Elezioni regionali parziali 2020
L'astensionismo è ancora il primo “partito”
Il 41,8% diserta le urne. Tre regioni alla destra borghese e fascista, tre regioni alla “sinistra” borghese. PD perde voti, la Lega arretra, FdI avanza a discapito di FI e Lega, disfatta del M5S, Italia Viva non decolla
Il socialismo e il potere politico del proletariato sono l'unica alternativa al capitalismo e al potere politico della borghesia
Il 20 e 21 settembre si sono tenute le elezioni regionali in 7 regioni (Valle d'Aosta, Veneto, Liguria, Toscana, Marche, Campania e Puglia) in concomitanza con le elezioni supplettive in due collegi del Senato in Sardegna e Veneto, le elezioni amministrative parziali in 957 comuni e il referendum costituzionale. In quest'articolo ci soffermeremo sui risultati delle elezioni regionali che coinvolgevano ben 18.471.692 elettori, circa un terzo dell'elettorato italiano.
Dopo le elezioni regionali in Umbria alla fine del 2019 e quelle in Emilia-Romagna e Calabria all'inizio dell'anno, si tratta delle più estese e rilevanti consultazioni dopo le elezioni europee del 2019 e soprattutto sono le prime elezioni che si tengono in tempo di coronavirus. Dovevano tenersi nella primavera scorsa ma proprio a causa della pandemia sono slittate a settembre.
L'astensionismo
Tutti i commentatori politici borghesi e gli esponenti dei partiti del regime, ma anche gli studiosi e gli analisti ancor più di sempre hanno del tutto ignorato il dato dell'astensionismo soffermandosi esclusivamente sulle performance delle varie coalizioni e dei governatori.
Hanno cioè volutamente ignorato che l'astensionismo è ancora il primo “partito” in tutte le 7 regioni, dal nord al sud, dove si è votato, distaccando gli altri partiti di almeno il doppio dei voti.
Si tratta di ben 8.291.574 elettori che hanno disertato le urne, lasciato la scheda nulla o in bianco.
Hanno resistito al clima particolare provocato dalla pandemia. Un clima che li richiamava alla “responsabilità”, all'“unione nazionale”, alla fiducia nelle istituzioni e nei governi locali e nazionale. Basti pensare alla campagna mediatica sui cosiddetti “modello veneto” e “modello toscano” nella gestione della pandemia. Ma anche all'appuntamento nazionale provocato dalla concomitanza con il referendum sul taglio mussoliniano dei parlamentari.
E hanno soprattutto resistito al ricatto della “spallata della destra” che non solo avrebbe steso i governi locali amministrati dal “centro-sinistra” ma poi travolto lo stesso governo consegnandoli nelle mani dell'aspirante duce d'Italia Salvini.
Nonostante tutto il 41,8% dell'elettorato ha completamente disertato le urne con punte del 46,6% in Liguria, del 44,5% in Campania e del 43,6% in Puglia. Un risultato straordinario.
Complessivamente la diserzione arretra rispetto alle precedenti elezioni regionali, che generalmente si sono tenute nel 2015 fatta eccezione per la Valle D'Aosta dove le precedenti elezioni regionali si sono tenute nel 2018, del 6% passando dal 47,8% al 41,8%. Un arretramento non omogeneo in tutte le regioni. Non a caso proprio in Toscana cala del 14,3%, nelle Marche del 10% e in Puglia del 5,2%, nelle regioni quindi dove il tentativo di “sfondamento” della Lega e della destra nel suo complesso era più concreto e da qualche parte addirittura dato per certo.
È evidente che la paura dello “sfondamento” della Lega in Toscana e Puglia, e come poi è avvenuto, nelle Marche, nonché la concomitanza col referendum ha riportato alle urne una parte degli astensionisti di sinistra che, pur turandosi il naso e probabilmente anche gli occhi e le orecchie, si sono recati alle urne.
