Regione Piemonte
In carcere Rosso (FdI), assessore alla legalità, per voto di scambio politico-mafioso
“Comprò dalla 'ndrangheta 2 mila voti per 15 mila euro”
Con la Meloni tanti impresentabili
Con l'accusa di voto di scambio politico-mafioso, il 20 dicembre è finito in carcere l’ex assessore alla Legalità della regione Piemonte ed ex consigliere comunale a Torino, Roberto Rosso, ex boss politico di Forza Italia, passato poi con la Meloni in Fratelli d'Italia.
Insieme a Rosso sono finite in manette altre sette persone nell’ambito di un’inchiesta sulla ‘ndrangheta a Torino condotta dalla Guardia di Finanza e coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia.
Secondo gli inquirenti l'esponente di FdI ha versato ai boss 'ndranghetisti in due tranche un totale di 7.900 euro – a fronte di una promessa di 15mila euro – per un “pacchetto” di circa 2 mila voti utili alla sua rielezione alle regionali dello scorso 26 maggio.
L'accusa è stata anche confermata dal Tribunale del riesame che l'8 gennaio ha respinto la richiesta di scarcerazione avanzata dalla difesa e contro la quale si era già pronunciata anche la Procura.
Gli investigatori hanno documentato – anche con immagini – diversi incontri tra Rosso e alcuni boss, tra cui Onofrio Garcea, esponente del clan Bonavota in Liguria.
Nell’ordinanza di arresto, il Giudice per le indagini preliminari (Gip) Giulio Corato, scrive fra l'altro che: “l’indagato in parola appare muoversi sul terreno elettorale come un novello Didio Giuliano (l’imperatore romano che comprò all’asta la sua carica dai pretoriani, ndr), alla continua ricerca, in plurime direzioni, di occasioni di acquisto in stock del consenso democratico”.
Inoltre, dalle indagini della Guardia di finanza sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta nel Torinese è emersa “la piena consapevolezza del politico (Rosso, ndr) e dei suoi intermediari circa la intraneità mafiosa dei loro interlocutori”.
Nel 2012 Rosso, allora parlamentare del Pdl, firmò un’interpellanza parlamentare urgente presentata da Vinicio Peluffo (Pd), con la quale si chiedeva di approfondire i rapporti tra l’allora prefetto di Lodi, Pasquale Antonio Gioffré e alcuni ‘ndranghetisti coinvolti in inchieste antimafia. Fra questi compariva anche il nome di Onofrio Garcea, proprio il boss con cui nei mesi scorsi, prima delle elezioni, Rosso si è incontrato per definire il mercimonio di voti.
L'arresto di Rosso comunque è solo l'ultimo di una lunga serie di assessori, consiglieri e deputati eletti e/o candidati con FdI e puntualmente finiti tra le grinfie della magistratura per reati gravi e infamanti.
Due giorni prima dell'arresto di Rosso, è finito in manette anche Giancarlo Pittelli, coinvolto nella maxi-operazione calabrese contro la ‘ndrangheta. Pittelli è stato eletto parlamentare con Forza Italia e un paio d’anni fa era passato con la Meloni. L’estate scorsa era invece finito in carcere il presidente del consiglio comunale di Piacenza Giuseppe Caruso, anche lui coinvolto in una inchiesta sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta nel Nord. Secondo l'accusa, avrebbe messo “stabilmente a disposizione prerogative, rapporti professionali e amicali e gli strumenti connessi al proprio lavoro” per gli interessi della criminalità.
Una situazione analoga riguarda anche Enzo Misiano, consigliere FdI a Ferno (in provincia di Varese) arrestato lo scorso luglio con l'accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso: anche in questo caso, gli inquirenti sospettano che il camerata di Fratelli d'Italia abbia avuto un ruolo nella penetrazione della ‘ ndrangheta al Nord e in particolare in Lombardia.
In Calabria la lista degli impresentabili targati FdI è capeggiata da Alessandro Nicolò, consigliere regionale con un passato in Forza Italia finito in carcere a metà estate perché accusato di essere “referente politico” di una cosca. Secondo la Procura Nicolò avrebbe stretto “uno stabile e permanente accordo” con gli uomini della ‘ndrangheta per cui a lui venivano procurati “ingenti pacchetti di voti” e ai clan si garantivano “posti di lavoro, incarichi fiduciari presso gli enti locali, aggiudicazione di appalti” e così via.
In attesa di processo c'è invece Remo Sernagiotto, ex assessore ai Servizi Sociali del Veneto anche lui passato da Forza Italia a Fratelli d’Italia. I reati contestati sono di truffa e corruzione e la vicenda riguarda una ex discoteca che sarebbe dovuta diventare una fattoria didattica grazie ad alcuni fondi riservati ai disabili, ma che invece era stata trasformata in una birreria.
Poi c'è il camerata di lungo corso Pasquale Maietta, noto tra l’altro per essere stato anche il presidente del Latina Calcio. Nel 2018 è finito in carcere – poi ai domiciliari, adesso è libero – perché ritenuto il promotore di un’associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio aggravato, al trasferimento fraudolento di valori, alla bancarotta fraudolente e a reti tributati e societari. Secondo l'accusa, Maietta e altri 12 indagati avrebbero costruito un sistema di frode con fatture false e società fittizie per generare, nell'arco di circa dieci anni, un'evasione fiscale di 200 milioni.
Di istigazione a delinquere deve rispondere invece Giuseppe Cannata, vicepresidente del consiglio Comunale di Vercelli, eletto da indipendente nelle liste di Fratelli d’Italia e poi sospeso dal partito, autore di un post fascista e razzista su Facebook in cui incitava all'odio razziale a alle discriminazione sessuale: “Ammazzateli tutti ste lesbiche, gay, pedofili”.
In provincia di Ferrara c'è invece Luca Cavalieri, assessore alle politiche giovanili di Lagosanto, eletto consigliere grazie a una lista collegata a FdI. Lo scorso settembre Cavalieri è stato beccato a comprare una dose di cocaina da uno spacciatore da tempo tenuto d'occhio dalla narcotici. Per lui nessuna indagine (comprare quel quantitativo non è reato), ma un piccolo scandalo politico che lo ha costretto alle dimissioni.
Poi c'è il caso della deputata Augusta Montaruli, eletta nel 2018, in attesa del processo d'appello bis per le spese pazze in Regione Piemonte. Nel primo appello era stata condannata a un anno e sette mesi.
E pensare che nello statuto di FdI c'è scritto a chiare lettere che il partito della Meloni rifiuta l'iscrizione e la candidatura di condannati “anche in primo grado per reati infamanti”. Sic!
26 febbraio 2020