Per salvare occupazione, ambiente e produzione
L'ex Ilva va nazionalizzata
Arcelor-Mittal non ha intenzione di rispettare gli impegni presi solo un anno fa. Il governo non deve fare alcuna concessione sulla riduzione del numero dei lavoratori e sullo scudo penale
20 mila operaie e operai rischiano la disoccupazione

Quello che doveva diventare il nuovo padrone dell'ex Ilva, il colosso dell'acciaio franco-indiano Arcelor-Mittal, ha ufficialmente avviato la procedura per la recessione del contratto d'acquisizione. In questi giorni si sono susseguite riunioni, confronti e conferenze stampa ma quello che sembra chiaro è che il più grande gruppo siderurgico mondiale vuole fare marcia indietro.

Lo scudo penale è solo un pretesto
Come avevano denunciato in molti, compreso noi dalle pagine del “Bolscevico”, il mancato rinnovo dello scudo penale da parte del governo era solo un pretesto per non rispettare più il piano industriale e ambientale che Arcelor-Mittal aveva sottoscritto solo un anno prima. Tra l'altro una firma arrivata dopo un bando pubblico che si era aggiudicato con un'offerta più alta rispetto alle aziende concorrenti. Nonostante i partiti di governo e di opposizione si siano tutti affrettati a chiedere il ripristino dello scudo penale per Arcelor-Mittal, invocando una legge che assicuri l'immunità per tutte le aziende che si trovino ad affrontare un risanamento ambientale, la multinazionale rimane ferma sulla recessione del contratto.
Il gruppo sembra già essersi cautelato su questo aspetto. L'acciaieria, nella citazione depositata al tribunale di Milano, sostiene che se "la protezione legale fosse ripristinata, non sarebbe possibile eseguire il contratto" in quanto c'è la possibilità che, per un provvedimento dell'autorità giudiziaria di Taranto, venga di nuovo spento l'altoforno 2 e "in tal caso dovrebbero essere spenti anche gli altiforni 1 e 4 in quanto, per motivi precauzionali, sarebbero loro egualmente applicabili le prescrizioni" del tribunale sull'automazione degli altiforni. Il contratto sull'Ilva di Arcelor-Mittal andrebbe considerato “risolto".
Immediatamente dopo l'avvio formale della procedura per restituire gli stabilimenti, presumibilmente ai commissari statali, mercoledì 6 novembre è stato convocato d'urgenza a Palazzo Chigi un vertice tra i rappresentanti del governo e i vertici del gruppo. Non sono bastate oltre tre ore con i Mittal in persona per trovare il bandolo della matassa. Il padre Lakshimi, ceo della multinazionale dell’acciaio, e il figlio Aditya, direttore finanziario, hanno messo davanti a Conte la prospettiva di 5.000 esuberi, sempre che non si faccia ricorso alla cassa integrazione, e la richiesta di revisione del piano industriale dell’ex Ilva.

Chiusura o 5mila licenziamenti
È quindi chiaro come lo scudo penale non sia la questione principale, come ha detto lo stesso presidente del Consiglio in conferenza stampa. Il tema vero è che Mittal ritiene gli attuali livelli di produzione non sufficienti a remunerare gli investimenti. È un problema industriale, in poche parole Arcelor-Mittal ha sbagliato i calcoli. Crisi economica e dazi americani hanno abbassato la richiesta di acciaio, mentre il piano di risanamento ambientale, a suo tempo sottoscritto, adesso viene reputato impossibile da rispettare, con l'intervento della magistratura sempre dietro l'angolo.
La soluzione per il colosso dell'acciaio? La cessazione del ramo d’azienda che coinvolgerà 12 siti per un totale di 10.777 dipendenti entro 30 giorni dalla data di recesso. A partire dagli stabilimenti di Taranto, dove i dipendenti sono 8.277, e proseguendo con Genova, Novi Ligure, Milano, Racconigi, Paderno Dugnano, Legnaro e Marghera. Ma Arcelor-Mittal, bontà sua, si è detto disponibile a “trattare”. E propone un'alternativa. Quale? Scaricare le conseguenze sempre sui lavoratori e sulla popolazione. Tagliando subito 5mila posti di lavoro e rimandando nel tempo gli inderogabili interventi ambientali sotto la copertura dello scudo penale. Soluzioni entrambe inaccettabili.
La mobilitazione dei lavoratori è stata immediata. Prima sciopero della Fim-Cisl, e venerdì 7 sciopero unitario dei sindacati confederali, con un'alta adesione, specie nelle aziende dell'indotto che non hanno nessuna protezione né ammortizzatore sociale. Il giorno prima Cgil-Cisl e Uil erano state convocate dal presidente del Consiglio. I sindacati hanno giudicato "intollerabile" quanto emerso dal vertice a Palazzo Chigi con Arcelor-Mittal, e “provocatorie e inaccettabili" le condizioni poste dalla multinazionale.

