Arcelor Mittal mette in cassa integrazione gli operai
Corteo di protesta a Cornigliano, sciopero a Taranto
Il 15 maggio scorso, approfittando dell’emergenza provocata dal coronavirus, il colosso siderurgico franco-indiano Arcelor-Mittal, subentrato nel novembre 2018 all’ex Ilva nella gestione straordinaria degli impianti, mandava in cassa integrazione altri 1000 dipendenti nei siti di Taranto, Genova e Novi Ligure.
La comunicazione, inviata a notte fonda attraverso il portale dell’azienda, senza preavviso e senza che venisse discussa coi sindacati, ha scatenato l’ira dei metalmeccanici che la mattina seguente giunti in fabbrica a lavorare - non avendo potuto controllare la posta elettronica - si ritrovavano con il badge disattivato e scoprivano così di essere stati messi in cassa integrazione. Una modalità, definita dalle stesse associazioni sindacali “piratesca e provocatoria”.
Ma da Nord a Sud la risposta degli operai non tardava ad arrivare, anche perché rispetto alla cig del 4 marzo scorso che prevedeva la possibilità di un ritorno al lavoro su richiesta dei responsabili del settore di appartenenza, questa possibilità - vista la causale covid - non veniva più contemplata. Di qui, il timore di una sospensione di lunga durata a soli 750 euro al mese.
A Novi Ligure veniva subito indetto lo sciopero ad oltranza, mentre lunedì 18 maggio, un migliaio di lavoratori dello stabilimento di Cornigliano, scendevano in corteo per protestare e chiedere un confronto con l’azienda davanti la prefettura.
“Una camminata di centinaia e centinaia di lavoratori che hanno lo stesso obiettivo - spiega Bruno Manganaro segretario regionale Fiom Cgil - andare in prefettura per difendere il diritto al lavoro e per denunciare che questa azienda usa una cassa integrazione che non potrebbe usare, che è una cassa integrazione per pandemia mentre non c’entra niente il problema della pandemia. Mittal si prepara ad abbandonare l’Italia e lo fa ricattando tutti gli stabilimenti, noi abbiamo deciso che a Genova non ci stiamo!”.
A Taranto, dopo la chiusura di una serie di impianti dell’area a caldo e a freddo, il massiccio ricorso alla cig ha portato il numero di lavoratori da 8200 a 2000 unità e un calo della produzione che ha toccato il “minimo tecnico” pari a 7,5 mila tonnellate di ghisa giornaliere. Il 22 maggio scorso, l’Usb ha indetto uno sciopero di 24 ore con presidio davanti gli uffici della direzione. Vi hanno partecipato circa 200 lavoratori armati di striscioni e mascherine che gridavano “Arcelor vai via!”.
Oltre al blocco degli investimenti per l’ambientalizzazione, ai costanti ritardi nei pagamenti delle fatture per le attività già svolte dalle imprese dell’appalto, la multinazionale siderurgica pare non abbia corrisposto ad Ilva l’ultimo canone del fitto degli impianti , nonostante un accordo raggiunto il 4 marzo scorso l’avesse dimezzato rispetto i 45 milioni iniziali.
A tutto questo si aggiunge la mancanza di un piano industriale, in base al quale si sarebbe dovuta svolgere una nuova trattativa avente per obiettivo il riassetto del gruppo entro novembre 2020 con l’ingresso dello Stato.
Insomma, altro che costringere Arcelor-Mittal a rispettare gli impegni presi, come garantito a novembre del 2019 dal presidente del consiglio, il trasformista liberale Giuseppe Conte.
Il sindacalista Francesco Brigati della segreteria Fiom Cgil di Taranto tiene a ribadire che la mobilitazione non si fermerà: “Torneremo in piazza, noi continuiamo a dire che la situazione è diventata ormai insostenibile e che deve necessariamente essere affrontata dal governo con chiarezza e determinazione”.
Nel momento in cui scriviamo si è conclusa da poco una videoconferenza tra il Mise, i vertici Arcelor-Mittal e i sindacati. Lucia Morselli, amministratore delegato della multinazionale, ha confermato la volontà di andare avanti e “onorare gli impegni presi fino in fondo anche con le difficoltà causate dal covid”. Mentre per il ministro Patuanelli “il governo ritiene ci siano le condizioni per proseguire con il piano industriale, elemento imprescindibile da cui partire”.
Basta promesse che poi non verranno mantenute, basta perdite di tempo! Gli operai non devono essere considerati carne da macello: sono loro a produrre la ricchezza del Paese.
In realtà, tutto questo poteva essere evitato se l’ex Ilva fosse stata nazionalizzata quando andava fatto: l’unica strada che bisognava percorrere per salvare i posti di lavoro.
Invece, il governo ha preferito lasciare campo libero a una società privata senza scrupoli che ha per unico scopo il profitto e che ha fatto carta straccia degli impegni presi, continuando di fatto a licenziare e mettere in cassa integrazione i dipendenti.
C’era da aspettarselo, è bene ricordare che in Romania la più grande acciaieria del paese che impiegava 20 mila persone fu acquistata da Arcelor-Mittal nel 2003 e appena 8 anni dopo contava solo 700 dipendenti! La conferma che sotto regime capitalista, gli interessi dei padroni non potranno mai coincidere con quelli dei lavoratori.
La lotta di classe continui. Per evitare altri scempi è necessario battersi unitariamente con forza per una effettiva nazionalizzazione dell’ex Ilva, con relativa messa in sicurezza degli impianti, ripristino dei livelli occupazionali, riduzione delle emissioni e salvaguardia dell’ambiente e della salute della popolazione.
27 maggio 2020