Senza contare il numero esagerato di liste presenti nelle singole regioni. Per esempio in Campania ne erano 26, di cui ben 15 solo in appoggio alla candidatura di Vincenzo De Luca; mentre in Puglia le liste erano addirittura 29, di cui 15 in appoggio a Michele Emiliano. Liste che equivalgono a centinaia e centinaia di candidati a consiglieri regionali che richiamano a loro volta migliaia di voti.
L'astensionismo così elevato che riguarda ben oltre un elettore su tre, delegittima i governatori eletti, anche quelli che hanno goduto delle cosiddette percentuali “bulgare” come Luca Zaia in Veneto e De Luca in Campania. Se i voti ricevuti da questi governatori che fra l'altro sono alla riconferma del mandato, vengono rapportati non solo ai voti validi ma ben più correttamente all'intero corpo elettorale si concluderà che nessuno di loro può godere del consenso di nemmeno il 50% degli elettori. Il 76,8% sui voti validi di Zaia diventa infatti il 45,7% degli elettori; il 69,5% di De Luca si riduce al 35,8%. Per non parlare degli altri governatori eletti che non arrivano nemmeno a un terzo degli aventi diritto.
Una delegittimazione che viene anche dall'aver accolto nelle proprie liste candidati “impresentabili” come ha denunciato la Commissione parlamentare antimafia. Tre “impresentabili” in Puglia di cui due nelle liste che hanno appoggiato Emiliano. Poi c'è l'ex vicepresidente della giunta regionale in Valle D'Aosta, già dichiarato sospeso lo scorso anno. C'è da ricordare che il consiglio valdostano si è sciolto perché il governatore eletto nel 2018 in una lista autonomista, Antonio Fosson, già esponente dell'Unione Valdotaine, è stato coinvolto in un'inchiesta sulla 'ndrangheta. I nove candidati giudicati “impresentabili” in Campania figurano nelle liste di Forza Italia, della Lega e soprattutto in quelle che appoggiano il governatore Vincenzo De Luca.
Ciononostante i governatori si sentono ormai gli indiscussi vincitori di questa tornata elettorale. Forti dei consensi personali ottenuti attraverso le loro liste personalizzate e del fatto che hanno in ogni regione ottenuto più voti delle proprie coalizioni, essi viaggiano per conto loro al servizio delle borghesie regionali, distinti da Zingaretti e Salvini. Zaia (Veneto) e Toti (Liguria) già reclamano la piena autonomia delle loro regioni.
Alla fine la “spallata” non c'è stata e il match è finito sostanzialmente alla pari: tre regioni alla destra borghese e fascista e tre regioni alla “sinistra” borghese. La destra strappa solo le Marche alla “sinistra” borghese che la governava da 25 anni affidandola al candidato governatore di Fratelli d'Italia della Meloni, Francesco Acquaroli. Ma era un risultato già abbastanza scontato visto il risultato ottenuto dalla coalizione di destra alle ultime elezioni europee.
Conferme scontate anche per il leghista Luca Zaia in Veneto e il forzista Giovanni Toti in Liguria. Restano alla “sinistra” borghese la Toscana, dove è stato eletto il liberale renziano, già membro del partito socialista di Craxi, Eugenio Giani da sempre vicino alla massoneria e ai “poteri forti” della regione, e poi la Campania e la Puglia dove vengono confermati i trasversalisti e ambiziosi, nonché plurinquisiti, Vincenzo De Luca e Michele Emiliano.
Tutti questi candidati del “centro-sinistra” si sono avvantaggiati in particolare dall'aver intercettato una parte consistente dell'elettorato del Movimento 5 stelle. Inoltre, il “voto disgiunto”, ossia la possibilità di votare sulla stessa scheda un candidato governatore diverso da quello della lista scelta, usato anche dai fascisti, ha favorito Emiliano e Giani.
