa rilanciata dalla stampa di regime, di una iniziativa unilaterale dei dirigenti di Facebook in rispetto dei propri regolamenti, proprio perchè foto con quei simboli e quelle pagine erano già aperte in passato e nessuno aveva mai fatto niente per oscurarle fino a pochi giorni fa, col maturare di quello specifico contesto di guerra.
Appare molto più plausibile invece che Erdogan, che mentre sfoderava le sue armi da guerra spegneva per l’ennesima volta i social network in diverse aree del suo paese, abbia voluto silenziare ogni voce che a livello internazionale fosse impegnata ad opporsi alla sua guerra, a mostrare le conseguenze di essa sulla popolazione curda e, in ultima analisi, a mostrare il vero volto fascista ed imperialista dell'operato del suo governo e del suo esercito.
L'immenso potere dei social network borghesi
L'azienda di Mark Zuckerberg, quindi, ha scelto anche in questo caso da quale parte stare e, come sempre, è quella del grande capitale e dell'imperialismo. C'è chi gli contesta lo spregio all’articolo 21 della Costituzione italiana del '48 che afferma come “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”; altri invece sostengono che questo fatto sia “conferma la necessità di affrontare a livello europeo la regolamentazione della rete”.
In ogni caso la questione è chiara, e la contraddizione principale gira tutta sulla poca, per non dire alcuna, democrazia della Rete e, conseguentemente, sul monopolio organizzativo e sempre più anche sostanziale dei colossi dei social network, a partire proprio da Facebook e Instagram che annoverano fra i loro utenti circa la metà della popolazione mondiale.
Ora, se si considera che in alcuni paesi (come la Cina socialimperialista ad esempio) la loro diffusione è ufficialmente bandita e sostituita con altri social simili graditi al regime della cricca fascista e revisionista di Xi Jinping, che in Russia la loro diffusione è limitata poiché vi sono altre piattaforme simili “nazionali” e che nelle aree più povere del mondo l'accesso è generalmente un problema che non si pone poiché ce ne sono altri imminenti e più gravi, appare in tutta la sua evidenza il monopolio rappresentato dalle proprietà di Zuckerberg in occidente e nei paesi filo-occidentali.
Un monopolio di fatto anche transnazionale, che manovra l'informazione come e più dei risultati di ricerca di Google, offrendo il “servizio” gratuitamente, col solo scambio dei dati individuali ed il monitoraggio dei comportamenti degli utenti in rete a fini commerciali ma non solo.
Un patrimonio di dati enorme, che macina ogni giorno montagne di profitti, ma anche un sistema messo più volte sotto accusa, sia per il suo vizio consolidato di non pagare le tasse nei paesi in cui opera evadendo chiaramente il fisco, sia per lo scandalo denominato “Cambridge Analytica”, quando fu comprovato che il social network più famoso del mondo si era prestato ed era stato protagonista di manipolazioni non solo della comunicazione, ma anche della dialettica politica, trasformandosi da se sedicente campione della pluralità e della libera informazione a oscuro manipolatore dell'opinione pubblica.
A difendere quella democrazia della rete tanto osannata anche da Grillo e dai cinque stelle nel nostro Paese, non potranno certo bastare le ventilate richieste che arrivano dagli USA ma non solo e che vorrebbero uno smembramento di Facebook per porre fine al suo carattere totalizzante.
L'accusa della Federazione Italiana della Stampa
Nei giorni seguenti all'avvio delle censure on line, la Federazione nazionale della stampa italiana (Fnsi) ha indetto una conferenza stampa. L'ha aperta il giornalista Marino Bisso, della Rete no bavaglio, che ha definito l’accaduto “un atto di censura molto grave a cui la Turchia non è nuova e che stavolta ha colpito voci legate al movimento”.
In riferimento ad un discorso tenuto nei giorni seguenti all'accaduto da Mark Zuckerberg, Antonio Lancellotti di GlobalProject e Federico Leonna di Infoaut hanno affermato che “Facebook si nasconde dietro la neutralità ma di fatto produce spazio pubblico secondo le regole di un privato (…) Un privato che genera profitti miliardari a partire dai dati prodotti dai suoi utenti, cioè da tutti noi”.
Il Presidente Fnsi Giuseppe Giulietti ha posto il problema della censura delle testate indipendenti al sottosegretario con delega all’editoria Andrea Martella: “Erdogan ha chiesto e ottenuto l’oscuramento delle pagine filo curde nei paesi europei, dopo aver incarcerato 200 giornalisti in Turchia (...) Facebook non solo non paga le tasse ma decide anche quali parole eliminare. Va convocata la rappresentanza italiana”.
È vero, come affermato da tutti, che il tema della regolazione di Facebook e degli altri colossi monopolistici del web è estremamente complesso e di portata globale. Noi in tutta franchezza pensiamo che il freno a questo potere praticamente assoluto sia la proposta di Elizabeth Warren, che alle prossime elezioni americane potrebbe essere la candidata democratica contro Trump, e che ha proposto si il frazionamento delle Big Tech, ma con il fine principale di recuperare il gettito fiscale, che rappresenta effettivamente un altro grande problema interno alla questione.
