Gli Stati generali disegnano un M5S governista puntello del capitalismo

Gli Stati generali del Movimento 5 Stelle, una sorta di congresso che si è svolto tra ottobre e novembre e concluso in videoconferenza il 14 e 15 novembre, non ha sciolto per ora ma solo certificato la crisi che esso sta attraversando, confermando e rendendo evidente sia la spaccatura tra la minoranza “movimentista” capeggiata da Alessandro Di Battista e la maggioranza “governista” in cui si ritrovano tutti gli altri dirigenti del movimento, sia l'ormai aperta presa di distanza di quest'ultimo dall'Associazione Rousseau di Davide Casaleggio.
Gli Stati generali erano stati annunciati a novembre 2019 ed erano stati programmati dal 13 al 15 marzo 2020, ma lo scoppio della pandemia li aveva rinviati a data indefinita. All'indomani della disfatta elettorale alle regionali di settembre, che li ha resi improcrastinabili, due erano le contraddizioni principali sul tappeto. La prima era l'attacco frontale di Di Battista e della sua corrente, in asse con Davide Casaleggio, alla maggioranza “governista” rappresentata da Di Maio, Fico e altre correnti minori: col che l'ex deputato romano poneva di fatto la sua candidatura alla leadership del M5S, o quantomeno rendeva concreto il rischio di una scissione. La seconda era la frattura tra la maggioranza stessa e Casaleggio, con la richiesta a quest'ultimo di ridimensionare il suo ruolo da padrone incontrollato del sistema digitale che detiene gli elenchi degli iscritti e certifica i loro voti (finanziato con un contributo mensile di 300 euro per ogni parlamentare e consigliere regionale), a semplice fornitore esterno di servizi. Se non ipotizzare addirittura di separarsi definitivamente dal figlio del cofondatore del movimento, internalizzando tutte le funzioni della sua piattaforma Rousseau o affidandole ad un altro fornitore esterno.
 

I temi degli Stati generali e le risposte mancate
I temi in discussione per gli Stati generali si concentravano quindi in tre macro-aree: l'agenda politica, cioè quali debbano essere i temi e le battaglie politiche per i prossimi anni; l'organizzazione e la struttura, ovvero quale debba essere la leadership del movimento, individuale o collegiale, se esso debba strutturarsi come un partito o restare tale, e se debba cambiare e come il suo rapporto con l'Associazione Rousseau; e infine i principi e le regole, con le questioni cruciali del mantenimento o meno del limite dei due mandati e dell'apertura o meno (e fino a che punto) ad alleanze con altri partiti.
Questioni non da poco che sono state sciolte solo in parte dagli 8 mila iscritti agli Stati generali. Se un consenso molto marcato è emerso infatti sulla direzione collegiale e sulla revisione del rapporto con l'Associazione di Casaleggio, non altrettanto univoche sono state le posizioni su altre questioni cruciali come il superamento del doppio mandato e le alleanze con altri partiti, dove è emersa la spaccatura tra i sostenitori per così dire del “ritorno alle origini” e quelli del “rinnovamento” verso una struttura e una linea politica più simili ad un partito politico che ad un movimento.
 

L'offensiva di Di Battista per prendersi il M5S
Alle due giornate conclusive in videoconferenza degli Stati generali, a cui hanno partecipato 305 rappresentanti, tra semplici iscritti e portavoce ai vari livelli (comunale, regionale, parlamentare, europeo e residenti all'estero), Alessandro Di Battista, spalleggiato da Casaleggio, ha sparato tutte le sue cartucce per prendersi l'egemonia del movimento e mettere nell'angolo i “governisti”. Già un mese prima il ducetto romano aveva pubblicato su Facebook un suo “manifesto per il 2020-2030”. Alla vigilia del confronto in video con gli altri big ha aperto il fuoco contro di loro accusandoli di voler affossare la regola dei due mandati e di voler sostituire il capo politico con la direzione collegiale, accusando il ducetto rivale Di Maio di aver “cambiato idea” su questi principi. Inoltre pretendeva a gran voce che fossero resi noti i voti ottenuti da ciascuno dei 30 rappresentanti scelti con una consultazione su Rousseau, a cui avevano partecipato 26 mila iscritti, per tenere un intervento video nella giornata conclusiva.
Richiesta appoggiata anche da Casaleggio, nonostante che per regolamento accettato da tutti egli fosse tenuto al segreto e fosse stato deciso di rendere noti i voti di ciascuno dei 30 scelti a parlare solo dopo l'elezione della nuova direzione collegiale. Casaleggio, anzi, declinava polemicamente l'invito a partecipare agli Stati generali accusando gli organizzatori di “decisioni già acquisite” e di “violazione delle regole di ingaggio”, in riferimento al principio dei due mandati.
Era evidente l'intento di Di Battista, in tandem con Casaleggio, di sollevare la base contro Di Maio e gli altri suoi concorrenti che hanno già esaurito i due mandati, sbarrando la strada ad una loro ricandidatura alle prossime elezioni politiche. E al contempo lanciare subito la sua candidatura a capo politico del M5S, facendo valere i voti presi nella votazione su Rousseau come un'investitura plebiscitaria da parte degli iscritti. Si dice infatti che sia arrivato nettamente primo, doppiando in voti lo stesso Di Maio, mentre secondo sarebbe risultato l'europarlamentare Dino Giarrusso, attualmente sotto procedura disciplinare per aver intascato dei finanziamenti irregolari: “Non vogliono votare un capo perché sanno che vincerei io”, era la tesi che Di battista lasciava circolare in pubblico.
 

