Contro i brogli elettorali
L'insurrezione popolare rovescia il governo in Kirghizistan
Il presidente del Kirghizistan, Sooronbay Jeenbekov, il 12 ottobre proclamava per la seconda volta lo stato di emergenza per una settimana nella capitale Bishkek dato che il parlamento tre giorni prima aveva dato il via libera al nuovo esecutivo guidato da Sadyr Japarov ma non era riuscito a votare il contemporaneo provvedimento di stato di emergenza emanato. Le sedi del parlamento e della presidenza erano appena ritornati sotto il controllo del governo che aveva inviato l'esercito a sloggiare i manifestanti che le avevano occupate durante le proteste dopo le elezioni politiche del 4 ottobre per il rinnovo dei 120 membri dello Jogorku Kenesh, il parlamento, che la denuncia delle opposizioni e la successiva insurrezione popolare aveva spinto il presidente a annullare per presunti brogli. Elezioni annullate e governo rovesciato dalla piazza a urne appena chiuse hanno aperto un forte scontro nel paese che la reiterazione dello stato di emergenza da parte del presidente cerca di soffocare; in attesa magari di un intervento pacificatore del nuovo zar Putin sui galletti filorussi che si contendono il potere a Bishkek. Nel paese che ospita una base militare russa, "la situazione è da stabilizzare prima che scivoli nel caos più totale" affermava il Cremlino che vuole evitare l'apertura di un altro pericoloso focolaio di crisi ai confini asiatici dell'impero russo dove già deve fare i conti con il vicino scontro nel Caucaso tra Armenia e Azarbaigian e ai confini europei dove continua la protesta in Bielorussia contro la rielezione del presidente Alexander Lukashenko.
Le proteste a Bishkek erano scoppiate il 5 ottobre quando migliaia di manifestanti scendevano in piazza per denunciare i brogli alle elezioni parlamentari nelle quali solo 5 partiti sui 16 che si erano presentati sembrava avessero superato la soglia di sbarramento del 7% e la vittoria sarebbe andata a due partiti filogovernativi, Birimdik e Mekenim Kirghizistan, che avevano ottenuto poco più di un quarto dei voti validi ciascuno e insieme la maggioranza assoluta. Le due formazioni appoggiano anche il presidente Jeenbekov che, con i manifestanti che affrontavano le cariche della polizia sotto le finestre del palazzo presidenziale in scontri dove si registravano diverse centinaia di feriti, incontrava i leader dei 16 partiti che hanno partecipato alle elezioni e comunicava di aver accolto le dimissioni del premier Babanov e di accettare la richiesta di ripetere il voto. A fronte anche della velocissima decisione della Commissione elettorale centrale di annullare le elezioni a causa delle numerose violazioni accertate prima e durante il voto e subito contestate dalla dozzina dei partiti di opposizione, tutti esclusi dal parlamento.
Una serie di violazioni erano state rilevate persino dagli osservatori dell’OSCE, che si erano limitati però a esprimere solo delle "preoccupazioni", fra le quali la compravendita di voti osservate durante le operazioni elettorali e la privazione del diritto di voto a quasi mezzo milione di elettori, esclusi dal registro degli elettori perché i loro dati non erano stati inseriti per tempo; un numero non indifferente commisurato ai 3,5 milioni di elettori registrati.
L'annullamento del voto non fermava la protesta di piazza coi manifestanti che occupavano le sedi istituzionali, poi sgomberate. Una parte dei sostenitori dell'ex presidente Almazbek Atambayev approfittava del vuoto di potere per liberarlo dal centro di detenzione del Servizio di Sicurezza Nazionale, dove era stato rinchiuso lo scorso giugno per scontare una condanna a 11 anni di carcere.
Nella capitale continuavano le manifestazioni e gli scontri questa volta tra i sostenitori dell'ex presidente Atambayev, dell'ex premier Babanov e del premier incaricato Sadyr Japarov, fino alla decisione del presidente di far arrestare Atambayev e di dichiarare lo stato di emergenza a Bishkek. Che tra le altre concede i pieni poteri al vice ministro degli Interni, l'ordine allo stato maggiore delle forze armate di schierare l'esercito nelle vie della capitale e la censura totale per i mezzi di informazione.
In un paese dove esistono 259 partiti registrati presso il ministero della Giustizia e costituiti per lo più come clan attorno a un capo che rastrella finanziamenti da imprese e da privati, lo scontro politico si sviluppa soprattutto per le faide tra i diversi conglomerati di clan, l’Ong nel sud del paese, il Sol nel nord-ovest e l’Ichkilik che rappresentano gli interessi dei vari settori della borghesia nazionale nella repubblica nata nel 1991 dalla dissoluzione dell'Urss. Sono presenti anche divisioni etniche che nel 2010, dopo la deposizione del presidente Kurmanbek Bakiyev, dettero vita a scontri tra la minoranza uzbeka, il 15% della popolazione concentrata nel sud del paese, e la componente maggioritaria kirghiza; tutta interna alla maggioranza kirghiza sono state le altre rivolte, dalla cosiddetta Rivoluzione dei Tulipani del 2005, che costrinse alle dimissioni l’allora presidente Askar Akayev, accusato di corruzione e autoritarismo, alla protesta nell'agosto del 2019 dei sostenitori del deposto presidente Atambayev, successivamente arrestato con l’accusa di aver tentato un colpo di stato e di aver favorito il rilascio illegale di un boss della mafia.
La faida tra le formazioni politiche dei due ex presidenti e premier era usata dal presidente Jeenbekov, che già nella repubblica semipresidenziale kirghiza ha ampi poteri e condivide quelli esecutivi con il governo, per mettere in atto un vero e proprio golpe seppur a tempo determinato in attesa di un "ritorno alla legalità" che ancora non si è realizzata con la nomina di un nuovo esecutivo. In realtà la questione della legalità nel Kirghizistan, che è tra i dieci stati capitalisti più poveri al mondo, non riguarderebbe la legittimità e la stabilità del governo in carica ma l'enorme problema di una corruzione dilagante a tutti i livelli istituzionali, per nulla intaccata dal presidente Jeenbekov che al momento della sua elezione nel 2017 aveva promesso di debellare, e che ha alimentato la rivolta popolare contro i brogli elettorali, coi manifestanti che in piazza gridavano anche "Jeenbekov dimettiti". Una rivolta popolare che conferma la verità così ben sintetizzata da Mao: "Il popolo, e solo il popolo, è la forza motrice che crea la storia del mondo";
e da Marx: “Le rivoluzioni sono le locomotive della storia ”
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14 ottobre 2020