Insomma, il capitalismo stesso, con i suoi “cartelli” e con i suoi accordi, ci mostra ogni giorno che la “concorrenza” è un vuoto simulacro davanti allo strapotere dei grandi colossi che dispongono di capitali in quantità illimitata e in altrettanto illimitata quantità le informazioni e i dati privati che ogni utente regala da contratto accedendo alle loro piattaforme.
Se poi questa sedicente concorrenza avesse come risultato la chiusura di alcune aziende, inevitabilmente le quote di “mercato” materiale o telematico che sia, sarebbero inglobate da altre aziende con il medesimo risultato. Non è così quindi che si proteggono gli utenti, poiché la legge che regolerebbe i social rimane comunque il capitalismo, la libera impresa e l'interesse in un certo tipo di offerta di informazione gradita alla borghesia.
L'informazione è sempre propaganda di regime
Fatti alla mano, com'è possibile cianciare ancora di "democrazia della Rete" quando non c'è nessun altro media marchiato da un peccato originale come quello di internet, originariamente creata nel 1958 dal Dipartimento della difesa USA in funzione antisovietica e oggi dominata da un pugno di multinazionali che non ha pari in altri comparti e settori economici?
Nata dal capitalismo, cresciuta, formata, pilotata, condizionata, controllata e spiata sistematicamente, la “Rete” stessa non si è certo emancipata da quel suo “vizio di forma”; se da un lato ha moltiplicato esponenzialmente utenti, funzionalità e opportunità nello scambio di informazioni, allo stesso tempo ha dato a un pugno di Stati, governi e multinazionali un potere sconfinato.
Basti pensare che le autorità imperialiste americane - e non solo - in qualsiasi momento possono farsi consegnare "legalmente" la posta e la registrazione del traffico relativi a qualsiasi utente dai grandi operatori delle telecomunicazioni e della Rete come appunto Google, Microsoft e Apple, Facebook, Twitter, Intagram e gli altri "social media" e piattaforme analoghe - sono rarissimi i casi in cui ciò non si è verificato. Operatori che dimostrano così di essere legati a doppio filo coi governi e i servizi segreti americani, foraggiati con milioni e milioni di dollari per la loro sostanziale attività di spionaggio e grazie alla vendita illegale di dati a fini commerciali o di manipolazione politica.
Qual è la via d'uscita?
Nel tentativo di “superare” le piattaforme social commerciali, da anni alcuni gruppi e tecnici che hanno individuato il problema, stanno sperimentando percorsi web alternativi a licenza aperta e libera che costituiscono quello che attualmente si chiama “Fediverso”, un gruppo di circa 40 piattaforme indipendenti, ciascuna con le proprie regole e comunicanti fra loro, definito “autogestibile e federato”. Su tutte, spicca Mastodon che assomiglia a Twitter, e che contribuisce in larga parte ad alimentare l'utilizzo attuale di circa tre milioni di utenti.
Tuttavia, queste ricette non risolvono il problema poiché oltre a non drenare - ad esempio - la penetrazione di gruppi fascisti, sono formalmente indipendenti da opinioni politiche ben definite, il che li fa entrare ancora una volta nelle mani della borghesia comunque imperante.
Serve di più. Occorre una svolta radicale. Immaginate che cosa accadrebbe - per fare un esempio sul rischio che corriamo - se le mutinazionali Big Tech facessero propria nelle loro policy la recente risoluzione dell'Europarlamento che mette di fatto al bando il comunismo a partire dai suoi simboli? È un rischio che non possiamo permetterci di correre e che dobbiamo allontanare, unitariamente a coloro hanno i nostri stessi interessi.
Alla decima sessione plenaria dell'ottavo Comitato centrale del PCC nel 1962 Mao ha spiegato: "Per rovesciare un potere politico è sempre necessario, anzitutto, preparare l'opinione pubblica e lavorare in campo ideologico. Ciò è vero sia per le classi rivoluzionarie che per quelle controrivoluzionarie".
Ciò è vero anche quando la classe dominante vuole consolidare il proprio potere, annientando sul nascere possibili argomenti, fatti e posizioni che potrebbero proporre un punto di vista diverso e antitetico propaganda di regime.
In conclusione, dobbiamo essere consapevoli che nei paesi capitalistici i media sono nelle mani della borghesia, che li usa per manipolare l'“opinione pubblica”.
Usiamo dunque tutti gli spazi che la Rete offre per dialogare con milioni di persone e per veicolare i nostri messaggi, ricordando però sempre che quello è il “territorio” del capitalismo e della borghesia e che la nostra propaganda, così come quella di coloro che si adoperano per una diversa concezione del mondo in senso anticapitalista, non può essere che quella di stare fisicamente fra le masse, portando fra di loro il marxismo-leninismo-pensiero di Mao, unico faro che potrà spazzare via tutte le distorsioni economiche, sociali e culturali del capitalismo, inclusa questa gestione dei social network.
30 ottobre 2019