Rivolta popolare in Cile per il carovita e l’aumento del biglietto dei trasporti
Coprifuoco, carri armati e soldati per le strade come ai tempi della dittatura fascista di Pinochet
18 MORTI, TREMILA FERITI E OLTRE SETTEMILA GLI ARRESTATI
È iniziato tutto il 17 ottobre, qualche giorno dopo l’entrata in vigore dell’aumento del prezzo del biglietto della metropolitana nella capitale Santiago del Cile, passato da 800 a 830 pesos (poco più di un euro) nelle ore di punta. Il secondo rincaro dopo quello di 20 pesos dello scorso gennaio, che ha di fatto raddoppiato il prezzo del biglietto in breve tempo. Gli studenti hanno dato vita da subito all’iniziativa di disobbedienza di massa per non pagare il biglietto, saltando in gruppo i tornelli al grido di “Non pagare, un altro modo di lottare!”. L’intensità della protesta è aumentata di pari passo con la brutale reazione governativa ordinata dal presidente cileno, l’imprenditore di destra Sebastian Pinera, che ha prima ordinato la chiusura delle stazioni della metro che più causavano problemi fino a fermare l’intera rete il 19 ottobre.
Nella stessa giornata venti stazioni venivano date alle fiamme dalla rivolta popolare, così come sedici autobus e il palazzo dell’Enel. Nella notte decine di supermercati e negozi venivano saccheggiati nonostante il coprifuoco decretato da Pinera che schierava carri armati e soldati per le strade come non si vedevano dai tempi della dittatura fascista di Pinochet.
Manifestazioni e scontri si sono ripetuti nei giorni successivi a Santiago come in tutte le altre città del Cile, fino a interessare paesi e villaggi. Ai manifestanti in rivolta che avevano eretto barricate l’esercito, 10.000 i soldati schierati, ha risposto con l’uso di idranti e gas lacrimogeni, fino ai proiettili perforanti utilizzati insieme a quelli tradizionali di gomma. Il bilancio ancora parziale parla di 18 morti, tremila feriti e oltre settemila arrestati. Come nel 1973 sono ricomparse le criminali torture sui manifestanti arrestati, bambini e donne picchiati anche coi calci di fucile, denunciate da diverse organizzazioni per i diritti umani presenti nel paese latinoamericano.
Il 20 ottobre Pinera, dopo aver minimizzato il malcontento sociale, aveva affermato di essere “in guerra contro un nemico potente e implacabile che non rispetta nulla e nessuno”, definendo i manifestanti “con un grado di organizzazione e di logistica da gruppo criminale”. Un tentativo di far terra bruciata attorno alla rivolta popolare che non ha avuto successo tanto che lo stesso presidente cileno ha dovuto cedere alla piazza. Dopo aver bloccato l’aumento dei biglietti della metropolitana, all’ottavo giorno consecutivo di proteste ha sospeso il coprifuoco e annunciato un rimpasto di governo.
Tuttavia le sue parole non sono bastate a bloccare la rabbia popolare. Una ventina di organizzazioni di lavoratori e studenti hanno replicato con uno sciopero generale degli impiegati pubblici. “Lo sciopero va avanti! Lo diciamo forte e chiaro: basta aumenti dei costi e abusi” ha scritto in una nota la Centrale unitaria dei lavoratori (Cut), principale Confederazione sindacale del paese. A Santiago i sindacati hanno marciato da Plaza Italia, epicentro della protesta da più di una settimana. Allo sciopero hanno aderito anche i lavoratori del settore sanitario, gli operatori portuali nelle città costiere, studenti e insegnanti, così come i dipendenti dell’azienda statale Codelco, maggiore produttore al mondo di rame. E il 26 ottobre oltre un milione di persone, una delle più grandi manifestazioni della storia del paese latinoamericano, si è riversato ancora nelle strade di Santiago per protestare contro il carovita e la corruzione.
È stato evidente da subito che le manifestazioni esplose in Cile non erano, soltanto una denuncia del rincaro del biglietto della metro o di una rete di trasporti inadeguata, quanto l’esternazione di un malcontento profondo per la crescente povertà e disuguaglianza sociale. Alla faccia dello stesso presidente Pinera che fino a pochi giorni prima aveva definito il Cile “un’oasi di tranquillità” nella regione, che a metà novembre dovrebbe ospitare il vertice dei leader dell’APEC, l'Associazione per la cooperazione economica dell’area Asiatico-Pacifico.
La contestazione popolare riguarda anche il sistema pensionistico privatizzato, eredità del regime fascista di Pinochet, in vigore dal 1980, che obbliga i lavoratori a depositare ogni mese il 12% delle proprie entrate in fondi pensionistici gestiti da enti privati. Somme che gli squali dei gestori investono sui mercati, realizzando profitti milionari, mentre la pensione versata ai contribuenti raggiunge la miseria di circa 220 dollari mensili. Non va meglio all’istruzione, dove lo Stato ha favorito un sistema scolastico e universitario privato che indebita pesantemente le famiglie prima e i neolavoratori dopo, costretti a rimborsare per decine d’anni i prestiti contratti per lo studio. Altrettanto discriminatorio e precario è il sistema della sanità pubblica. I cileni sono costretti a destinare il 7% del proprio stipendio a un’assicurazione sanitaria a scelta tra quella del sistema pubblico e quella privata. Circa 14 milioni di persone hanno scelto il pubblico, ma i servizi a disposizione negli ospedali sono sempre più carenti. Dulcis in fundo il costo della vita e dei beni essenziali alle stelle, in particolare per chi vive nella capitale Santiago, dove nell’ultimo decennio i prezzi delle case sono aumentati del 150%, quelli di energia elettrica e medicinali del 10% negli ultimi mesi.
D’altro canto i vertici delle Forze armate sono stati coinvolti in casi di corruzione milionari, mentre è diventata pratica corrente il finanziamento illecito delle campagne elettorali dei candidati dei partiti della destra e della “sinistra” borghese da parte dei potentati economici cileni. Non per niente che al primo turno delle elezioni presidenziali nel 2017 ha votato solo il 46% degli aventi diritto.
Fonti italiane residenti in Cile da anni, anonime per motivi di sicurezza, contattate dall’Agenzia Agi spiegano che quanto sta accadendo è “ancora prima di una ribellione, una unione trasversale della moltitudine, di un popolo abusato fino al midollo, tradito dai suoi rappresentanti politici per decenni. Rappresentanti incompetenti e irresponsabili, che oggi in un attimo ci potrebbero far ricadere nella più oscura barbarie del passato, invece di un salto di qualità e dignità umana verso il futuro. 30 anni di furti, evasioni, ingiustizie e abusi istituzionalizzati di ogni tipo: dall’educazione alla salute, dalla previdenza sociale alle risorse naturali. Esorbitanti i costi dei servizi essenziali come gas, luce, pane, trasporto, carta igienica, paragonabili a quelli dell’Italia, solo che qui lo stipendio medio non supera i 300 euro”.
30 ottobre 2019