Ambasciatori africani accusano la Cina di razzismo verso gli africani
Campagna con lo slogan “China go home” in Kenya
In molti paesi imperialisti occidentali all'inizio dell'esplosione della pandemia coronavirus partiva la caccia al possibile caso zero nazionale che fosse collegato al focolaio cinese di Wuhan, una caccia che investiva le comunità cinesi con risultati fallimentari come nel Veneto del leghista Zaia. Ma tanto bastava perché una campagna con connotati razzisti si sviluppasse per tentare di concentrare l'attenzione sulla ricerca di un “untore” con la pelle gialla e gli occhi a mandorla cui dare la responsabilità della diffusione di un virus scatenata piuttosto dalle leggi economiche capitalistiche. La Cina socialimperialista di Xi Jinping ha dichiarato estinto il focolaio di Wuhan ma teme una seconda fase di contagi di “ritorno”, di una nuova diffusione del virus causata da cinesi o stranieri contagiati provenienti dal resto del mondo dopo che una città di frontiera con la Russia nel nord della Cina è stata messa in quarantena. E anche nella Cina capitalista è partita una campagna razzista contro i possibili “untori”, in particolare africani, a Guangzhou (Canton, la più grande città costiera del sud del paese, capoluogo della provincia del Guangdong) dopo che alcuni nigeriani sono risultati positivi al Covid-19. Il regime di Pechino ha cercato di correre ai ripari, non tanto per tutelare i diritti dei lavoratori stranieri quanto per tappare una falla pericolosa che potrebbe incrinare i rapporti economici privilegiati coi paesi africani connessi con la nuova Via della Seta.
I diplomatici di 20 Paesi africani, fra i quali quelli di Ghana, Nigeria, Kenya e Uganda, denunciavano il trattamento inumano subito dai propri cittadini in Cina, con casi di discriminazione razziale nei confronti dei circa 4.500 residenti africani a Guangzhou. Nella megalopoli di oltre 13 milioni di abitanti sono bastati 12 residenti africani contagiati su un totale di circa 500 casi di infezione per far partire una vera e propria campagna xenofoba nel quadro della lotta al coronavirus; una campagna aperta dalle autorità locali con la decisione dei test obbligatori ma anche con la quarantena obbligatoria per tutta la comunità.
I casi denunciati dagli ambasciatori riguardano residenti africani sfrattati malgrado avessero pagato in modo regolare l’affitto, diversi dei quali respinti dagli alberghi e costretti a dormire all’aperto; altri relegati in quarantena ma senza aiuto e assistenza dalle autorità e costretti a uscire per procurarsi almeno il cibo hanno trovato cartelli di divieto di ingresso in supermercati, fino a un Mc Donald che aveva esposto un cartello con la scritta “vietato l’ingresso alle persone di colore”, ritirato dopo che un video di denuncia era circolato nel web.
Dopo la protesta degli ambasciatori, il ministero degli Esteri cinese ha garantito che le autorità della provincia avrebbero eliminato in modo graduale le limitazioni e le restrizioni sanitarie imposte agli africani e che sotto stretta osservazione sarebbero rimasti solo gli individui che hanno contratto il virus, le persone con cui sono entrati in contatto e i casi sospetti. Il governo di Pechino sottolineava che le nuove misure fondate sul “principio di non discriminazione” sarebbero state adottate in coordinazione con i consolati dei Paesi africani interessati a Guangzhou.
Ai primi di aprile la Cina aveva lanciato con grande risonanza mediatica una campagna di aiuti, di donazione di materiale sanitario a diversi paesi africani anzitutto per mantenere quella fitta rete di legami costruita con molti paesi per facilitare la propria penetrazione economica nel continente. E i volti degli “amici cinesi” dei paesi africani erano quelli del miliardario Jack Ma, di Alibaba, che inviava mascherine, test diagnostici e tute protettive in Etiopia e della Huawei, il gigante delle telecomunicazioni, che donava materiale sanitario a Tunisia, Sudafrica, Zambia e Kenya. Proprio dal Kenya, il paese al quale giusto un anno fa l'imperialismo cinese aveva prestato 70 milioni di dollari ed era diventato il primo creditore del paese africano, partiva una campagna con lo slogan “China go home”, “la Cina deve andarsene” come reazione alle immagini e alle notizie di discriminazione a Guangzhou.
22 aprile 2020