In difesa del posto di lavoro
Sciopero regionale dei call center
In prima fila i lavoratori di Almaviva
Continua la lotta dei lavoratori contro la pesante ristrutturazione di Almaviva, il call center che nella sede di Palermo occupa 2600 persone. Attualmente sono 2.552 i lavoratori che usufruiscono fino al 31 marzo prossimo della cassa integrazione in deroga al 35 per cento: un accordo che per ora ha scongiurato i 1.600 esuberi annunciati dopo la perdita delle commesse dei gestori telefonici, ma dall'altro lato ha messo alla fame i dipendenti e le loro famiglie.
La crisi dei call center è generale, dovuta in massima parte alle delocalizzazioni all'estero. In Sicilia molte agenzie hanno aperto i loro uffici e assunto migliaia di persone contando sulla fame atavica di lavoro dell'isola e sul sostegno delle istituzioni nazionali e locali, per poi andarsene appena trovato un altro Paese dove i salari e la tassazione sono più bassi e favoriscono le pretese dei committenti.
Per mettere in luce questa drammatica sistuazione martedì 28 gennaio è stato indetto lo sciopero regionale dei call center con manifestazione a Palermo. In prima fila i lavoratori di Almaviva che rischiano migliaia di licenziamenti, ma anche quelli di Abramo, che rischia di perdere 150 posti di lavoro su un totale di 450, e poi quelli di Comdata ed Exprivia. In Italia il settore conta circa 90mila occupati, di cui 20mila in Sicilia.
“A Palermo la tensione è alta perché la situazione è veramente drammatica e peggiora di giorno in giorno”, afferma Massimiliano Fiduccia della SLC-Cgil. “Stiamo vivendo una situazione molto complicata, diffusa anche in altri territori. Per questo oggi siamo scesi in piazza con uno sciopero regionale”. Uno sciopero a cui ha aderito oltre il 60% dei lavoratori.
“Il settore dei call center in Italia non si può più permettere di aspettare. Abbiamo bisogno di riforme strutturali. Al governo, già a partire dal 31 gennaio, al tavolo chiederemo leggi per questo settore, ammortizzatori sociali strutturali, rispetto delle tariffe ministeriali e contratti commerciali”, aggiunge Emiliano Cammarata, della Rsu Almaviva. “Ma soprattutto un fondo strutturale che possa servire alla riqualificazione di un settore in profonda trasformazione da troppi anni”
“Ormai – conferma Federico Brugnone della Rsu Abramo – tutti i committenti fanno il bello e cattivo tempo. Decidono di chiudere i rubinetti, spostano le chiamate da un centro all’altro e affossano le speranze di tutti noi. Non è più il lavoro di un tempo in cui il ragazzetto veniva al call center per sostenersi nelle spese universitarie. C’è gente che campa la famiglia, che ha creato un nucleo familiare col lavoro dei call center... non siamo lavoratori di serie B ma lavoratori come tutti gli altri e rivendichiamo i nostri diritti e pretendiamo dal governo che intervenga per difenderci. E intervenga sui committenti: finché non ci saranno regole certe nel settore, non sappiamo cosa ci aspetta domani”.
Proprio il taglio dei volumi di traffico da parte di Tim, Wind-tre e Sky sta alla base della crisi di Almaviva, per questo i sindacati chiedono al governo degli impegni precisi. Per il segretario generale della Slc Cgil palermitana Maurizio Rosso, “se non si mettono a fuoco, come base, tre-quattro regole fondamentali, non cambierà mai nulla, e questo settore sarà sempre precario, vivrà sempre nel terrore”. Rosso evidenzia la necessità di “far rispettare le tariffe contrattuali, che sono fondamentali” e di una severa “lotta alle delocalizzazioni: c’è un enorme traffico fuori dalla comunità europea”.
“Il costo del lavoro di un call center non può essere inferiore a 0,55 centesimi al minuto, invece ancora si fanno appalti a 0,36 centesimi al minuto, così non si possono pagare nemmeno i lavoratori. Se il governo non fa rispettare questo limite, non c’è speranza. Sono anni che diciamo queste cose, ma da parte delle istituzioni non c’è alcun impegno”. La soluzione, conclude Rosso, è che “il governo imponga a questi colossi di rispettare contratti e tariffe, facendo nello stesso tempo una lotta feroce alle delocalizzazioni”.
5 febbraio 2020