Le forze in campo e l'intervento di Conte
I fedelissimi del ducetto romano – la senatrice Barbara Lezzi, la deputata Giulia Grillo (entrambe ex ministre nel governo con la Lega), la consigliera regionale pugliese Antonella Laricchia e l'eurodeputato Ignazio Corrao - hanno dato battaglia per bocciare il superamento dei due mandati, la direzione collegiale, le alleanze con altri partiti (leggi il PD), la revisione del rapporto con Rousseau e l'abolizione del segreto sui voti ai 30 intervenuti. Ma l'hanno avuta vinta solo sul superamento del doppio mandato, che i “governisti” hanno deciso di mollare per il momento per non regalare a Di Battista un'arma fin troppo facile. D'altra parte la maggioranza “governista”, che tiene insieme per convenienza dirigenti della destra e della sinistra del M5S, come Di Maio, Bonafede, Fraccaro, Crimi, Paola Taverna, Spadafora, Roberta Lombardi, Patuanelli e Fico, ha fatto sapere pubblicamente che in ogni caso essa detiene il 70%, ossia la stragrande maggioranza dei voti espressi sulla piattaforma.
A darle una mano, in appoggio al tentativo di disegnare un nuovo M5S compiutamente governista, rompendo con le regole rigide del passato e i vecchi propositi demagogici di “scardinare il sistema”, è intervenuto anche Giuseppe Conte, che nel suo intervento in video ha detto: “La coerenza è un valore ma quando governi devi valutare la complessità, bisogna avere anche il coraggio di cambiare le idee”. Parole in stretta sintonia con quelle usate da Roberto Fico, quando per bacchettare l'egocentrismo di Di Battista e i suoi continui richiami allo “spirito delle origini”, aveva osservato: “C’è un po’ di ipocrisia nel parlare di questo da parte di chi utilizza gli strumenti della vecchia politica: cordate, correnti, personalismi, la strategia muscolare della conta. Non c’è uno più puro degli altri”. E aveva aggiunto: “Se vive di slogan e dogmi una comunità è statica e resta nel passato”.
 

Le condizioni di Di Battista e i rischi di scissione
Prendendo atto di essere rimasto per il momento in minoranza, Di Battista ha emesso un comunicato furente, parlando a nome di “migliaia di iscritti che mi hanno votato”, e accusando “coloro che l'unica posizione che conoscono è la genuflessione davanti ai loro padroni”, i quali “hanno provato costantemente a denigrarmi”; comunicato in cui ha chiesto “precise garanzie politiche” e per iscritto per continuare a stare nel M5S (“in quale ruolo vedremo”, ha specificato). Tra queste garanzie, oltre ad alcune battaglie di bandiera, nessuna deroga ai due mandati, che alle politiche del 2023 il M5S si presenti da solo, e che venga creato un “comitato di garanzia”, senza membri di governo, che detti le regole ed eserciti il controllo sulle nomine pubbliche, sia all'interno dei ministeri che delle aziende di Stato. L'orientamento dei “governisti” è comunque quello di cercare di cooptarlo nella nuova direzione collegiale, per non dover subire i suoi continui attacchi dall'esterno ed evitare una sempre possibile scissione.
Scissione che non è esclusa a priori, a giudicare dalle dichiarazioni piuttosto esplicite non tanto dello stesso Di Battista quanto dei suoi seguaci. Come dimostra il lavorìo di Corrao a Strasburgo per costituire con altri tre eurodeputati un gruppo autonomo dal resto del M5S, che sta invece trattando con Macron per entrare nel suo gruppo Renew Europe. E come dimostra la recente mossa di Casaleggio, che sta promuovendo una raccolta fondi per Rousseau, ufficialmente in polemica con i parlamentari che non starebbero onorando i versamenti mensili pattuiti, ma a detta di alcuni tra i suoi antagonisti più espliciti perché starebbe progettando di portarsi via la piattaforma e gli iscritti al movimento in previsione di una possibile scissione.
 

