Come insiste Landini sulle pagine di Repubblica
Applicare gli articoli 39 e 46 della Costituzione vuol dire legare mani e piedi delle lavoratrici e dei lavoratori al capitalismo
Lavoratori e padroni non sono sulla stessa barca
Incurante dei continui e sempre più espliciti segnali di guerra provenienti dalla nuova direzione confindustriale del falco Bonomi, che si propone di uscire dalla crisi economica causata dal coronavirus incalzando da destra il governo, preparando un'ondata di licenziamenti e ristrutturazioni e mettendo nell'angolo i sindacati, Maurizio Landini continua a portare avanti la trasformazione della Cgil da sindacato rivendicativo e conflittuale, quale era all'origine, a sindacato istituzionale e cogestionario, come è disegnato negli articoli 39 e 46 della Costituzione, mai applicati finora ma ormai sul punto di essere realizzati forse proprio con l'occasione offerta dalla pandemia.
Per il segretario della Cgil, infatti, la crisi pandemica è l'occasione per uscirne verso “una nuova Italia”, un “altro Paese che abbia al centro un nuovo Stato sociale, il rispetto dell’ambiente, un uso intelligente delle tecnologie digitali, un rapporto diverso tra imprese e lavoro, una stagione, infine, di investimenti pubblici”. In altre parole con un nuovo “patto sociale” che leghi il sindacato al governo e alle imprese nel comune obiettivo di trarre la barca del sistema capitalistico italiano fuori dalla tempesta. Questo infatti è il senso dell'intervista che ha rilasciato a La Repubblica
del 16 maggio della nuova proprietà Fiat-Fca e della nuova direzione Molinari, in cui mette sul piatto la sua disponibilità a cambiare i rapporti tra imprese e lavoratori nel quadro di un modello “partecipativo” dell'economia.
“La responsabilità di tutta la classe dirigente italiana è quella di ripensare e riscrivere un nuovo modello sociale e un altro modello di sviluppo. Dobbiamo farlo insieme perché anche le nostre divisioni ci hanno danneggiato. Dobbiamo fare sistema, rivolgendoci all’intelligenza collettiva come in altri Paesi europei”, dice Landini, avendo evidentemente come riferimento il modello cogestionario della Germania, dove i rappresentanti sindacali siedono anche nei consigli di amministrazione delle aziende, e dove il governo della Merkel ha pompato centinaia di miliardi nelle grandi aziende tedesche per fronteggiare la crisi.
Tuttavia il segretario della Cgil ci tiene a precisare di non pensare affatto a una politica “statalista” e di nazionalizzazioni, ma semmai di “regolazione” e di “indirizzo” dell'economia di mercato, eventualmente anche attraverso un certo grado di partecipazione dello Stato nelle imprese: “Non si tratta di tornare indietro. Ci sono società pubbliche gestite bene e società private gestite male. Usciamo dai luoghi comuni. Io credo che lo Stato possa essere regolatore e insieme imprenditore. Anche qui lo dice la Costituzione all’articolo 41”, dice infatti Landini. E subito aggiunge: “Non demonizzo il mercato e il profitto, ma penso che le imprese debbano essere virtuose e al servizio della comunità. Bisogna sostenere quelle che si muovono in questa direzione e smetterla con gli aiuti a pioggia”.
Sindacato conflittuale e sindacato partecipativo
Insomma Landini vorrebbe la botte piena e la moglie ubriaca: non mette in discussione la libertà di mercato e di profitto, ma vorrebbe che le imprese capitaliste, mentre pensano a fare profitto, siano anche “virtuose” e pensino al bene collettivo, meritandosi il sostegno del governo e la disponibilità del sindacato. In realtà si tratta solo di una distinzione artificiosa, una foglia di fico per giustificare agli occhi dei lavoratori l'approccio filogovernativo, collaborazionista e cogestionario del sindacato alle politiche per l'uscita dalla crisi pandemica. Tant'è vero che alla domanda dell'intervistatore, se non tema “l'attivismo politico del nuovo presidente degli industriali Carlo Bonomi”, Landini risponde: “Ma no, non è questo. Ripeto: non ha senso dare i soldi pubblici a chi continua a fatturare. Questo non è più il momento di mettersi al petto le medaglie. È necessario alzare lo sguardo, smetterla di guardare ai tempi brevi, a quel che succede domani. Bisogna pensare a quel che vogliamo che sia l’Italia dei prossimi vent’anni, vanno cambiati anche i rapporti tra imprese e lavoro”.
