Non siamo sulla stessa barca. La lotta di classe continui
Più che alle imprese bisogna pensare ai lavoratori e alle masse popolari
Chiudere per 15 giorni le fabbriche remunerando lo stesso i lavoratori
A tre settimane dalla comparsa dei primi focolai in Lombardia e Veneto, l'epidemia di coronavirus si è ormai estesa a tutte le regioni e non accenna ancora a rallentare. Al 16 marzo i contagiati in tutto il Paese hanno superato quota 23 mila, con 2.158 deceduti e 2.749 guariti. Risultano contagiate 104 province su 110, anche se quelle colpite più pesantemente restano quelle del Nord, in particolare della Lombardia, dell'Emilia-Romagna e del Veneto, con situazioni a dir poco drammatiche in città come Bergamo, Brescia, Cremona e Piacenza, dove le terapie intensive hanno già raggiunto la saturazione e si registra il maggior numero di decessi. Ma situazioni allarmanti per il numero in crescita dei contagi e la tenuta delle strutture sanitarie si registrano anche in Piemonte, nelle Marche, in Toscana, nel Lazio e in Campania. Crescono poi i timori per il Sud e le isole, che pur toccati meno per ora dal contagio, non sarebbero in grado di reggere un estendersi improvviso dell'epidemia data l'assoluta insufficienza delle strutture ospedaliere.
La verità è che questa epidemia ha messo a nudo l'insensatezza criminale della politica liberista e privatizzatrice di tutti i governi, tanto quelli di “centro-destra” che quelli di “centro-sinistra”, che negli ultimi decenni ha disastrato la sanità pubblica: tagliando decine di miliardi di finanziamenti, chiudendo centinaia di ospedali e abolendo decine di migliaia di posti letto, e provocando con un accanito blocco del turn-over e delle assunzioni la spaventosa carenza e invecchiamento di medici e infermieri che oggi è sotto gli occhi di tutti. A riprova di quanto siano criminali il capitalismo e i suoi governanti.
Il disastro della sanità e la rivolta nelle carceri
Ci ritroviamo così, sotto l'incalzare del virus, una sanità sull'orlo del collasso, con medici e infermieri costretti a combatterlo con turni massacranti e senza adeguate protezioni. Mancano i test, le mascherine, le tute, i disinfettanti e gli altri dispositivi indispensabili per svolgere in sicurezza il loro prezioso lavoro. Il loro sindacato Anaoo denuncia che sono già oltre 2.000 i contagiati tra il personale ospedaliero, il 12% del settore. Tanto che ha annunciato di aver fatto un esposto alle varie procure regionali per violazione della legge 81/2008 sulla sicurezza nei posti di lavoro. Il governo aveva avuto comunque un mese di tempo, tra l'insorgere della malattia in Cina e la sua manifestazione in Italia, per organizzare un adeguato rifornimento di mascherine e altri dispositivi di protezione almeno agli ospedali, e non l'ha utilizzato, lasciando che l'accaparramento e la speculazione privati facessero sparire anche quel poco che c'era in giro.
Con l'epidemia è esploso anche il problema della disumana e insostenibile situazione di sovraffollamento e invivibilità delle carceri, che da decenni è stato lasciato incancrenire senza mai cominciare ad affrontarlo. Le rivolte che ci sono state nelle carceri di tutto il Paese, con i morti e i feriti che le hanno accompagnate, sono un drammatico avvertimento a porre mano urgentemente al problema alla radice e a migliorare finalmente le condizioni dei carcerati, non certo ad invocare il pugno di ferro della repressione fascista invocato da Bonafede e da Salvini.
Il vergognoso menefreghismo della Ue
L'epidemia ha messo a nudo anche l'inconsistenza e il fallimento dell'Unione europea imperialista, che mai come in occasione di questa emergenza, invece di affrontare la pandemia con regole comuni e sulla base della solidarietà tra Stati, ha mostrato tutto il nazionalismo, l'egoismo e il cinismo che dominano le élite capitalistiche che la compongono. Nonostante che a parole la neo presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen abbia proclamato solennemente che “siamo tutti italiani”, di fatto l'Italia è stata invece vergognosamente isolata e trattata da paese “untore” dagli altri Stati, con il blocco dei collegamenti e la chiusura delle frontiere, e perfino il sequestro per diversi giorni delle spedizioni di mascherine in transito verso l'Italia.
