L'autunno caldo di 50 anni fa
I metalmeccanici in prima linea il 28 novembre 1969 in 100 mila invadono Roma
Esattamente 50 anni fa, il 28 novembre 1969, i metalmeccanici dettero vita a Roma a una tra le più grandi e combattive manifestazioni operaie mai avvenute in Italia, a sostegno della loro vertenza. Fu la prima manifestazione unitaria nazionale del dopo guerra che portò nella capitale 100mila lavoratrici e lavoratori provenienti da tutta la penisola con 5 treni speciali e centinaia di pullman.
Fu uno degli avvenimenti più rilevanti che segnò quello che poi passò alla storia come “l'autunno caldo” del '69 e che ancora oggi viene utilizzato come termine di paragone ogni qual volta le lotte operaie, specie quelle per il rinnovo dei contratti, salgono d'intensità e combattività. In occasione del 50° anniversario della manifestazione sui media si sono letti diversi interventi su quegli avvenimenti mentre la Fiom ha organizzato a Roma il 28 novembre, presso la sede della Cgil nazionale, un convegno con lo scopo di “avviare una riflessione utile a riconnettere quella straordinaria stagione di lotta e di contrattazione dei metalmeccanici ”. Una riflessione che purtroppo non è uscita dai limiti del riformismo e del costituzionalismo.
Quello sciopero però doverebbe essere ricollocato in una più ampia “straordinaria stagione”, ben più larga dello stretto ambito dei metalmeccanici, quella appunto dell'autunno caldo, ma anche di quella più generale della Grande Rivolta del Sessantotto, che abbraccia non solo quell'anno, ma il periodo che va dal '67 almeno fino al 1973.
La classe operaia italiana, e non solo, già alcuni anni prima aveva dato segno di un nuovo protagonismo, rivendicando migliori condizioni salariali e normative. Nel nostro Paese, dopo il “boom economico” dei primi anni '60, la successiva crisi portò a migliaia di licenziamenti e a un inasprimento della torchiatura da parte di padroni. Tutto questo accelerò la consapevolezza che gli interessi di classe tra proletari e borghesi erano fortemente contrapposti.
Dopo aver covato sotto la cenere la rabbia operaia dava le prime avvisaglie con le lotte per l'abolizione delle “gabbie salariali” che differenziavano gli stipendi a scapito delle regioni meridionali e delle zone meno sviluppate, e la lotta contro il caro casa, cioè gli affitti alti. Fino ad esplodere nel biennio '68-'69 con un susseguirsi di scioperi, occupazioni di fabbriche, municipi, uffici di collocamento, blocchi stradali e ferroviari, e anche di scontri con la polizia che veniva scatenata a eseguire gli sgomberi e a reprimere le proteste.
Allora nelle fabbriche italiane vigeva un forte autoritarismo, dove le direttive padronali erano insindacabili, le donne e le categorie più basse fortemente discriminate, dove la salute e la sicurezza erano ignorate, il diritto di assemblea e perfino di parola inesistente, con buona parte del padronato arroccato su posizioni paternalistiche e corporative, dove si propinava l'idea che assecondare gli interessi dell'azienda avrebbe portato benefici anche ai lavoratori. Tutto questo fu messo in discussione.
Quella manifestazione, parte integrante della mobilitazione per il rinnovo dl contratto dei metalmeccanici, fu emblematica di quanto detto prima, perché non si limitava a chiedere qualche soldo in più. Il contratto, che poi fu firmato il gennaio successivo, introdusse l'orario settimanale a 40 ore, il diritto all'assemblea sui posti di lavoro e il riconoscimento dei rappresentanti sindacali, cospicui aumenti salariali uguali per tutti, l'equiparazione tra operai e impiegati. Un contratto che divenne punto di riferimento per tutti e che venne ripreso anche dallo Statuto dei lavoratori che sarà approvato dal parlamento pochi mesi dopo, nel 1970.
