Putin vede il "rischio di un uso unilaterale della forza militare" e "la possibilità che nuovi punti caldi divampino sul nostro pianeta"

 
L'arresto del leader del Partito Democratico del Progresso Alexei Navalnyi, appena rientrato in Russia dopo le cure per superare il tentativo di avvelenamento di cui sono accusati i servizi del Cremlino, e la repressione delle manifestazioni e le centinaia di fermi dei suoi sostenitori durante l'ultima settimana di gennaio basterebbero da sole a qualificare la natura reazionaria del regime del nuovo zar Vladimir Putin, che ha cambiato le regole per potersi ricandidare per l'ennesima volta alla poltrona presidenziale. Il rafforzamento del regime all'interno del paese è condizione necessaria per continuare a sviluppare una politica imperialista, interventista e guerrafondaia nelle crisi mondiali. Questo è il vero volto del nuovo zar del Cremlino che coglieva l'occasione della sessione online del Forum economico mondiale di Davos, dopo 12 anni di assenza, per dare una lucidata alla sua falsa immagine di leader mondiale impegnato nelle relazioni internazionali, a costruire rapporti di buon vicinato con l'Europa e alleanze per “prevenire i conflitti, rispettare la diversità e collaborare laddove gli interessi reciproci si incontrano”, che altrimenti potrebbero sfociare in guerre. Come di regola succede dato che gli interessi cui fa riferimento Putin sono interessi di paesi imperialisti, alleati di più o meno lunga durata per opportunità, concorrenti economici sempre.
Nel suo intervento del 27 gennaio Putin mescolava opportunisticamente indicatori economici e statistiche per mettere in evidenza i presunti successi economici della globalizzazione anche se per coprirsi a sinistra contemporaneamente "denunciava" che questi sono andati a vantaggio soprattutto "dell'uno per cento della della popolazione", delle "grandi multinazionali, principalmente statunitensi ed europee". Come se nel pacchetto dei più ricchi e delle multinazionali non fossero sempre più presenti i capitalisti cinesi e russi e le loro aziende.
Una parte consistente ed eloquente del suo lungo intervento la riservava ai nuovi rapporti internazionali dopo una pandemia che "ha stimolato e accelerato i cambiamenti strutturali le cui condizioni si erano create molto tempo fa, ha esacerbato i problemi e gli squilibri già accumulatisi precedentemente". E subito proponeva una significativa analogia con la situazione del 1930, dopo il crollo economico dell'anno precedente, e in particolare con la "natura sistemica globale delle sfide e le potenziali minacce che ne derivano", poiché sono andati in crisi "i modelli e i precedenti strumenti di sviluppo economico". "Tutto ciò influisce inevitabilmente sulla natura delle relazioni internazionali e non le rende più stabili o prevedibili. Le istituzioni internazionali si indeboliscono, i conflitti regionali stanno emergendo uno dopo l'altro e il sistema di sicurezza globale si sta deteriorando", sosteneva Putin, dipingendosi come un osservatore distaccato e non uno dei maggiori responsabili imperialisti che hanno partecipato a creare tale situazione che come allora non allontana affatto dall'orizzonte una nuova guerra mondiale.
“Nel 20esimo secolo, il fallimento e l'incapacità di risolvere a livello centrale tali problemi ha portato alla catastrofica Seconda guerra mondiale", ricordava il presidente russo, e se oggi un simile conflitto sarebbe impensabile “perché significherebbe la fine della nostra civiltà” restano comunque minacce di guerra poiché l’attuale situazione potrebbe svilupparsi in modo imprevedibile e incontrollabile “se non faremo nulla per evitarlo”.
Riferendosi a uno scenario che era costruito per attaccare il concorrente imperialismo Usa, ma che in larga parte corrisponde allo stesso comportamento della Russia, Putin sosteneva che possiamo aspettarci politiche "più aggressive, comprese le pressioni sui paesi che non si comportano da satelliti obbedienti, l'uso di barriere commerciali, di sanzioni illegittime e restrizioni finanziarie, tecnologiche e informatiche". E lanciava l'allarme che "un gioco del genere senza regole aumenta in modo critico il rischio di un uso unilaterale della forza militare. L'uso della forza con un pretesto inventato è l'essenza di questo pericolo. Ciò moltiplica la probabilità che nuovi punti caldi divampino sul nostro pianeta".
Meno male, sottolineava Putin, che "l'era legata ai tentativi di costruire un ordine mondiale centralizzato e unipolare è finita. Ad essere onesti, questa era non è nemmeno iniziata. È stato fatto un semplice tentativo in questa direzione, ma anche questa è ormai storia", insomma Trump non c'è più e adesso che "diversi centri di sviluppo con i loro modelli distintivi, sistemi politici e istituzioni pubbliche hanno preso forma nel mondo, è molto importante creare meccanismi per armonizzare i loro interessi" per evitare "anarchia e una serie di lunghi conflitti".
La soluzione avanzata da Putin prevede di "consolidare e sviluppare istituzioni universali che portano la responsabilità speciale per garantire la stabilità e la sicurezza nel mondo e per la formulazione e la definizione delle regole di condotta sia nell'economia globale e il commercio".
Di queste istituzioni universali non fa parte l'inutile orpello imperialista dell'Onu, quantomeno nella sua formula attuale, che Putin citava solo per combattere la pandemia. Sono più efficaci gli "sforzi concentrati degli Stati sovrani per risolvere problemi specifici a vantaggio comune, per risolvere i conflitti regionali", affermava, guardate che successi ho avuto nel costruire il formato Astana, con "Russia, Iran e Turchia che stanno facendo molto per stabilizzare la situazione in Siria". Ossia per spartirsi la Siria dopo il diretto intervento militare russo che ha rimesso in sella il regime satellite di Damasco, difeso il fedele Assad e gli interessi imperialisti di Mosca che rischiava di perdere la sua principale base mediorientale. Prima la guerra, poi la stabilizzazione concordate dai paesi più forti secondio i loro interessi; questa è la soluzione imperialista di Putin per affrontare crisi regionali e conflitti locali. Magari a cominciare da quella alle porte di casa, in Ucraina, che per il Cremlino deve essere gestita con gli accordi di Minsk che hanno congelato la divisione dal regime reazionario di Kiev delle regioni russofone indipendentiste; proprio quella crisi accesa nel 2013 da Obama e dal suo vice Biden che il 18 gennaio 2017 a Davos, due giorni prima di lasciare il posto al vice di Trump, accusava Putin di "minacciare l'ordine mondiale, puntare a mandare in rovina il progetto europeo e spaccare l'Occidente".

3 febbraio 2021