Cioè, non solo glissa sulle continue sparate da falco di Bonomi e non raccoglie le sue continue provocazioni, ma gli rinnova l'offerta di dialogo per “cambiare i rapporti tra impresa e lavoro”, vale a dire per un confronto che non sia solo conflitto ma – precisa Landini - “il conflitto che ricerca una mediazione [che] è il cuore della democrazia”; per arrivare a una “nuova contrattazione collettiva” (quindi diversa dall'attuale modello frutto delle conquiste del passato, come chiede appunto Confindustria, ndr), quale “strumento per disegnare un modello nel quale imprese e lavoratori abbiano pari dignità”. Come poi sia possibile che abbiano “pari dignità” l'operaio sfruttato che possiede solo la sua forza-lavoro e il capitalista sfruttatore, che possiede i mezzi di produzione e ha dalla sua lo Stato, questo Landini si guarda bene da spiegarlo. Conclude solo dicendo che “dobbiamo immaginare un modello nel quale chi lavora possa partecipare e dire la sua sulle decisioni che lo riguardano e definiscono le future strategie. Non dobbiamo tornare indietro”. Cioè insiste sempre sul tema della cogestione e del “patto sociale”.
No al “contratto sociale” di Bonomi e Landini
Anche Bonomi si dice favorevole a un nuovo “contratto sociale”(definizione del governatore di Bankitalia Visco): ovviamente alle sue condizioni, cioè con un governo ai suoi ordini e un sindacato collaborazionista. Il presidente di Confindustria lo ha detto in un'intervista a La Repubblica
del 31 maggio, dopo aver avvertito però il sindacato “di cambiare epoca, di smetterla di guardare il lavoro dallo specchietto retrovisore: il mercato del lavoro è sottoposto ad un processo di transizione radicale. Nulla sarà come prima. Bisogna puntare sulla produttività ancor prima di parlare di aumenti retributivi”. E aggiungendo subito dopo che “il contratto nazionale va ridotto. Deve diventare una cornice esile per affidare al contratto di secondo livello, in azienda, un ruolo preponderante”. Infine, alternando ancora una volta il bastone e la carota, ha ripetuto l'offerta direttamente a Landini: “Le aziende sono pronte a coinvolgere un sindacato aperto e collaborativo nelle scelte organizzative. Non mi pare poco”.
Landini gli ha risposto a stretto giro con un'intervista a La Stampa
(anch'esso proprietà della famiglia Agnelli) del 1° giugno in cui ribadisce da parte sua che “un 'contratto' sociale è una necessità. Fatto col governo e tutte le parti, senza aspettare settembre. Agiamo fisco, ammortizzatori, formazione e scuola. È centrale il rinnovo dei contratti di lavoro. Mentre aumentano le diseguaglianze e il rischio di rivolta sociale, un vaccino che servirebbe è per un lavoro stabile che si opponga alla precarietà”. Il metodo, spiega Landini, è quello che ha portato alla sigla del protocollo di sicurezza durante la pandemia, che “è stata una via intelligente di affrontare il futuro, perché imprese e lavoro hanno avuto pari dignità”. Peccato che i lavoratori non siano stati trattati affatto con “pari dignità”, dato che hanno dovuto protestare e scioperare al grido di “non siamo carne da macello” per costringere padronato e sindacati a riconoscere il problema sicurezza. Da notare che la famiglia Agnelli-Elkann pare tirare i fili di questo progetto di “contratto sociale”, visto come sta usando i suoi giornali come cassa di risonanza della Confindustria, facendo a gara in questo con l'altro polo editoriale padronale del Corriere della Sera
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Non rinunciare mai alla lotta di classe
Tutto ciò dimostra che anche la Cgil, e paradossalmente proprio quella dell'ex “sinistro” Landini, ha ormai fatto proprio il modello di sindacato istituzionale, collaborazionista e cogestionario di Cisl e Uil e marcia irreversibilmente verso l'applicazione degli articoli 39 e 46 della Costituzione, che furono introdotti con un compromesso tra la DC e il PCI revisionista che recuperava sostanzialmente due concetti alla base del sindacato corporativo fascista. L'articolo 39 sancisce infatti il riconoscimento giuridico da parte dello Stato dei maggiori sindacati e delle organizzazioni padronali come unici soggetti ammessi alla contrattazione, tramite la loro registrazione e il controllo di conformità dei loro statuti, escludendo perciò stesso i sindacati minori e quelli che rifiutano di asservirsi e vogliono restare indipendenti. Mentre l'articolo 46 sancisce il “diritto” dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende, “in armonia con le esigenze della produzione”, vale a dire a rinunciare alla lotta di classe e all'arma dello sciopero in nome degli interessi superiori della produzione e dell'economia nazionale capitaliste, esattamente come nel sistema corporativo mussoliniano.
