Migliaia di palestinesi manifestano contro l'annessione
Alla vigilia del proclama dell'annessione ufficiale di un 30% della Cisgiordania, o solo di una parte degli insediamenti dei coloni o forse neanche quello e tutto potrebbe essere rinviato non certo annullato, come lasciavano intendere le dichiarazioni del ministro della difesa Benny Gantz dopo un incontro il 29 giugno con l’inviato speciale della Casa Bianca, Avi Berkowitz, e l’ambasciatore Usa David Friedman, il premier sionista Benyamin Netanyahu dichiarava che in fondo l'applicazione del piano Trump in Palestina “non cambia la realtà sul terreno ma semplicemente la riconosce”. Ossia rende formale la illegale occupazione sionista di oltre mezzo secolo dei territori palestinesi in Cisgiordania, il controllo della valle del Giordano preziosa per l'acqua e il controllo della popolazione palestinese rinchiusa in riserve separate tra loro che i governi che si sono succeduti a Tel Aviv, a guida laburista o di destra, hanno costruito con l'avallo dei paesi imperialisti e dei regimi arabi reazionari. Non è un caso quindi se il progetto è messo in pratica da un governo formato dalla destra sionista del Likud e dei partiti religiosi, dal centrista Bianco e Blu di Gantz e dalla “sinistra” borghese dei laburisti.
Un piano che altro non è che la realizzazione di un altro pezzo del progetto sionista della Grande Israele, la colonizzazione dei territori palestinesi avviata 72 anni fa col via libera dell'Onu e che per il popolo palestinese ha voluto dire la Nakba, l'esodo dei profughi cacciati dalle loro terre e a cui viene impedito il ritorno, il carcere o la morte per i martiri che hanno dato la loro vita nella guerra di liberazione. Certo, il passo di Netanyahu è la registrazione di una situazione di fatto ma non vuol dire che non conta nulla, è l'ultimo atto al momento del progetto sionista antipalestinese; un atto da condannare come è stato fatto nei territori palestinesi occupati, nelle numerose manifestazioni di solidarietà col popolo palestinese che si sono tenute anche in Europa e in molte città in Italia il 27 giugno, senza dimenticare il resto.
L'ultima settimana di giugno le proteste palestinesi contro il piano di annessione, che il premier Benyamin Netanyahu aveva messo al primo posto del programma elettorale del suo partito il Likud, una volta avuto l'esplicito appoggio dell'imperialismo americano col Piano Trump pubblicizzato da Washington ma scritto a quattro mani tra la Casa Bianca e Tel Aviv, iniziava con la manifestazione di migliaia di palestinesi del 22 giugno all’ingresso di Gerico, nella Valle del Giordano, a Ramallah e in altri centri della Cisgiordania per ribadire il “No all’annessione, sì allo Stato palestinese”.
Alla manifestazione di Gerico organizzata dall’Autorità nazionale palestinese (Anp) e dal partito Fatah dal presidente Abu Mazen, erano presenti il premier Mohammed Shtayeeh, in carica dall'aprile del 2019, e il segretario generale dell’Olp Saeb Erekat, ossia il vertice della componente palestinese che finora ha assecondato gli ordini dei sionisti di Tel Aviv e abbarbicata alla oramai seppellita soluzione dei due Stati che le consentirebbe di restare sulle poltrone dell'enclave palestinese. A questa manifestazione istituzionale palestinese erano presenti anche l’inviato speciale dell’ Onu per il Medio Oriente, Nickolay Mladenov, il capo della missione Ue per la Cisgiordania e Gaza, Sven Kuhn von Burgsdorff e vari ambasciatori e consoli tra i quali quelli di Russia e Cina; di paesi che continuano tranquillamente a avere rapporti e fare affari coi sionisti di Tel Aviv. L'esponente della Ue, timbrava il cartellino di presenza sostenendo che la posizione dell’Unione è “molto chiara e non riconosce alcuna sovranità israeliana sui territori occupati nel 1967, compresa Gerusalemme Est”. E non fa nulla per farla rispettare.
Di altro peso le manifestazioni della popolazione palestinese nei territori occupati, quasi ignorate dagli organi di informazione imperialisti che coprono l'annessione sionista. Proteste e scontri si svolgevano il 26 giugno a Kufr Qaddoum, vicino a Qalqiliya, e a Hebron, nella Cisgiordania meridionale, dove gli abitanti hanno affrontato i soldati israeliani al confine con la parte della città occupata e dove le proteste si svolgono settimanalmente. L'esercito sionista sparava proiettili di gomma e feriva una decina di manifestanti. Altri feriti palestinesi, e decine di arresti, il 28 giugno durante gli scontri nel villaggio di Atouf, nella Valle del Giordano settentrionale, nella periferia di Gerusalemme occupata, a Betlemme e nella striscia di Gaza, con centinaia di palestinesi che formavano una catena umana attraverso il Valico di Rafah sventolato bandiere palestinesi e con striscioni per ribadire che la Cisgiordania e la Valle del Giordano sono terra palestinese.
Il 28 giugno a Gaza si è tenuta anche una riunione di gruppi e organizzazioni nazionali ed islamiche che raggiungevano un accordo per organizzare una resistenza ampia per far fronte al piano annessionista a partire da manifestazioni indette per l'1 luglio.
Nella riunione in teleconferenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 25 giugno, il ministro palestinese Riyad al-Maliki definiva un crimine il rpogetto annessionista di Netanyahu e chiedeva alla comunità internazionale di imporre delle sanzioni contro Israele. Un appello caduto nel vuoto. L'Onu e i paesi imperialisti non hanno detto nulla neanche quando il progetto annessionista della Cisgiordania cominciò a diventare palese, col governo del boia Sharon che nel 2004 decise il ritiro da una ingovernabile striscia di Gaza, da allora trasformata in un lager, e di puntare il mirino sulla valle del Giordano. L'allora premier sionista Ariel Sharon alla fine di marzo del 2002 invase la Cisgiordania e occupò le città che godevano dell’autonomia formale garantita dagli accordi di Oslo con l'operazione “Scudo Difensivo”, la più grossa dalla guerra del 1967 per porre fine alla seconda Intifada, alla rivolta palestinese. Un atto che mise la parola fine ai famigerati accordi di Oslo e alla formula dei “due stati per due popoli in pace e sicurezza” che pure ancora trovano sostenitori. La soluzione sionista era un solo Stato ebraico con il minor numero possibile di palestinesi; una soluzione che non poteva prevedere una striscia di Gaza dove la resistenza era guidata da Hamas ma comprendere la Cisgiordania già semioccupata.
Fra le varie espressioni contrarie al piano di Tel Aviv registriamo quella del segretario della Lega araba, Ahmed Aboul Gheit, che teme l'inizio di una nuova crisi nella regione e la petizione sottoscritta da più di 1.000 parlamentari, in rappresentanza di 25 paesi dell'Unione europea, ove si sostiene che “l’acquisizione di territorio con la forza non ha spazio nel 2020 e deve avere proporzionate conseguenze”, e si invitano i leader europei ad “agire in modo deciso per rispondere a questa sfida”. Più precisa è la condanna del parlamento belga che il 26 giugno a larga maggioranza votava una mozione che chiedeva al governo federale “di svolgere un ruolo guida a livello europeo e multilaterale al fine di elaborare un elenco di contromisure efficaci destinate a rispondere a qualsiasi annessione israeliana del territorio palestinese occupato”. Speriamo almeno il governo belga dia seguito alla risoluzione.
8 luglio 2020