Contestato Conte
Sempre il 7 ottobre a Taranto si è presentato demagogicamente Giuseppe Conte. Il capo dell'esecutivo, all'arrivo davanti le acciaierie ha subito una dura contestazione. All'ingresso si sono raggruppati lavoratori e rappresentanti di comitati e movimenti con striscioni che chiedono la riconversione economica del territorio. Molti ambientalisti e abitanti del quartiere Tamburi hanno scandito cori inneggianti alla chiusura dell'impianto, alcuni manifestanti hanno intonato: "noi vogliamo vivere", "a Taranto è concesso tutto” e “chiusura,chiusura”.
All'interno invece gli operai riuniti in assemblea hanno tenuto un atteggiamento più dialettico, chiedendo a Conte il massimo impegno del governo per costringere Arcelor-Mittal a rispettare gli impegni presi, a partire dal piano di risanamento ambientale, scongiurando qualsiasi ipotesi di licenziamenti. I rappresentanti sindacali hanno chiesto “di fare presto perché gli impianti marciano al minimo e sono destinati alla fermata totale senza provvedimenti". La chiusura dell'Ilva, calcolando l'indotto getterebbe sul lastrico 15mila lavoratori solo a Taranto e 20mila in tutta Italia.
Gli appelli e le contestazioni raccolte da Conte a Taranto fotografano bene la frattura che la gestione dell'ex Ilva ha creato nella città pugliese. Un ricatto perenne tra lavoro e salute, tra produzione e ambiente, certificato dai terribili dati sulle malattie collegabili all'attività delle acciaierie, che ha esasperato lavoratori e popolazione. Una criticità che ha tra i maggiori responsabili la privatizzazione degli impianti, avvenuta nel 1995 per quanto riguarda Taranto, ma iniziata a fine anni '80 per gli altri stabilimenti dell'allora gruppo Italsider.

Ilva spolpata dai privati
Una vendita, anzi svendita alla famiglia Riva, che per una cifra ben al di sotto del valore reale acquisì l'acciaieria più grande d'Europa che al tempo aveva il bilancio in attivo, spremendo gli impianti e i lavoratori, segregando quelli più combattivi in reparti lager (la famigerata palazzina LAF), avvelenando impunemente, corrompendo politici e amministratori affinché tacessero o taroccassero i dati sull'inquinamento. Con la cessione ad Arcelor-Mittal si è proseguito sulla stessa strada: cedere ad un altro padrone l'impianto per sfruttarlo, licenziare e inquinare.
Appaiono quasi grottesche le dichiarazioni in difesa dei lavoratori del PD, quando furono proprio governi da loro sostenuti (furono Dini e Prodi a privatizzare l'Ilva) a regalare l'acciaieria ai Riva o quelle di Salvini (“daremo il sangue per gli operai di Taranto”) quando la Lega assieme a Berlusconi ha sempre sostenuto privatizzazioni e liberalizzazioni e considerato l'aiuto allo sviluppo del Mezzogiorno come una politica di “stampo sovietico”.

Nazionalizzare
Adesso stiamo arrivando a un punto di non ritorno e c'è assoluto bisogno dell'intervento dello Stato attraverso la nazionalizzazione degli stabilimenti ex-Ilva per uscire da questa situazione. Sono a rischio 20mila posti di lavoro e una bella fetta di occupazione del Sud, la sua chiusura rappresenterebbe la perdita dell'1,4% del prodotto interno lordo, il ridimensionamento di un importante settore strategico dell'industria (l'ex-Ilva sforna quasi la metà dell'acciaio italiano) dove l'Italia è secondo produttore europeo dietro la Germania.
Tutto questo però non è negoziabile con la salute di chi ci lavora e di chi ci abita vicino. Premesso che nessuna attività umana è a impatto zero, si possono conciliare produzione con salute e ambiente. Per uno stabilimento così grande e in una situazione compromessa servono ingenti investimenti, un piano ambientale incisivo e dall'impatto immediato ma che allo stesso tempo abbia una visione strategica a lunga scadenza. Tutti requisiti che i privati non hanno né vogliono avere, perché quello che conta è solo il profitto, come la vicenda delle acciaierie di Taranto ha dimostrato ampiamente.
Non basta consegnare lo stabilimento nelle mani di commissari straordinari nominati dal governo con il compito di aspettare un nuovo privato che faccia altri scempi occupazionali e ambientali. Serve una vera nazionalizzazione, limpida e sotto il controllo dei lavoratori e della popolazione, che trovi nuove fonti per alimentare gli altiforni, metta in sicurezza gli impianti, riduca al minimo le emissioni, salvaguardi l'occupazione. In ogni caso il governo non deve fare alla Arcelor-Mittal alcuna concessione sulla riduzione del numero dei lavoratori e sullo scudo penale.

13 novembre 2019