Ciò conferma il nostro giudizio critico sulla Carta del 1948, che fu un compromesso tra proletariato e borghesia, ma nettamente a favore di quest'ultima a causa del tradimento dei partiti sedicenti operai, PCI e PSI. E se quei due articoli non erano stati applicati finora è solo perché la Cgil aveva conservato ancora una parte del carattere conflittuale e rivendicativo per cui era nata ma che oggi ha perso del tutto.
Invece lavoratori e padroni non sono sulla stessa barca, la lotta di classe esiste sempre, anche al tempo della pandemia, e lo conferma lo stesso caporione capitalista Bonomi, quando annuncia un milione di nuovi disoccupati in autunno, pretende che il governo concentri tutti i soldi pubblici ed europei sulle imprese smettendo gli aiuti “a pioggia” alle masse popolari, vuole cancellare i contratti nazionali e un sindacato collaborazionista. In altre parole vuole scaricare la crisi sui lavoratori e sulle masse popolari chiedendo nuovi sacrifici e comprimendo i salari e i diritti, per mantenere i suoi profitti aumentando lo sfruttamento, le disuguaglianze sociali e tra Nord e Sud del Paese, la disoccupazione e la povertà.
Il proletariato non sa che farsene di un sindacato che rinuncia alla lotta di classe per farsi strumento istituzionalizzato del regime capitalista neofascista attraverso gli articoli 39 e 46 della Costituzione. Gli occorre invece un grande sindacato delle lavoratrici e dei lavoratori, delle pensionate e dei pensionati, fondato sulla democrazia diretta e sul potere sindacale e contrattuale delle Assemblee generali dei lavoratori. Un sindacato da costruire dal basso, indipendente e autonomo dal governo, dal padronato e dai partiti, che abbia la lotta di classe per difendere gli interessi dei lavoratori come sua unica vocazione.
Proletariato e borghesia, sfruttati e sfruttatori non potranno mai essere sulla stessa barca e avere interessi comuni e solidali. Lo ha ribadito nell'Editoriale per il 43° Anniversario della fondazione del PMLI il Segretario generale del PMLI Giovanni Scuderi dal titolo Coronavirus e l’Italia del futuro
: “Non siamo sulla stessa barca, come predicano insistentemente Conte e i partiti governativi, ai quali si è aggiunto ora il papa. Le barche sono due, quella delle forze del capitalismo e quella delle forze anticapitaliste. L’una e l’altra hanno rematori diversi e destinazioni opposte.
“L’emergenza sanitaria non ha annullato né le disuguaglianze sociali e territoriali, che anzi sono aumentate, come dimostrano le prime ribellioni dei senza lavoro e dei senza soldi del Sud d’Italia né le classi e la lotta di classe. In nessun momento della vita sociale, nemmeno quando c’è una emergenza, foss’anche una guerra imperialista, mai bisogna mettere da parte la lotta di classe. Anzi, è proprio in questi momenti che bisogna tracciare una chiara e netta linea di demarcazione tra il proletariato e le masse popolari da una parte e la borghesia e il suo governo dall’altra parte. Perché gli interessi e le esigenze dei primi sono contrapposti a quelli dei secondi. Senza mai dimenticare che il tricolore e l’inno di Mameli rappresentano solo la classe dominante borghese, non la classe operaia e tutti gli sfruttati e gli oppressi della dittatura borghese e del capitalismo.
La lotta di classe non può non continuare, pensando all’Italia futura. Quella che ha in mente il governo sarà peggiore di quella attuale. Persisterà il dominio della borghesia e del capitalismo, si aggraveranno le disuguaglianze sociali e territoriali, le condizioni di vita e di lavoro delle masse, la disoccupazione e la povertà, ed è probabile che diventeranno permanenti, con qualche aggiustamento, l’isolamento sociale, il controllo sociale, il telelavoro, l’insegnamento a distanza, il restringimento delle libertà e della democrazia borghese, l’emarginazione, la militarizzazione del Paese, del parlamento, e il nazionalismo patriottardo e fascista. In sostanza verrà rafforzato il regime capitalista neofascista.”
3 giugno 2020