Nessun passo in avanti sulla regolamentazione globale del mercato del carbonio, né sui “vincoli”. Dure critiche da parte delle associazioni di settore.
Clima, a Madrid l'ennesima conferenza del nulla di fatto. Il fallimento è totale e il pianeta continua a bruciare
La messa a terra dei piani europei e nazionali rimandata al 2020. L'entusiasmo di Parigi è solo un lontano e sbiadito ricordo.
Mezzo milione di ambientalisti in piazza
In un quadro internazionale condito da belle parole e altrettanti buoni propositi “verdi”, a Madrid si è tenuta la venticinquesima conferenza dell'ONU sul clima. Nonostante le dichiarate svolte “green” delle multinazionali, le dichiarazioni dei governanti nei ripetuti forum sull'ambiente che l'hanno preceduta, la realtà è brutale: le emissioni dei gas serra continuano inesorabilmente a crescere, ed hanno anzi toccato il loro picco massimo degli ultimi 800 mila anni, il che significa per il pianeta e per chi lo abita, ondate di calore anomale, stress idrico, innalzamento del livello del mare e gravi danni agli ecosistemi marini e terrestri con tutto ciò che ne consegue in termini di vivibilità e di economia.
Il discorso inaugurale di Guterres
Aveva aperto la conferenza il segretario generale dell'ONU, Guterres, che di fronte alle delegazioni dei 196 Paesi firmatari dell'accordo di Parigi (Cop21 del 2015), non aveva risparmiato critiche all'inefficienza delle politiche adottate dai singoli Stati, affermando che “Finora gli sforzi sono stati gravemente inadeguati (…) ci troviamo in una fossa e continuiamo a scavare (…) siamo vicini al punto di non ritorno”.
Guterres ha anticipato il rapporto dell'Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) secondo il quale gli ultimi cinque anni sono stati i più caldi mai registrati e i livelli medi di anidride carbonica in atmosfera hanno superato le 407,8 parti per milione.
“Del resto – ha detto - i segni di speranza si moltiplicano: le tecnologie esistono, l’opinione pubblica si è risvegliata dovunque, i giovani stanno mostrando grandi capacità di mobilitazione e sempre più città e imprese si impegnano sull’obiettivo di 1,5° C ma quello che manca è la volontà politica: imporre un prezzo al carbonio, eliminare i sussidi ai combustibili fossili, chiudere le centrali a carbone entro il 2020, passare dalle tasse sul reddito alla carbon tax, puntare sulle energie rinnovabili e su soluzioni naturali”.
Insomma, secondo l'ONU, l'obiettivo di limitare ad “un grado e mezzo” l'aumento climatico è ancora realistico, a patto che le emissioni di gas serra siano ridotte del 45% rispetto ai livelli del 2010 entro il 2030 e che si raggiungano “emissioni zero” nel 2050; eppure secondo il recentissimo “Emission Gap Report“ del Programma della stessa ONU per l'ambiente (Unep), anche se tutti gli impegni incondizionati presi dagli Stati con l’Accordo di Parigi del 2015 fossero mantenuti, la temperatura aumenterebbe di ben 3,2° gradi, con conseguenze catastrofiche.
Un bel problema, oltre che un'evidente contraddizione nata proprio nel grembo nel protocollo di Parigi stesso, che fu incensato come fosse la panacea di tutti i mali ambientali.
Questi in sintesi i passaggi più significativi di un messaggio che si è concluso col monito secco del rischio “capitolazione”, anche se nessuno degli attori principali si aspettava dalla conferenza iberica un epilogo così fallimentare.
Il grido dei Paesi del Sud del mondo e il contesto generale della COP25
La giovane Greta Thunberg era giunta a Madrid sostenendo di voler portare alla conferenza le voci delle giovani generazioni, in particolare quelle del sud del mondo, “perché rimangono inascoltate”, e poco dopo nella capitale spagnola, la “società civile” scese nelle strade per chiedere azioni concrete ed immediate sul clima, dando vita ad una manifestazione di oltre cinquecentomila persone che non si vedeva dalla COP 15 di Copenaghen del 2009.
Una grido di protesta che si è levato soprattutto dai Paesi ridotti in povertà dalle guerre di rapina dell'imperialismo mondiale, una voce rilanciata anche dal Peace Bureau che ha chiesto agli Stati impegnati a Madrid di tagliare le “emissioni militari”, tradizionalmente escluse dai negoziati, ma che sono responsabili, oltre che del peggioramento del clima, anche dell'impoverimento ulteriore dei Paesi già poveri ed in difficoltà.