Fino all'intervento sciagurato della presidente della Bce, Christine Lagarde, un'ottusa e arrogante tecnocrate della grande finanza internazionale, che con le sue dichiarazioni sprezzanti che sostanzialmente suonavano “l'Italia si arrangi da sé”, ha affondato la Borsa di Milano e fatto schizzare lo spread sui nostri titoli di Stato vicino a quota 300, mentre l'economia del nostro Paese è già con l'acqua alla gola.
Abbiamo assistito anche alla criminale sottovalutazione della situazione dell'epidemia da parte di governi come quelli della Francia, della Germania e della Spagna, che in varia misura si sono rifiutati di far tesoro degli errori italiani, e pur potendosi muovere in anticipo sui tempi di espansione del virus hanno ritardato fino all'ultimo la chiusura delle scuole e delle attività pubbliche per non perdere quote di produzione e di mercato, esponendo così la loro popolazione a imperdonabili rischi. Per non parlare del governo nazionalista di Boris Johnson che proclama cinicamente di lasciare libero corso all'epidemia per “vaccinare” gli inglesi più forti e fortunati, scontando la morte di centinaia di migliaia di persone più deboli e sfortunate.
Le misure d'emergenza e lo svuotamento della democrazia borghese
Di fronte al rischio del collasso delle strutture sanitarie e per cercare di contenere l'espansione dei contagi, dopo la chiusura delle scuole e delle università in tutto il territorio nazionale fino al 3 aprile, il governo ha esteso a tutta l'Italia anche le misure di chiusura di tutte le attività non essenziali prese inizialmente per la Lombardia e per una serie di province del Nord e del Centro. Contemporaneamente alla promulgazione l'11 marzo del decreto del presidente del Consiglio di chiusura del Paese, il governo ha annunciato anche un decreto economico fino a 25 miliardi per il sostegno alla sanità, ai lavoratori e alle imprese, la cui autorizzazione di spesa in deficit (col “consenso” stavolta della Commissione europea), superando il patto di stabilità recepito nella Costituzione, è stata votata all'unanimità dal parlamento, come ultimo atto prima della sua serrata di fatto fino al 25 marzo. Il decreto economico è stato poi varato il 16 marzo, utilizzando tutti i 25 miliardi stanziati, le dimensioni di una manovra di Bilancio, e Conte ha già anticipato che ci sarà bisogno di una seconda manovra ad aprile.
La chiusura di fatto del parlamento in nome della sicurezza dei parlamentari, e il ricorso ormai esclusivo ai decreti del presidente del Consiglio, presi cioè direttamente dal premier Conte, neanche dal Consiglio dei ministri che si riunisce sempre meno spesso, stanno facendo emergere anche un problema di svuotamento della democrazia borghese che comincia ad essere notato anche da autorevoli giuristi e costituzionalisti, tra cui i professori Piero Ignazi e Gaetano Azzariti. Stante l'assenza del potere legislativo e in forza della situazione emergenziale Conte governa infatti sempre di più come il capo di una repubblica presidenziale, con quei “pieni poteri” che Salvini invocava per sé la scorsa estate, e che ora vengono esercitati di fatto dal suo rivale; rivale dal punto di vista personale, ma che politicamente si muove in fondo nella stessa logica praticata dal duce dei fascisti del XXI secolo.
La chiusura del Paese e i rischi nelle fabbriche
Col suo decreto dell'11 marzo sono stati chiusi fino al 25 marzo tutti i negozi e gli esercizi commerciali ad eccezione di quelli delle filiere agroalimentare e sanitaria, le farmacie, le edicole, i tabaccai, le poste, le banche, e tutti i servizi ritenuti essenziali, compresi i trasporti lasciati alla discrezionalità delle Regioni. Per quanto riguarda le industrie non legate alle due filiere suddette, però, Conte ha ceduto alle pressioni delle associazioni padronali e ha lasciato che a decidere per la chiusura o la prosecuzione piena o ridotta fossero le stesse imprese, con la generica condizione che fossero rispettate le norme sanitarie di sicurezza (distanze minime ecc.) e incentivati lavoro a distanza, congedi, ferie anticipate e quant'altro.
Le segreterie di Cgil, Cisl e Uil, con una lettera alle associazioni padronali e a Conte chiedevano invece uno stop o un rallentamento temporaneo degli impianti per metterli a norma. Ma queste ultime facevano orecchie da mercante, replicando che “la chiusura delle fabbriche sarebbe devastante” (Confindustria Piemonte), o arrivando addirittura a intimare “giù le mani dalle aziende”, come da parte del presidente degli industriali veronesi, Michele Bauli. Il risultato è stato che di fatto, salvo alcune aziende che hanno deciso autonomamente di chiudere per adeguare gli impianti, per la maggior parte il lavoro continuava né più né meno come prima dell'epidemia, con i lavoratori costretti a lavorare gomito a gomito, senza mascherine o altri mezzi di protezione, mancanti praticamente dappertutto, e mettendo così a repentaglio la loro salute e quella dei loro familiari.
