In tutta Italia, dalle fabbriche ai magazzini della logistica
Gli operai protestano denunciando la mancanza di sicurezza
11 giorni di sciopero alla Lucchini di Bergamo. La discrezionalità dei prefetti permette a migliaia di aziende non essenziali di rimanere aperte
Non siamo tutti sulla stessa barca
Dopo il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DCPM) del 25 marzo l'elenco delle aziende che possono lavorare, nonostante le restrizioni legate al contrasto del coronavirus, è stato rivisto. Sotto la pressione degli scioperi spontanei Cgil-Cisl-Uil sono state costrette a chiedere un incontro al governo per restringere la lista ma, nonostante l'enfasi di Landini e degli altri segretari confederali, si è trattato di un ridicolo ridimensionamento che ha interessato solo 200mila nuovi lavoratori. Si calcola che per mandare avanti le attività veramente necessarie occorrerebbero 4,5 milioni di lavoratori, la metà rispetto ai 9 milioni tutt'ora in attività.
Chi è costretto a lavorare dovrebbe essere messo in condizione di rispettare misure di sicurezza per salvaguardare la propria salute e quella degli altri. Al riguardo c'è un protocollo apposito firmato dai sindacati confederali utilizzato da molti industriali come foglia di fico per continuare la produzione. Ma nemmeno questo protocollo viene messo in pratica, essenzialmente per due motivi. Il primo è che per certi lavori risulta assai difficile mantenere le distanze e i dispositivi di protezione individuali (dpi) sono difficili da trovare, tanto che scarseggiano persino tra chi, come il personale sanitario, si trova a stretto contatto con i contagiati.
Il secondo motivo, ma non per importanza, è che i padroni non si fanno tanti scrupoli nel mettere a rischio la salute dei propri dipendenti pur di salvaguardare i loro profitti. Questo avviene sopratutto nelle piccole aziende, in quelle non sindacalizzate e tra i precari. Dove non esiste alcuna forma organizzata e tra chi non ha la certezza del posto di lavoro il ricatto padronale si fa molto forte, costringendo il lavoratore ad accettare condizioni che non rispettano nessun protocollo e regola di sicurezza.
Poi ci sono anche grandi multinazionali che non le rispettano: è il caso si Amazon, che in Italia ha migliaia di addetti costretti a lavorare a ritmo serrato e con scarsità di dpi. Il gigante americano del commercio elettronico sta sfruttando al massimo la situazione visto che con la maggior parte dei negozi chiusi le consegne a domicilio sono aumentate. Le proteste dei lavoratori sono partite dai maggiori centri di distribuzione, come a Piacenza e quello nei pressi di Roma, poi sono dilagate in tutta Italia.
Lunedì 30 aprile è stata la volta del centro Amazon di Calenzano, in provincia di Firenze. "Ogni giorno circa 10mila pacchi (a stragrande maggioranza si tratterebbe di beni non essenziali) lasciano il magazzino Amazon di Calenzano per raggiungere le case dei cittadini di tutta la Città metropolitana", si legge nel comunicato della CGIL Toscana. Dei 300 lavoratori, tra i diretti e i corrieri delle ditte in appalto, almeno la metà ha scioperato per chiedere maggiore sicurezza e la cessazione delle consegne non indispensabili.
Per rimanere in aziende con centinaia di addetti, da segnalare la vicenda della Dayco, tre sedi in Abruzzo e circa cinquecento lavoratori che ogni giorno sono attivi nella produzione di cinghie di trasmissione per automobili. I lavoratori raccontano come la loro fabbrica non produca nulla di essenziale: “Le cinghie si cambiano ogni 100mila chilometri, in alcuni casi addirittura ogni 250mila, i magazzini sono pieni e di macchine in circolazione ce ne sono ben poche. Perché dobbiamo venire tutti i giorni?”.
Sulle condizioni di sicurezza i lavoratori denunciano: “Ci hanno dato una mascherina di stoffa con degli elastici che nemmeno si reggono sulle orecchie. Poi abbiamo un paio di guanti di lattice al giorno che non possiamo cambiare perché ci hanno detto di averne pochi: se dobbiamo andare in bagno non possiamo nemmeno toglierli perché poi sarebbero inutilizzabili. Poi, per ogni capannone, hanno messo appena un dispenser di disinfettante da un litro”.
Per rimanere in Abruzzo, a Teramo la prefettura ha diffuso i dati delle fabbriche ancora aperte sul territorio provinciale: su 65 aziende, 57 sono autorizzate a operare, per un totale di 1.630 lavoratori coinvolti. Se ci sono aziende che hanno riattivato solo le linee di produzione legate alla gestione dell’emergenza, fermando gli altri lavoratori con la cassa integrazione, “molte altre, al contrario, stanno approfittando di questa opportunità per tenere attivi interi stabilimenti industriali in cui le produzioni per l’emergenza sono residuali”, denunciano Fiom e Fim.
