Antifemminismo padronale
A dicembre licenziate 100 mila donne
In un anno persi 444mila posti di lavoro. Boom degli inattivi e dei disoccupati tra i giovani
Il cosiddetto blocco dei licenziamenti, spacciato da governo e sindacati confederali come rimedio di tutti i mali, si sta dimostrando un provvedimento tampone che nella pratica non riesce a salvaguardare realmente l'occupazione. A un anno dall'inizio della pandemia da Covid-19 tutti i dati statistici dimostrano che centinaia di migliaia di persone, sia lavoratori dipendenti (-235mila) che autonomi (-209mila), non hanno più uno stipendio su cui contare per i propri bisogni e quelli delle loro famiglie.
I dati dell'Istat registrano nell'anno 2020 una perdita di 444mila posti di lavoro. Ma come è possibile che ciò avvenga nonostante il blocco dei licenziamenti? Anzitutto basta non rinnovare i contratti a termine e il gioco è fatto, si licenzia senza infrangere i decreti legge. E in un mercato del lavoro liberalizzato e precario come quello attuale, questo tipo di rapporto di lavoro è utilizzato per la maggior parte delle assunzioni.
Poi ci sono le cessazioni di attività, ossia fabbriche, magazzini, uffici che a migliaia in questo 2020 hanno chiuso i battenti, infine ci sono i licenziamenti camuffati, quelli ottenuti tramite alcune scappatoie. Come quella di costringere, con una scusa, i lavoratori a spostarsi in sedi collocate a centinaia di chilometri per spingerli ad andarsene. Oppure i provvedimenti disciplinari, quelle sanzioni quasi sempre basate su fatti inventati o forzati, utilizzati per trovare il pretesto per allontanare quei lavoratori che hanno il solo difetto di essere i più combattivi nel difendere i loro diritti.
Le tabelle Istat pubblicate a inizio febbraio confermano questa emorragia. Dopo un lieve aumento nel periodo estivo ripetute flessioni successive hanno portato l’occupazione a un livello più basso di quello registrato nel dicembre 2019 (-1,9%, pari appunto a -444mila unità). Numeri che parallelamente fanno risalire la disoccupazione al 9%. Nell'ultimo mese dell'anno è stato registrato un aumento record dei disoccupati e degli inattivi, cioè di coloro che non cercano più lavoro perché il lavoro non c’è. Rispettivamente +36,1% e +34 mila.
Se la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro nel 2020 è un dato di fatto oramai assodato, le statistiche mostrano anche altro, che i licenziamenti non colpiscono casualmente ma si accaniscono su alcune categorie ben definite. Nel solo mese di dicembre 2020 si sono persi 101mila posti di lavoro e ben 99mila di questi erano occupati da donne. Per loro cala il tasso di occupazione (-0,5 punti) e cresce quello di inattività (+0,4 punti), per gli uomini alla stabilità dell’occupazione si associa il calo dell’inattività (-0,1 punti). Su base annua l'occupazione cala di 0,4 punti per gli uomini e 1,4 punti per le donne.
Dati impressionanti che dimostrano come, a pagare il prezzo della pandemia a livello occupazionale, siano soprattutto le lavoratrici. Questo perché le donne sono impiegate più degli uomini in lavori precari come nei servizi di cura agli anziani e ai disabili, nelle “collaborazioni domestiche” e familiari, nei settori alberghiero e turistico o per i quali è più facile licenziare. Un chiaro antifemminismo padronale tipico del capitalismo, che prima sfrutta le donne impiegandole nei lavori più precari e sottopagati, e appena si sviluppa una crisi economica le rispedisce tra le mura domestiche.
Dopo le donne sono i giovani i più colpiti dalla crisi economica capitalistica, aggravata dal Coronavirus. In questo caso la disoccupazione è più che triplicata rispetto alla media nazionale: 30%. Un dato così negativo tra i più alti d'Europa: a fronte di una media del 15% ci superano solo la Grecia e la Spagna. Non a caso nel calo generalizzato dell'occupazione fanno eccezione solo gli ultracinquantenni mentre tra i giovani dilagano i disoccupati e gli inattivi.
10 febbraio 2021