Intanto i 47 Paesi meno avanzati, fra i quali diversi Stati africani e del Pacifico, protestavano con forza poiché essi stessi risultano i più colpiti dalle conseguenze del caos climatico nonostante abbiano produzioni medie di solo 0,314 tonnellate di gas serra pro capite all’anno a fronte di una media mondiale di 4,96, senza considerare i Paesi più ricchi che superano ampiamente le 20 tonnellate. Infatti, ingiustizia nell'ingiustizia, come sottolinea il Centre for Science and Environment di New Delhi citando dati Oxfam, “il 10% più ricco produce metà delle emissioni climalteranti”.
Nella miriade di posizioni espresse, risulta particolarmente interessante la posizione de “La Via Campesina”, il sindacato internazionale di piccoli agricoltori di 80 paesi, che mette in guardia contro ”le multinazionali e i governi egemoni”. Il movimento ha denunciato con forza le “contraddizioni dell’Accordo di Parigi, per la sua natura non vincolante e l’incapacità di superare le logiche di mercato, che consentiranno a certi paesi e alle loro multinazionali di continuare a inquinare”, proponendo false quanto inefficaci soluzioni.
Secondo i campesinos dunque, la responsabilità del riscaldamento climatico è da ricercarsi nel “sistema capitalistico che si appropria dei beni comuni”; fa loro eco anche il presidente del Venezuela Nicolas Maduro nella lettera inviata a Madrid, nella quale parla di “modello capitalistico retrogrado”, lasciando però intendere che forse ne esista anche uno progressista. (Sic!)
In un quadro così sconcertante, anche la stima al ribasso nelle emissioni di CO2 rispetto ai due anni precedenti dell’annuale rapporto Global Carbon Budget 2019, non incoraggia, poichè il calo del consumo di carbone negli Usa, in Europa ed in Cina è stato compensato da un aumento del ricorso al gas, altra fonte fossile seppur meno inquinante.
L'Italia fra i Paesi più colpiti dal contesto climatico
Sul tavolo della discussione madrilena tantissimi studi scientifici hanno mostrato che il fenomeno del riscaldamento globale sia davvero globale e non “riservato” ad alcune aree del mondo; ad esempio secondo il Global Climate Risk Index 2020 diffuso dall'istituto tedesco German Watch, le vittime collaterali del caos climatico si contano a migliaia anche nel Nord del pianeta.
Secondo questo rapporto che raccoglie oltre dodicimila eventi meteorologici estremi registrati nell'ultimo ventennio (1999-2018), al cambiamento climatico sarebbero attribuibili circa 495 mila vittime e perdite economiche superiori ai 3.500 miliardi di dollari.
Sulla base degli indici presi a riferimento, nel 2018 i paesi più colpiti sarebbero stati Giappone, Germania (per le ondate di calore e la siccità) e le Filippine, seguite da Madagascar, India (in testa come numero di vittime e per perdite economiche), Sri Lanka Kenya e così via; nell'ultimo decennio invece i Paesi più danneggiati sarebbero Porto Rico, Myanmar, Haiti, Filippine, Pakistan, Vietnam, Bangladesh e Thailandia.
Se però si guarda il dato del numero assoluto di morti riconducibili ad eventi di questo tipo, l'Italia si colloca nel ventennio al sesto posto ed al diciottesimo per perdite economiche; nel nostro Paese fra il 1999 e il 2018 i morti imputabili direttamente o indirettamente a eventi estremi sono stati 19.947 e le perdite economiche pari a 32,92 miliardi di dollari; nel 2018, 51 morti e 4,18 miliardi di dollari di perdite,
Tristi dunque le prospettive anche nel Belpaese, poiché questo 2019 secondo l’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) chiude con +1,1° gradi rispetto al periodo preindustriale, confermando il decennio più caldo della storia da quando vengono registrate le temperature.
Il fallimento dei negoziati di Madrid
Insomma, dalle premesse emergeva un contesto urgente da cogliere al volo, dando finalmente gambe a misure già abbondantemente note e con soluzioni in ritardo, ma con l'esito positivo attaccato ad un filo di speranza; un po' come una squadra di calcio che deve vincere per forza quella partita che nonostante gli errori è ancora sullo zero a zero ed alla quale un arbitro un po' generoso ha fischiato un rigore a favore in pieno tempo di recupero.
Ecco, per capirsi, i capi di stato o i ministeri competenti presenti alla conferenza di Madrid, hanno deciso di non calciare quel rigore che avrebbe potuto far vincere la partita, almeno secondo i media borghesi più avanzati. In realtà quella partita non l'hanno pareggiata, ma perduta poiché il non agire nella lotta contro il riscaldamento globale non significa solo non fare nulla per drenarlo, ma in sostanza significa continuare ancora sciaguratamente e testardamente con quelle pratiche che hanno portato il nostro pianeta allo stato che tutti noi conosciamo, peggiorandone giorno per giorno le condizioni.