Emergevano gravi violazioni della sicurezza denunciate dai lavoratori in molte aziende: “In diverse fabbriche emergono casi di positivi al Covid-19. Ci appelliamo a lei, presidente, perché faccia rispettare il nostro diritto alla salute”, scrivevano ad esempio gli operai di Mirafiori in una lettera a Mattarella. “C’è panico e confusione anche perché si registrano i primi casi di contagio che, talvolta, non vengono resi pubblici dalle aziende”, denunciava il segretario della Fiom del Piemonte, De Martino.
Alla Nct di Chivasso “ai lavoratori che chiedevano il rispetto delle norme di precauzione richiamate anche nel decreto presidenziale l'azienda rispondeva con un netto rifiuto accompagnato dalla minaccia di licenziare tutti coloro che non avessero ripreso subito il lavoro. I lavoratori con le Rsu hanno immediatamente indetto lo sciopero abbandonando lo stabilimento”, faceva sapere la Fiom torinese.
Altre denunce parlavano di bus riempiti di lavoratori senza mascherine, affollamenti senza turnazioni alle mense e alle macchine del caffè, di aziende che imponevano ferie collettive forzate facendo così pagare ai lavoratori le conseguenze dell'emergenza, e altre che arrivavano a imporre straordinari e sabati lavorativi. Non a caso le zone dove si registrano i maggiori contagi sono anche quelle a più alta densità industriale, vedi Brescia e Bergamo. Solo nell'area di Milano, secondo la Fiom, i lavoratori in malattia raggiungono il 40%
Gli scioperi spontanei e l'accordo sulla sicurezza
Si è arrivati così a scioperi e altre manifestazioni di protesta in decine di stabilimenti in diverse regioni. Con la parola d'ordine “non siamo carne da macello”, i lavoratori hanno fermato le fabbriche a Torino, a Milano, nella bergamasca, in Veneto, nei cantieri navali liguri, in Emilia, in Toscana, all'Arcelor-Mittal di Taranto e così via. Le parole del presidente degli industriali lombardi, Bonometti, che definiva “irresponsabili” gli scioperi, accendevano ancora di più la rabbia operaia; si svegliavano anche le direzioni sindacali, che chiedevano una chiusura delle fabbriche fino al 22 marzo per adeguare gli impianti, mentre Confindustria era disposta a concedere al massimo un “codice di autoregolamentazione” volontario, cioè non vincolante, e alla fine Conte si è dovuto precipitare a riunire i vertici di Cgil, Cisl e Uil e le associazioni padronali per arrivare ad un accordo.
L'accordo è arrivato dopo una trattativa di 18 ore su un “protocollo condiviso” che non accoglie la chiusura per 15 giorni di tutti gli impianti per metterli a norma chiesta dai lavoratori e dai sindacati, ma stabilisce più genericamente che la produzione può proseguire solo in presenza di “adeguati” livelli di protezione, e che per garantirli le aziende devono fermare l'attività per il tempo necessario alla sanificazione degli ambienti e per adeguare l'organizzazione interna alle nuove regole, con l'intervento della cassa integrazione per il tempo della fermata. Non è il “codice di autoregolamentazione” volontario chiesto dagli industriali, ma poco ci manca, perché questi hanno preteso e ottenuto che le nuove regole non finiscano nel decreto e trasformate in legge, e perché il periodo di fermata per l'adeguamento degli impianti avrebbe dovuto essere obbligatorio per tutti, di almeno 15 giorni e pagato a stipendio pieno e non con la cassa integrazione.
È chiaro comunque che i lavoratori faranno bene a vigilare affinché i padroni non tentino di approfittare delle ambiguità e lacune del protocollo per risparmiare sulla loro pelle, e a tenersi pronti a scendere di nuovo in sciopero ogni volta che la loro salute e sicurezza venga messa a repentaglio. Perché al di là dei proclami patriottardi del governo e del padronato, non siamo tutti nella stessa barca. La lotta di classe deve continuare anche con l'epidemia, in particolare dobbiamo impedire agli imprenditori di sacrificare le operaie gli operai come carne da macello pur di non rinunciare ai loro profitti.
18 marzo 2020