In Lombardia undici giorni di sciopero consecutivi per non riaprire gli stabilimenti siderurgici della Lucchini di Cividate Camuno e Lovere ed evitare così il rischio di contagio da Coronavirus. Lo hanno proclamato Fiom Cgil, Fim Cisl, e Uilm Uil dell’alto Sebino, in provincia di Bergamo, una delle zone più colpite d'Italia dalla pandemia. Per "contrastare l’atteggiamento cieco della Lucchini - spiegano i sindacati -, che intende riaprire la produzione, nonostante non sia stato concordato nulla in termini di prevenzione e di tutela della salute dei lavoratori. Ci troviamo costretti a proclamare 11 giorni di sciopero - concludono Fiom, Fim e Uilm -, dal 3 al 13 aprile compresi, cioè fino al perdurare del decreto ministeriale attualmente in vigore, per tutelare la salute di tutti i lavoratori Lucchini e dei loro cari”.
Altre denunce sulla mancanza di sicurezza e richieste di fermare la produzione arrivano dai lavoratori della Nuovo Pignone di Massa e Carrara. L'azienda fa parte del gruppo americano produttore di tecnologia per lo sfruttamento energetico Baker Hughes e nel suo stabilimento apuano si sono già verificati 2 casi positivi al Covid-19 tra i lavoratori. Gli scioperi avevano costretto la direzione a fermare la produzione per sanificare gli ambienti e dotarsi dei dpi.
In una lettera inviata a un quotidiano locale i lavoratori chiedono “l’intervento di tutte le OO.SS. e di tutti gli organi preposti in materia affinché verifichino le condizioni in cui ci troviamo costretti a lavorare, dal momento che ancora oggi in molte lavorazioni non sussistono le condizioni di sicurezza previste dai dispositivi governativi in materia” e “il blocco di tutte le attività con codici ateco diversi da quelli contenuti nel decreto, permettendo unicamente le lavorazioni afferenti ai prodotti ritenuti essenziali”, come hanno già richiesto i sindacati.
La vicenda della Nuovo Pignone, come tante altre, evidenzia come i decreti governativi sono fatti in maniera tale da essere aggirati facilmente. Ci riferiamo in particolare alla norma che consente alle aziende che non sono nella lista delle produzioni considerate “essenziali” di restare aperte, purché ne facciano domanda al prefetto, affermando che le loro produzioni sono funzionali alla filiera dei beni essenziali. A quel punto il prefetto può sospendere le produzioni, ma se non interviene si va avanti.
Per questo sono tantissime le proteste che si levano dagli operai in tutta Italia. Magari in piccole aziende, ignorate del tutto dai mezzi d'informazione. Basti pensare che le richieste ai prefetti per continuare a lavorare sono state decine di migliaia in Lombardia, la regione più colpita e con più morti, e anche la più industrializzata, 12mila in Veneto, 10mila in Emilia-Romagna, 7mila in Toscana, 2500 in una regione piccola come il Friuli-Venezia Giulia.
Numerose richieste di deroga riguardano la logistica. A Piacenza (zona ad alta mortalità) da lunedì 6 aprile un po' alla volta i lavoratori Ikea sono stati chiamati a riprendere l'attività. Il sindacato USB a tutela della salute di questi lavoratori e dell'intera comunità ha indetto lo stato di agitazione permanente e “invita le
autorità competenti a vietare la ripresa del lavoro perché le poltrone, i divani e le librerie non sono beni essenziali”. Proteste e scioperi anche nel centro smistamento GLS di Verona dove 150 lavoratori si affollano nel magazzino senza poter rispettare le distanze.
Continuano gli scioperi dei lavoratori del commercio. Molte catene della grande distribuzione puntano a far cassa, approfittando delle chiusure di molti mercati di strada e piccoli alimentari che hanno consolidato il loro monopolio, chiedono addirittura l'estensione degli orari e delle giornate di apertura. Domenica 5 aprile sciopero in Liguria e in Toscana di tutti gli iper e supermercati indetto dalla Filcams-Cgil. Per chiedere lo stop alle aperture festive e all'orario selvaggio e per una regolamentazione più rigida degli accessi che salvaguardi i lavoratori e gli stessi consumatori.
Questo è solo un quadro parziale di tutte le lotte e le denunce messe in atto dagli operai e dai lavoratori italiani perché le notizie al riguardo, come già detto, vengono date con il contagocce. Però è sufficiente a far capire come la lotta di classe continua e deve continuare. Non “siamo tutti sulla stessa barca” come predicano insistentemente Conte e i partiti parlamentari, ai quali si è aggiunto ora il papa. L’emergenza sanitaria non ha annullato le disuguaglianze sociali e territoriali e la classe dominante borghese e il capitalismo cercheranno di scaricare la conseguente crisi economica sui lavoratori e sulle masse popolari, che dovranno reagire senza cedere alla richiesta di collaborazione di classe in nome di una ipocrita e inesistente “unità nazionale”.
8 aprile 2020