Per la gran parte dei Paesi partecipanti, il pretesto principale – nonostante il peso specifico del Paese sia effettivamente notevole – è stato lo sfilarsi dal trattato di Parigi da parte degli USA (che si concretizzerà nel novembre del 2020), con il negazionista Trump approfittatore del peccato originale della COP21 e quindi della sua volontarietà di adesione senza alcun vincolo; ma in realtà il problema è molto più complesso di come si vorrebbe farlo apparire.
Nei fatti, nemmeno la COP25 ha prodotto niente di vincolante sull’obbligo per i singoli paesi di presentare piani di riduzione delle proprie emissioni di gas serra, e inoltre i paesi più sviluppati, principali inquinatori, non hanno dato garanzie sufficienti per la creazione di un meccanismo che preveda finanziamenti adeguati e sistematici verso i paesi più esposti agli impatti del cambiamento climatico.
Insomma, archiviati anche i due giorni extra di confronto, la conferenza di Madrid si è chiusa mestamente con un rimando dei contenuti principali alla COP26 prevista a Glasgow nel 2020, senza nemmeno un'intesa sull'articolo 6 dell'Accordo di Parigi relativo alla regolazione globale del mercato del carbonio, che per il mondo ambientalista rappresentava uno degli obiettivi minimi che avrebbero dovuto essere centrati. Un fallimento quasi annunciato, ma che ora i fatti rendono evidente.
Le reazioni delle associazioni
Ancor prima della chiusura, ma quando l'esito era già praticamente scritto, Greta Thunberg aveva twittato: "Sembra che la Cop25 di Madrid stia fallendo. La scienza è chiara, ma la si sta ignorando. Qualunque cosa accada non ci arrenderemo mai. Abbiamo solo appena iniziato".
Va all'attacco Greenpeace che per bocca della sua direttrice esecutiva Jennifer Morgan ha definito l'esito della COP25 "totalmente inaccettabile", sotenendo che i progressi auspicati sono stati "ancora una volta compromessi dagli interessi delle compagnie dei combustibili fossili e di quelle imprese che vedono in un accordo multilaterale contro l'emergenza climatica una minaccia per i loro margini di profitto".
L'associazione sottolinea che durante il meeting sono stati esclusi sia la cosciente società civile, sia gli scienziati che chiedevano la lotta all'emergenza climatica, mentre "i politici si sono scontrati sull'Articolo 6 relativo allo schema del commercio delle quote di carbonio, una minaccia per i diritti dei popoli indigeni nonché un'etichetta di prezzo sulla natura. Ad eccezione dei rappresentanti dei Paesi più vulnerabili, i leader politici non hanno mostrato alcun impegno a ridurre le emissioni, chiaramente non comprendendo la minaccia esistenziale della crisi climatica".
Per tutti gli ambientalisti, dito puntato anche contro Brasile ed Arabia Saudita che hanno fatto muro a qualsiasi, seppuir timido, intervento definitivo per mettere al bando le fonti fossili.
Chema Vera, direttrice dell’organizzazione Oxfam International, ha dichiarato al Guardian che "Il mondo sta chiedendo a gran voce di agire, ma la riunione ha risposto con un sussurro. Le nazioni più povere stanno facendo a gara per sopravvivere, e molti governi si sono mossi a malapena dai blocchi di partenza.".
Importante e combattivo è stato il comunicato dei giovani del Fridays for Futures: "Mentre il pianeta brucia, mentre le emissioni continuano ad aumentare, mentre la COP 25 si chiude con un nulla di fatto, mentre i politici continuano a negare il cambiamento climatico o a favorire multinazionali e grandi aziende (...) arrestano chi lotta per l'ambiente! Siamo contro ogni forma di devastazione ambientale, sopratutto se ha come fine ultimo gli interessi economici di pochi e non il bene delle persone. Noi ci siamo già schierati apertamente contro le grandi opere nel nostro territorio, e sosteniamo chiunque porti avanti le stesse lotte in in Italia e nel mondo... Come il movimento No Tav!".
Legare l'ambientalismo alla lotta di classe per il socialismo
Un dato allarmante: da Parigi ad oggi le emissioni sono aumentate del 4%. Questo è il dato certo che deve far riflettere. Un fallimento così evidente, complici le tante, troppe parole gettate al vento nelle altre 24 COP precedenti all'attuale che hanno “allungato il brodo”, facendo rimanere l'industria capitalistica, principale minaccia climatica, ben salda sulle fonti fossili, e ben coperta dalle sedicenti riconversioni green delle quali si straparla in tutte le occasioni.