I risultati di lista
Tutti i partiti del regime, compreso il Movimento 5 stelle che si copre dietro il risultato del referendum, cantano vittoria. Nessuno ne ha motivo.
A cominciare dal PD che si vanta di essere tornato il primo partito. Un merito che deve tutto al crollo dei partiti avversari: dal M5S alla Lega, a Forza Italia, ecc.
Rispetto alle regionali 2015, se si guarda ai voti assoluti di lista, il PD perde l'8,7%
in Puglia e Toscana, il 9,8% in Liguria (nonostante l'abbinamento con Articolo 1), il 10,2% in Campania, il 16% nelle Marche, il 20% in Veneto (dove cede voti a Zaia).
In complesso il PD passa dal 24,7% dei voti validi alle regionali 2015, al 19,8% alle regionali 2020. Recupera qualcosa rispetto alla débâcle delle politiche 2018 quando era crollato al 18%, ma arretra di nuovo rispetto alle europee dove era risalito al 22,1%.
La Lega non solo non sfonda in Toscana ma arretra pesantemente rispetto a quella che sembrava un'inarrestabile e trionfale avanzata registrata alle europee di appena un anno e mezzo fa.
In totale, la Lega prende in questa tornata elettorale 1.237.336 voti, molti di più rispetto ai 761.349 voti ottenuti alle regionali 2015, ma macroscopicamente meno dei 3.189.051 voti ottenuti nel maggio 2019 alle europee e dei 2.030.716 alle politiche 2018. Un flop clamoroso che non può essere attribuito a dinamiche esclusivamente locali ma ha una evidente valenza politica. È un colpo all'ambizione salviniana non solo di confermare la centralità della Lega nella coalizione di destra fortemente insidiata dal partito fascista Fratelli d'Italia della Meloni, ma anche di divenire il primo partito a livello nazionale. A ciò servivano i toni apparentemente meno aggressivi, meno apertamente razzisti e fascisti degli ultimi tempi, e il tentativo di presentarsi come una figura più istituzionale da parte dell'aspirante duce d'Italia Salvini. L'unica consolazione rimane il Veneto. Ma lì la lista personale di Zaia (che apparentemente e tatticamente non si pone in rivalità con Salvini, ma in realtà gioca indisturbato la sua partita in attesa di futuri eventi) stravince ottenendo addirittura il triplo dei voti della lista della Lega.
Dell'arretramento della Lega, nonché dell'inesorabile inabissamento di Forza Italia che ormai ottiene percentuali a una sola cifra, si avvantaggia Fratelli d'Italia della ducetta Giorgia Meloni. Costei fa incetta di voti all'interno dell'area apertamente fascista come Casapound e Forza Nuova e, presentandosi come figura più istituzionale e meno antieuropeista, attrae anche le forze più “moderate” e del “centro-destra” orfane prima di Alleanza Nazionale e poi di Forza Italia, nonché del Movimento 5 stelle che ha liberato milioni di voti in tutte le direzioni.
Per il Movimento 5 stelle si può parlare di vera e propria disfatta, come del resto riconoscono apertamente alcuni esponenti di spicco quale Di Battista. Ottiene 658.050 voti nelle regioni in cui si è votato. Ne aveva 1.319.803 (il doppio) nelle regionali 2015. Ma soprattutto ne aveva 4.297.515 alle politiche 2018 e ancora 1.880.198 nelle già disastrose elezioni europee del 2019.
Si calcola che in due anni, dalle politiche ad oggi, e valutando le varie elezioni che si sono tenute, avrebbe perso circa 8 milioni di voti.
Secondo l'analisi dei flussi elettorali fornito dall'Istituto Cattaneo, i voti del M5S sono andati in tutte le direzioni. In Veneto, a Padova, per esempio, il 72% dei voti del M5S sono andati a Zaia; mentre in Liguria, dove il M5S era alleato col PD, il 38% dei suoi elettori ha preferito votare il candodato della destra Toti. In Campania, il 70% degli elettori del M5S converge su De Luca a Napoli e la percentuale sale all'82% nel suo feudo di Salerno. De Luca, fra l'altro, riesce ad attrarre anche il 63% dei voti leghisti a Napoli e il 72% a Salerno.