Tuttavia è molto riduttivo, come già detto, guardare a quella vertenza dei metalmeccanici senza inquadrare il periodo storico in cui si svolse, ovvero il Sessantotto. Quello che è stato il più grande avvenimento della lotta di classe del dopoguerra in Italia, che per la prima volta, in modo organico e a livello di massa, metteva in discussione il capitalismo stesso, non solo i suoi aspetti più deleteri, e assieme alle rivendicazioni specifiche metteva all'ordine del giorno la necessità di instaurare il socialismo.
Se la scintilla partì dal movimento studentesco, che sostenne anche l'urto maggiore dello scontro, la classe operaia è stata una grande protagonista del Sessantotto. Sono le masse operaie, in particolare i giovani e gli immigrati del Sud, che trascinano i sindacati alla lotta, e quando essi temporeggiano o sono contrari alle lotte, non hanno paura di scavalcarli, fare da soli e assumersi direttamente tutte le responsabilità dello scontro con i padroni e il governo.
Non a caso molte lotte emblematiche di quegli anni hanno avuto quelle caratteristiche. Gli scioperi alla Fiat Mirafiori di Torino culminati nella battaglia di Corso Traiano con le “forze dell'ordine”, la vertenza alla Pirelli Bicocca, quella contro i licenziamenti alla Marzotto di Valdagno dove i lavoratori, in maggioranza donne, buttarono giù la statua del Conte fondatore dell'azienda, gli scioperi a Porto Marghera, furono contraddistinte dal forte dissidio con i rappresentanti ufficiali dei sindacati e dal protagonismo dei lavoratori più combattivi.
Non fu di certo grazie alla lungimiranza e alla capacità dei dirigenti sindacali riformisti di allora di trascinare i lavoratori che si sviluppò quello straordinario biennio di lotte, bensì il contrario. Anzi, i segretari dei metalmeccanici Giorgio Benvenuto per la Uil, Luigi Macario per la Cisl e Bruno Trentin per la Cgil, cercavano in tutti i modi di gettare acqua sul fuoco. In particolare Trentin e Lama, assieme ai dirigenti dell'allora PCI revisionista fecero qualcosa di ben più grave: ostacolarono in tutti i modi l'incontro e la fusione delle lotte del movimento studentesco e di quello operaio che avrebbero potuto portare seriamente alla messa in discussione del capitalismo nel nostro Paese.
E venendo all'attualità e a questioni più sindacali, quale sarebbe il parallelo tra il rinnovo del contratto di 50 anni fa e quello odierno tirato in ballo dall'attuale segretaria Fiom Francesca Re David? L'egualitarismo? Forse si, visto che l'ultimo contratto, firmato anche dalla Cgil dopo anni di firme separate di Cisl e Uil, chiedeva poco più di un euro per tutti, diventando non più un punto di riferimento com'era una volta, ma un modello negativo da evitare per le altre categorie.
E che differenza rispetto all’istituzione dei consigli dei delegati al posto delle burocratizzate commissioni interne che rappresentò uno dei punti più importanti di quella stagione di lotte. Oggi i sindacati confederali con il Testo Unico sulla Rappresentanza rivogliono il controllo delle RSU aziendali e un sindacato istituzionale, che abbia il monopolio delle trattative e che escluda, penalizzi e sanzioni quei sindacati e quei lavoratori che osano scioperare e manifestare il loro disaccordo.
Bisogna lottare per capovolgere la situazione, per ripristinare lo spirito, la mobilitazione e la piattaforma di lotta dell'autunno caldo del '69, per ridare al proletariato e alle masse lavoratrici una coscienza rivoluzionaria che hanno perso per responsabilità dei riformisti e dei revisionisti, per creare il sindacato unico delle lavoratrici e dei lavoratori, delle pensionate e dei pensionati basato sulla democrazia diretta e sul potere sindacale e contrattuale dell'Assemblea generale.
L'insegnamento principale dell'autunno caldo del '69 è che il proletariato non deve limitarsi a strappare ai padroni e ai governi borghesi, comunque denominati, dei miglioramenti economici, ma tendere a conquistare il potere politico, che potrà ottenere lottando contro il capitalismo, per il socialismo.
4 dicembre 2019