Elezioni presidenziali negli Usa
Biden batte Trump
Il presidente uscente non accetta la sconfitta e ricorrerà fino alla Corte Suprema
Ma l'imperialismo americano rimane integro e operante contro i popoli del mondo
Le urne per le elezioni presidenziali, per il rinnovo di un terzo del Senato e di tutta la Camera, si chiudevano il 3 novembre ma solo quattro giorni dopo il candidato democratico Joseph Robinette Biden Jr., noto come Joe Biden, poteva dichiararsi vincitore sul concorrente repubblicano e presidente uscente Donald Trump. Solo quando gli aggiornamenti del 7 novembre dell'agenzia Associated Press (AP) sullo scrutinio degli oltre 150 milioni di voti, due terzi dei quali inviati per posta, per la nomina dei grandi elettori che il 14 dicembre eleggeranno formalmente il nuovo presidente assegnavano i 20 seggi della Pennsylvania, lo sfidante democratico superava lo stallo di una elezione con un avversario che non voleva riconoscere la sconfitta e annunciava ricorsi legali fino alla Corte Suprema, dove si era recentemente garantito una maggioranza blindata. L'asprezza dello scontro politico ha richiamato un numero maggiore di votanti ma comunque oltre un terzo del corpo elettorale non si è recato alle urne.
Il Partito democratico manteneva la maggioranza alla Camera con 215 seggi contro i 195 dei repubblicani mentre al Senato raggiungeva la parità di 48 seggi, quantomeno fino a gennaio quando è previsto il voto per il rinnovo dei due seggi della Georgia dove Biden ha vinto per un pugno di voti. E la Georgia con Arizona, Michigan, Nevada, Pennsylvania e Wisconsin sono gli Stati dove Trump contesta l'esito del voto, definisce illegale il conteggio dei voti giunti per posta e punta al riconteggio delle schede che a seconda delle normative dei vari Stati potrebbe andare fino a fine novembre.
A oltre una settimana dalla chiusura delle urne non è finito nemmeno il conteggio dei voti, soprattutto di quelli giunti per posta, in alcuni Stati e sarà ufficiale solo quando certificato dai governatori, salvo ricorsi, ma Biden si prepara lo stesso alla cerimonia di insediamento alla Casa Bianca come 46º capo di Stato prevista per il 20 gennaio 2021, con il vantaggio già acquisito della maggioranza dei 538 grandi elettori che con l'assegnazione di quelli della Pennsylvania arrivava a 279 contro i 214 di Trump.
Biden ha raccolto la maggioranza dei voti, con 75,4 milioni, staccando Trump di oltre 4 milioni di voti, ma quello che conta non è il risultato su scala nazionale, valgono le vittorie anche con un solo voto di maggioranza per prendersi i grandi elettori di ogni singolo stato. Biden ha recuperato i grandi elettori negli Stati del Michigan, Wisconsin e Pennsylvania, storici bastioni per il Partito democratico dove la candidata Hillary Clinton alle presidenziali del 2016 era stata battuta da Trump.
In Pennsylvania dal voto ai seggi risultava che Trump aveva un vantaggio di 600 mila voti ma lo scrutinio del numericamente superiore voto per posta ribaltava il verdetto. Una situazione che si replicava in Georgia. Lo sconfitto repubblicano dichiarava di non riconoscere la vittoria del rivale come d'altra parte aveva annunciato già prima dell'apertura dei seggi quando attaccava il meccanismo del voto postale e anticipato, sosteneva che le elezioni saranno “truccate” e saranno “le elezioni più corrotte nella storia del nostro paese”. Detto da un presidente in carica solo perché temeva di perdere non è certo un bel biglietto da visita per un paese che ritiene di essere la patria delle libertà e della democrazia e non avevamo bisogno di questo commento per sapere che le elezioni democratiche borghesi sono una farsa, un inganno per illudere le masse popolari.
L’avvocato di Trump, Rudy Giuliani, il 7 novembre sosteneva di avere le prove di “massicci brogli” quantomeno in Pennsylvania. Biden intascava il risultato positivo della Pennsylvania e senza attendere la fine dello spoglio in Arizona, Nevada, Georgia, Carolina del Nord e Alaska e il segnale di resa, le congratulazioni dell'avversario teneva il primo discorso dal consueto tono conciliatorio che iniziava con "sarò il Presidente di tutti gli americani”.
Incassava la consueta valanga di auguri e complimenti da tutto il mondo, a partire da quelli dell'ex presidente Usa, George W. Bush, mancava solo il Cremlino. Non mancavano quelli del presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte, che dimenticati ma non troppo gli abbracci appassionati con l'amico Trump (tanto che in un primo tempo si congratulava genericamente con gli elettori americani) dichiarava di essere pronto "a lavorare con il presidente eletto Joe Biden per rendere la relazione transatlantica più forte. Gli Stati Uniti possono contare sull'Italia come solido alleato e partner strategico".