Il Documento di sintesi degli Stati generali
Questa situazione di incertezza e di contraddizioni non risolte si riflette infatti anche nel documento di sintesi degli Stati generali elaborato da Crimi e che sarà votato per singoli punti nei prossimi giorni su Rousseau. Un documento che non avrebbe potuto essere più generico e smussato in tutti i passaggi più importanti, per non sembrare sbilanciato dall'una o dall'altra parte. Tuttavia sulla governance nazionale la scelta è stata netta: tutte le funzioni oggi attribuite al capo politico saranno trasferite ad un “organo collegiale che combini rapidità ed efficienza nell'azione politica”. Si tratta di una sorta di segreteria di partito, che secondo Crimi dovrebbe essere composta da cinque membri ed eletta entro la fine dell'anno. Alcune funzioni di indirizzo politico e di convocazione dell'assemblea degli iscritti, dovrebbero inoltre essere attribuite ad “un organo collegiale ad ampia rappresentatività dei livelli istituzionali, territoriali, anagrafici e di genere”: una specie di direzione nazionale sul modello del PD, sembrerebbe.
Come si è già detto il limite dei due mandati non viene cambiato, si propone solo di “valorizzare” (leggi privilegiare) all'atto della prima candidatura ad istituzioni regionali, nazionali ed europee, chi ha effettuato “uno o più mandati” da consigliere comunale. Quanto alla possibilità di accordi con altre forze politiche, si ribadisce che il M5S “nasce come forza alternativa alle altre forze politiche esistenti”, ma “in via eccezionale, in relazione ai singoli sistemi elettorali, possono essere autorizzate, prima o dopo le votazioni, specifici accordi con altre forze politiche, prioritariamente con liste civiche”. Una formulazione assai contorta e ambigua rispetto alle aspettative di chi come Fico, e oggi perfino lo stesso Di Maio, puntano ad un'alleanza organica col PD alle comunali dell'anno prossimo nelle grandi città, ma che riflette chiaramente la paura dell'ascendente che Di Battista ha ancora sulla base degli iscritti. Così come, al punto “strumenti per la democrazia diretta”, cioè riguardo ai “rapporti con il gestore della piattaforma”, non si è avuto il coraggio di rivendicare in capo al movimento la proprietà degli elenchi degli iscritti e il controllo sulle votazioni, non andando al di là della proposizione piuttosto generica che tali rapporti “devono essere regolati da apposito contratto di servizio o accordo di partnership che definisca i servizi delegati, ruoli, doveri reciproci”.
 

I problemi irrisolti di un M5S sempre più governista
In conclusione, come accennavamo all'inizio, questi Stati generali non hanno sostanzialmente sciolto le grosse contraddizioni in cui il M5S si trova impantanato: non si sa quale sarà il ruolo di Di Battista nel nuovo organigramma, o se ne resterà fuori continuando a recitare il ruolo di “coscienza critica” del movimento e aspettare l'occasione buona per prenderne la testa; o addirittura ne uscirà portandosi via insieme a Casaleggio il grosso degli iscritti e una parte dei parlamentari, per tenere in ostaggio il governo Conte, e riavvicinarsi magari alla Lega, con la quale ha certamente più affinità che col PD. Come non si sa se proseguirà fino alla rottura il raffreddamento con l'Associazione Rousseau o se sarà riassorbito da un compromesso, se e fino a che punto ci sarà l'alleanza elettorale col PD, e così via. Vedremo se nelle prossime settimane, con le votazioni sui punti del documento e l'elezione della segreteria collegiale, ci sarà qualche elemento in più per giudicare.
L'unica cosa che appare certa è che questi Stati generali disegnano un M5S sempre più governista, almeno per la grande maggioranza dei suoi dirigenti e parlamentari, e sempre più puntello del capitalismo. Sembrano lontani anni luce i tempi in cui questo movimento proclamava demagogicamente la sua “diversità”. Ormai non si differenzia più da tutti gli altri partiti borghesi, al punto di adottare le loro stesse regole organizzative e dal cercare disfarsi, sia pure faticosamente (e non senza conflitti, come abbiamo visto), di tutti quegli orpelli esteriori, come il limite al doppio mandato, l'”uno vale uno” ecc., che servivano a marcare tale “diversità” ma ostacolavano la loro piena integrazione nelle istituzioni e nei governi borghesi al servizio del capitalismo.

2 dicembre 2020