Nonostante il coronavirus
Il popolo libanese ritorna in piazza. L'esercito spara e uccide
“Meglio morire di Covid-19 che di fame”
Dallo scorso 7 marzo il Libano è ufficialmente “fallito”, con un debito al 170% del pil il capo del governo Hassan Diab da poco insediato dichiarava il default per la prima volta nella storia del paese, definito un tempo la Svizzera del Medio Oriente; eppure fino a due anni fa il governatore della Banca centrale Riad Salameh dichiarava che tutto andava a gonfie vele, la crisi finanziaria del 2008 non aveva scalfito la solidità del paese e i depositi nelle banche superavano di tre volte il pil nazionale. Davanti a quelle sedi bancarie, dove i movimenti dei conti correnti sono fortemente limitati da mesi, dal 23 aprile è ripartita la protesta dal nord di Tripoli a Beirut che aveva avuto inizio il 17 ottobre scorso in piena crisi economica e finanziaria contro i governanti corrotti e clientelari e per una maggiore democrazia. Una crisi aggravata dal carico dei circa 2 milioni di profughi dovuti alla guerra nella confinante Siria su una popolazione di 5 milioni di abitanti.
Una protesta solo per poche settimane frenata dall'esplosione del coronavirus che ha avuto effetti ancora più devastanti sulle condizioni di vita delle masse popolari col raddoppio dei prezzi dei beni di consumo, la svalutazione del valore della moneta di oltre due terzi, la dilagante disoccupazione soprattutto giovanile, la povertà crescente e che ha raggiunto quasi la metà della popolazione. Una condizione riassunta nel significativo slogan “meglio morire di Covid-19 che di fame” gridato davanti ai soldati inviati dal governo a reprimere le proteste, ai soldati che hanno sparato e ucciso.
Le manifestazioni in piazza sono ripartite il 23 aprile nelle città di Tripoli a nord e Sidone a sud con cortei e blocchi stradali, copertoni incendiati nei pressi delle banche attaccati dai soldati con gas lacrimogeni e proiettili di gomma. Gli scontri più duri si registreranno il 27 aprile a Tripoli dove l'esercito ucciderà un giovane manifestante oltre a causare una quarantina di feriti. Nelle due città e nella capitale la protesta continuava infatti nei giorni successivi, dall'area portuale di Tripoli, dove i manifestanti lanciavano pietre e petardi e incendiavano veicoli militari, al centro di Sidone, presso la sede della banca nazionale. A Beirut la protesta aveva il suo centro in Piazza dei Martiri, un luogo simbolo della mobilitazione popolare in corso da ottobre, e sull'autostrada a nord della città bloccata dai manifestanti. Blocchi stradali e proteste davanti le banche si ripetevano in varie parti del paese, fino a Saida e Tiro.
Le conseguenze dell'emergenza coronavirus hanno amplificato le ragioni della protesta delle masse popolari che erano scese in piazza il 17 ottobre scorso e che come primo risultato ottenevano le dimissioni il 29 ottobre dell'allora premier, Saad Hariri, amico degli Usa e dei paesi arabi reazionari. Ci vorranno tre mesi e mezzo affinché le manovre condotte dal presidente, Michel Aoun, portassero all'insediamento di un nuovo esecutivo guidato da Hassan Diab. Il quale prometteva riforme ma sfruttando l’emergenza coronavirus faceva sgomberare il centro di Beirut dai manifestanti e poi accusava l'opposizione di fomentare le proteste e di reggere il sacco all'ostruzionismo delle misure governative da parte del quasi trentennale governatore della Banca centrale libanese, il filoamericano Riad Salame.
Il responsabile della banca centrale, accusava Diab, avrebbe orchestrato il crollo della valuta nazionale e coperto le perdite nel settore bancario e la fuga di capitali. I partiti oggi all'opposizione, dal sunnita Futuro dell’ex premier Saad Hariri al Partito Socialista progressista di Walid Jumblat, alle cristiane Forze Libanesi di Samir Geagea, hanno certo le loro responsabilità nei precedenti governi e nel fomentare la protesta verso un esecutivo sostenuto dalle formazioni sciite di Hezbollah e Amal, dai cristiani del Movimento dei Patrioti Liberi, da alcuni parlamentari sunniti.
Anche Diab è un sunnita, ex ministro dell'istruzione tra il 2011 e il 2014 in un governo formato da Hezbollah e dai suoi alleati, poiché secondo la costituzione del 1943 la carica di premier spetta ad un rappresentante di questo gruppo religioso. Per mandato costituzionale il capo di Stato del Libano è di confessione cristiano-maronita, stimati in circa il 40% della popolazione; il primo ministro è un leader della comunità sunnita, circa il 20% della popolazione e il presidente del parlamento è un rappresentante degli sciiti, attorno al 35% della popolazione. Questa ripartizione del potere tra le componenti politico-religiose ha favorito in Libano la formazione di un sistema di partiti costruito su base familistica ed ereditaria che vede la leadeship dei principali gruppi passare di padre in figlio a difesa degli interessi della borghesia nazionale. Un sistema non scalfito neppure dall'apparizione sulla scena politica di Hezbollah, l'organizzazione sciita che si è conquistata il suo spazio politico e militare con la vittoriosa resistenza all'invasione sionista e che per la sua alleanza con l'Iran, ricambiata col sostegno al vicino regime siriano di Assad, sarebbe un'organizzazione terroristica per i sionisti di Tel Aviv, gli Usa e dal 30 aprile anche per la Germania della Merkel.
La protesta popolare è partita contro il carovita e le misure economiche del governo Hariri contenute nella legge di bilancio per il 2020, comprese la tassa di 20 centesimi al giorno sulle chiamate effettuate via app di messaggistica, nuove tasse su tabacco, benzina e altri social media e un aumento dell’Iva del 2% per due anni. E ha scosso anche il sistema istituzionale, tanto che la nomina di Diab era accolta dalle proteste che continuavano nelle principali città con i manifestanti che definivano il suo governo una continuità del sistema e non una svolta.
Il governo di Diab non può contare neppure sugli aiuti di una parte dei paesi imperialisti che una volta visto eliminato dal gioco il pupillo Hariri sono schierati contro il governo sostenuto da Hezbollah. Per poter avere l'assistenza delle istituzioni finanziarie internazionali, ossia gli aiuti finanziari da restituire a caro prezzo, dichiarava il Vice Segretario di Stato per gli affari del Vicino Oriente, David Schenker, “il Libano deve dimostrare che è pronto a compiere scelte difficili”, con riforme liberiste in tutti i settori dell'economia e aumentare le tasse. In altre parole vorrebbero il suicidio politico del governo non amico, con una politica di lacrime e sangue per le masse popolari libanesi che da mesi sono in piazza per combatterla.
6 maggio 2020