Nato nel 1942 a Scranton in Pennsylvania, Biden iniziava la carriera politica nel 1970 col Partito democratico e nel 1973 già era eletto senatore per lo Stato del Delaware, una carica che ricoprirà per 36 anni fino alla vicepresidenza, tra il 2009 e il 2017, dell’amministrazione Obama. Da senatore si ricorda la lunga amicizia col senatore repubblicano John McCain, che nel 2008 corse e perse contro Obama per il seggio presidenziale, e insieme al quale promosse la Kosovo Resolution del 1999 che autorizzava l’amministrazione Clinton alla guerra alla Serbia. Già era stato favorevole all'intervento militare Usa in Jugoslavia tra il 1994 e il 1995 e lo sarà di nuovo per le guerre di Bush, l'invasione dell’Afghanistan nel 2001 e della guerra all'Iraq nel 2002 per eliminare il dittatore Saddam.
Da vicepresidente di Obama sarà tra le altre coprotagonista della guerra di aggressione alla Libia e l'eliminazione del dittatore Gheddafi; della mancata guerra alla Siria, per lo stop imposto da Mosca, sostituita dall'organizzazione di milizie armate dell'opposizione al regime di Assad che alimenteranno la guerra nel paese mediorientale; dell'appoggio alle destre reazionarie e fascistoidi nei paesi dell'Est per inglobarli nella Nato e tagliare definitivamente i loro rapporti con la Russia di Putin per isolarla dall'Europa, una operazione fallita in Georgia e riuscita in Ucraina a costo di una guerra e una crisi tuttora in corso. Anche per questa ragione, il presidente russo Putin non ha rispettato il rituale delle congratulazioni al neoeletto mentre il suo portavoce, Dmitry Peskov, dichiarava che Mosca è pronta al dialogo con Washington “chiunque sia il nuovo presidente” ma riteneva opportuno attendere il verdetto ufficiale.
Non ha perso tempo il premier sionista Benjamin Netanyahu che ha già incassato il consenso di Biden allo spostamento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme. Gli ha fatto gli auguri il presidente cinese Xi Jinping, dopo che il Beijing News
, il giornale controllato dal Partito comunista revisionista cinese aveva sottolineato che "non importa chi vince, la società americana non riuscirà più a tornare quella che è stata", che può essere letto anche come la sentenza della fine della leadership incontrastata dell'imperialismo americano.
Biden si dichiara pronto a rientrare nelle organizzazioni internazionali abbandonate da Trump, a cancellare le più antipopolari leggi di Trump a partire da quelle contro l'immigrazione, a ribaltare l'atteggiamento razzista, repressivo e fascista dell'amministrazione repubblicana contro gli afroamericani e le minoranze etniche. E non poteva far altro per ingraziarsi il forte movimento antirazzista che nelle piazze ha combattuto contro Trump, vedremo se poi finisce come la fallita promessa di Obama di chiudere il carcere di Guantanamo a Cuba.
L'imperialismo americano rimane integro e operante contro i popoli del mondo anche con Biden alla Casa Bianca, anche se i socialdemocratici a giro per il mondo lo esaltano come un segnale di cambiamento della politica Usa, né più né meno come fecero all'inizio con Obama accreditandone le promesse poi non mantenute. Biden non si distingue dal bellicista predecessore quando parla del riarmo dell'imperialismo americano e promette che farà gli investimenti necessari perché "gli Stati Uniti hanno le forze armate più forti del mondo e, in qualità di presidente, farò in modo che rimangano tali, facendo gli investimenti necessari per equipaggiare le nostre truppe per le sfide di questo secolo" in modo che siano in grado di "difendere gli interessi vitali degli Stati Uniti".
Le linee programmatiche di politica estera dell'amministrazione democratica il candidato Joe Biden le aveva preannunciate con un dettagliato articolo sulla rivista Foreign Affairs
e presentate nella Piattaforma 2020 approvata in agosto dal Partito Democratico, un progetto dall'eloquente titolo: "Perché l’America deve essere di nuovo una guida / Salvataggio della politica estera degli Stati uniti dopo Trump". Nel documento annunciava la convocazione, durante il primo anno di presidenza, di un "Summit globale per la democrazia" per decidere una "azione collettiva contro le minacce globali". Anzitutto per "contrastare l’aggressione russa, mantenendo affilate le capacità militari dell’Alleanza e imponendo alla Russia reali costi per le sue violazioni delle norme internazionali" e per "costruire un fronte unito contro le azioni offensive e le violazioni dei diritti umani da parte della Cina, che sta estendendo la sua portata globale". "In qualità di presidente, prenderò provvedimenti immediati per proteggere il futuro economico degli Stati Uniti e ancora una volta fare in modo che l'America guidi il mondo", ripeteva Biden che sembra predicare da un pulpito piuttosto che agitarsi platealmente come un supereroe come fa Trump ma che presenta solo in un altro modo gli interessi dell'imperialismo americano e la necessità di ripristinare la leadership imperialista Usa nel mondo messa in discussione anzitutto dai due principali contendenti Russia e Cina. La sua politica interna e internazionale è una politica borghese e imperialista contro il popolo americano e i popoli del mondo e, sia pure cercando tattiche diverse specie con gli alleati come la Ue imperialista, non allenta in alcun modo le contraddizioni interimperialiste e i pericoli di guerra con i concorrenti quali la Russia di Putin e l'emergente superpotenza socialimperialista cinese di Xi per l'egemonia mondiale.
11 novembre 2020