Sciopero all'ex Ilva
Nazionalizzare l'azienda e riassumere tutti i lavoratori
Il 30 novembre è scaduto il termine che permette ad Arcelor-Mittal di lasciare l’Italia pagando solo 500 milioni di euro. Le prospettive per l'ex Ilva e per le migliaia di persone che ci lavorano, comprese quelle dell'indotto, non sono ancora chiare e per niente rassicuranti. Per questo i lavoratori di tutti gli stabilimenti italiani del colosso franco-indiano mercoledì 25 novembre hanno scioperato 2 ore a fine turno, presidiando i cancelli delle fabbriche, da Taranto a Genova, a Novi Ligure (AL).
Come affermano gli stessi sindacati, la gestione degli impianti di Arcelor Mittal è andata via via peggiorando dal 2018 fino a diventare oggi insostenibile. Dalle promesse di investimenti, riassunzioni, salvaguardia ambientale, ci siamo ritrovati ad un lento ed inesorabile abbandono con minacce continue di migliaia di licenziamenti, manutenzione inesistente, incidenti e morti sul lavoro fino a prospettare l'abbandono dell'ex Ilva, tirando in ballo il Covid-19 che ha aggravato la crisi economica e fiaccato la richiesta di acciaio.
Una vicenda che dimostra il fallimento completo della strategia degli ultimi governi. Non bastava la fallimentare esperienza dei Riva, che presero le acciaierie dallo stato, e che dopo aver riempito i loro forzieri attraverso lo sfruttamento e l'avvelenamento dei lavoratori e della popolazione, avevano ridotto lo stabilimento più grande, quello di Taranto, a una bomba ambientale a orologeria e migliaia di lavoratori a rischio di essere licenziati e gettati in mezzo a una strada.
Dal governo Renzi in poi, passando per Gentiloni e il Conte I e II, si è pensato di prendere temporaneamente la gestione delle acciaierie attraverso l'amministrazione pubblica di Invitalia per poi consegnarle ai privati con la promessa di avviare il risanamento ambientale e la salvaguardia dell'occupazione, anche se, da quest'ultimo punto di vista, fin da subito era emersa la volontà di tagliare due-tremila posti di lavoro.
I vari governi che si sono succeduti, e i passati ministri del lavoro come Calenda e Di Maio le hanno tentate di tutte, assicurando anche l'immunità penale (che identifica particolari situazioni in cui si rende lecito un fatto che sarebbe reato) ad Arcelor-Mittal ma tutto questo non è servito e dopo 12 anni di amministrazione straordinaria e due anni di affitto al colosso franco-indiano risiamo al punto di partenza.
Per questo Fim, Fiom e Uilm hanno immediatamente avviato una richiesta di audizione urgente alle Commissioni Parlamentari competenti di Camera e Senato. Chiedono fin da subito un serio piano di manutenzioni ordinarie e straordinarie degli impianti di tutti i siti per esigere la garanzia della sicurezza dei lavoratori e la messa a norma degli impianti e l’efficienza degli stessi; “il ripristino immediato di corrette relazioni industriali oramai inesistenti e che spesso vedono atteggiamenti vessatori nei confronti dei lavoratori; la necessità di un utilizzo appropriato degli ammortizzatori sociali”.
Il governo ha promesso di rientrare in forze nel capitale del siderurgico tarantino e lo farà ancora una volta attraverso Invitalia. L’agenzia per l’attrazione degli investimenti acquisirà il 50% con l’obiettivo di avere un ruolo “di orientamento e gestione anche delle scelte industriali del gruppo”, come emerso durante l’ultimo incontro con i sindacati. Che sono stati convocati per lunedì 30 novembre dal ministro dello Sviluppo economico, il 5 Stelle Stefano Patuanelli.
Lo Stato metterà sul piatto 400-450 milioni di euro: per la produzione di acciaio è prevista la progressiva salita fino alla soglia delle 8 milioni di tonnellate annue, come da accordi di marzo. Quest’anno l’acciaieria pugliese dovrebbe produrre 3,2 milioni di tonnellate in tutto: il minimo storico. Nel nuovo piano industriale l’obiettivo, sulla carta, è l’impiego della totalità della forza-lavoro. Oggi gli operai del gruppo sono 10.700, di cui 8.200 a Taranto, dove 3.300 sono ora in cassa integrazione e il 16 novembre sono scattate altre 6 settimane di cassa Covid.
Il timore dei sindacati è di dover accettare un piano preconfezionato, con tempi per la piena occupazione spostati al 2025 e un rinnovo a oltranza della cig. E poi ci sono ancora tanti lati oscuri. Chi sarà a prendere le decisioni? Inizialmente dovrebbe esserci un presidente espresso da Invitalia e un amministratore delegato da Mittal. Ma bisognerà chiarire quali sono le deleghe che verranno attribuite. Ci sono poi da indicare gli investimenti previsti, un tema sul quale i lavoratori chiedono chiarezza per comprendere la credibilità del progetto. Anche perché gli impegni occupazionali sono piuttosto vaghi.
Queste condizioni, che dovrebbero essere suggellate da un accordo previsto per il 10 dicembre, non possono essere considerate una nazionalizzazione. Sono misure assolutamente non risolutive, che sembrano fatte apposta al fine di permettere ad Arcelor-Mittal, attraverso iniezione di denaro pubblico, di continuare a trarre profitto dalle acciaierie, o di sperare nell'arrivo di un nuovo acquirente privato. Serve invece una vera nazionalizzazione, limpida e sotto il controllo dei lavoratori e della popolazione, che trovi nuove fonti per alimentare gli altiforni più moderni spegnendo quelli obsoleti, metta in sicurezza gli impianti, riduca al minimo le emissioni, salvaguardi i posti di lavoro.
Il governo non deve fare alcuna concessione ad Arcelor-Mittal, che si è dimostrata incapace di assicurare l'occupazione, la sicurezza, e qualsiasi avanzamento sul piano della salvaguardia ambientale anzi. La sua gestione ha solo aggravato la situazione, quindi deve andarsene, l'ex Ilva nazionalizzata e tutti i lavoratori riassunti dalla nuova gestione.
2 dicembre 2020