In Toscana il 45% degli ex elettori del M5S di Firenze vota Giani, al 33% quelli di Livorno. In misura minore lo stesso fenomeno in Puglia dove il 20% dei voti del M5S si sposta su Emiliano.
Matteo Renzi, che pure nega spavaldo, non può che leccarsi le ferite brucianti. Italia Viva non decolla in nessuna delle regioni dove si è presentata, nemmeno nella sua culla toscana.
In Liguria dove era insieme a PSI, +Europa e PRI si ferma all'1,1% del corpo elettorale. Da sola + Europa aveva ottenuto il 2,4% alle politiche 2018 e l'1,7% alle europee 2019. In Veneto assieme a Civica per il Veneto, PRI e PSI ottiene lo 0,3%.
In Toscana, sempre insieme a +Europa realizza un misero 2,4%; +Europa, da sola aveva ottenuto il 2,2% alle politiche e l'1,9% alle europee. Nelle Marche dove ha corso da sola Italia Viva ottiene l'1,5%. In Campania, il risultato più alto col 3,5% e in Puglia dove aveva sfidato apertamente Emiliano si ferma a un misero 0,5%.
Praticamente scomparsi sul piano elettorale i partiti alla sinistra del PD. Qualcuno per volontà propria, essendosi di fatto direttamente o indirettamente posizionato in area PD anche attraverso liste di sostegno ai suoi candidati governatori, come LeU e Sinistra italiana. Altri perché, pur presentando proprie liste e candidati a governatori, da soli o con altri, ottengono scarsissimi risultati, completamente inutili anche al fine di entrare nei consigli regionali.
Si tratta del fallimento dell'elettoralismo e del partecipazionismo del gruppo dirigente del PC di Rizzo, del PCI, di Rifondazione e di Potere al popolo che continuano a spargere fra l'elettorato di sinistra illusioni elettorali, costituzionali e governative e quindi la fiducia nelle istituzioni rappresentative borghesi ormai marce, irrecuperabilmente fascistizzate e inservibili a un qualsiasi uso da parte del partito del proletariato, in contraddizioni con la loro stessa definizione di partiti comunisti.
La nostra proposta
Questi risultati ci confermano che dobbiamo conquistare al socialismo gli astensionisti di sinistra e l'elettorato dei partiti a sinistra del PD, a cominciare da quelli con la bandiera rossa e la falce e martello.
Il problema non è, come scrive la direttrice del “Manifesto” trotzkista, Norma Rangeri, la “presenza sui territori delle organizzazioni a sinistra del PD”, peraltro esaltate per il loro ruolo “non marginale all'interno del governo”, quanto quello che tutte le forze a sinistra del PD, non solo Leu e Sinistra italiana citate, si uniscano per combattere il capitalismo, il governo Conte che ne tutela gli interessi e imbocchino la via del socialismo.
Ringraziamo profondamente le astensioniste e gli astensionisti che hanno resistito al richiamo particolarmente forte delle sirene dei partiti borghesi governativi e dei partiti borghesi dell'opposizione di “sinistra” e di destra.
Da parte nostra dobbiamo continuare a lavorare con pazienza, tenacia e capacità di convincimento per dare all'astensionismo un carattere anticapitalista per il socialismo.
Dobbiamo far prendere coscienza che perdurando il capitalismo non è possibile cancellare le classi, le disuguaglianze sociali, territoriali e di sesso, la disoccupazione, la precarietà, le ingiustizie sociali, la miseria, lo sfascio della sanità e le mafie.
Il socialismo e il potere politico del proletariato sono l'unica alternativa al capitalismo e al potere politico della borghesia.
23 settembre 2020