Ma d'altra parte le COP hanno ottenuto il loro obiettivo d'impatto mediatico anche se con fortune alterne; basti citare l'avvio della Cop 3 a Kyoto dalla quale sorse il protocollo con tale nome nel 1997 che tenne banco anche nelle conferenze successive per il suoi vizi capitali di mantenere in sospeso molte questioni tecniche e di non avere fra i firmatari Cina ed India, già fra i principali emettitori di sostanze climalteranti, inseriti nei cosiddetti “Paesi in via di Sviluppo”.
Il passo successivo possiamo individuarlo nel 2009, alla Cop 15 di Copenaghen, secondo plebiscito globale poi disatteso, poiché l'impegno di mantenere l'aumento delle temperature entro i + 2° gradi, rimase volontario, a seguito del veto di Russia, Cina, Brasile ed India; stessa sorte di Parigi nel 2015 quando nonostante l'iniziale adesione di tutti i Paesi, gli impegni sono rimasti volontari ed ancora una volta traditi dai piani energetici nazionali che stanno causando un aumento di emissioni inarrestabile, con una concentrazione di anidride carbonica in atmosfera che non si raggiungeva da milioni di anni, come hanno dimostrato i carotaggi in Antartide.
Poi, fallimento su fallimento, eccoci giunti a Madrid.
Oggi, nonostante l'allarme sia incalzante, i potenti del mondo non trovano di meglio da fare che perdere ancora tempo prezioso, sostenendo che il 2020 sarà l'anno cruciale poiché alla prossima Cop 26 di Glasgow, l’accordo di Parigi dovrebbe diventare pienamente operativo ed i Paesi aderenti dovranno aver elaborato nuovi piani nazionali molto più ambiziosi degli attuali.
Anche Ursula Von der Leyen, presidente della Commissione europea, ha annunciato a Madrid che fra pochi giorni la Commissione pubblicherà il suo nuovo piano ambientale, il Green Deal europeo, e che a marzo 2020 sarà redatta “una proposta per una legge di transizione irreversibile verso la neutralità climatica”.
Ma sarà vincolante per tutti? E soprattutto, sarà sufficiente per salvare il pianeta se allo stesso tempo dovrà forzatamente salvare i profitti delle multinazionali che vanno a gonfie vele col fossile?
D'altronde oggi i media di tutto il mondo stanno spostando l'attenzione – con la complicità anche di qualche associazione ambientalista – sull'idrogeno, come sostituto al carbonio.
Bene. Siamo senz'altro d'accordo con la ricerca e con lo sviluppo scientifico di nuove alternative, eppure non possiamo fare a meno di constatare che alcune tecniche per lo sfruttamento delle energie rinnovabili alternative credibili ed efficaci ci sono già. Allora perchè non vengono utilizzate su larga scala in sostituzione delle fonti fossili?
Il motivo è molto semplice, e non si tratta di energia solare, eolica, idrica o dell'idrogeno e si chiama “ricerca del massimo profitto”, contrapposta all'utilizzo delle risorse ambientali nell'interesse pubblico; in altre parole la contraddizione di fondo è tra il capitalismo che serve all'interesse di pochi senza badare alle conseguenze, e il socialismo.
Proprio pochi giorni fa a Madrid Dipti Bhatnagar, portavoce della rete Friends of Earth International ha affermato: “Le uniche azioni serie sono un allontanamento totale ed immediato dai combustibili fossili ed un imponente flusso finanziario dal Nord globale al Sud globale”.
Inutile ribadire, fatti alla mano, di come questo concetto, peraltro sostanzialmente corretto, sia privo di prospettiva nel capitalismo, causa di tutti i mali sociali dell'essere umano ed ambientali della nostra Terra, in ogni angolo del mondo.
A lui risponde indirettamente un breve brano tratto dalla corrispondenza di una inviata del Fridays che ha seguito il summit madrileno: “L’intero sistema dei negoziati ONU sul clima è marcio fino al midollo. Si cura a malapena di salvare le apparenze e di nascondere le ingiustizie che continua a perpetrare.”.
Giusto. Altro che Cop, le popolazioni di tutto il mondo, a partire proprio dai giovani del movimento Fridays for Futures, devono comprendere che l'ambientalismo va legato alla lotta di classe e a quella per il socialismo; prima faranno questo salto di qualità e meglio sarà per l'umanità e per il pianeta che solo così potranno uscire dal tunnel dell'autodistruzione dove li ha condotti proprio il marcio e corrotto capitalismo stesso.
24 dicembre 2019