Myanmar
Sciopero generale contro i golpisti
Da un mese continua la protesta popolare nonostante la crescente repressione che ha già causato almeno 60 morti
Dopo l'ennesimo fine settimana di forti proteste in tutto il paese contro il golpe dell'1 febbraio del generale Min Aung Hlaing che prendeva il potere a Naypyidaw e la crescita esponenziale della repressione della polizia e dell'esercito della giunta militare schierati nelle strade a sparare contro i manifestanti, il 7 marzo le nove principali organizzazioni sindacali invitavano "tutto il popolo del Myanmar" a iniziare il giorno successivo, l'8 Marzo, uno sciopero generale nazionale della durata di almeno una decina di giorni per il ritorno alla democrazia e per la liberazione degli oppositori arrestati.
La notte prima dell'inizio dello sciopero generale, reparti di militari erano protagonisti di scorribande intimidatorie in diversi quartieri di Yangon e di alte città, con incursioni nelle case, arresti e colpi sparati in aria. Rappresaglie che facevano seguito a querlle dei giorni precedenti a caccia degli oppositori financo in chiese, moschee e monasteri. I golpisti di Naypyidaw minacciavano anche il licenziamento a tutti gli impiegati statali in sciopero. Ma l'8 Marzo le manifestazioni a Yangon, Mandalay, Dawei, Monywa e altre città, dove molte fabbriche, negozi, banche e centri commerciali erano chiusi indicavano la volontà di continuare la lotta del movimento popolare di opposizione al golpe.
Le proteste in Myanmar sono iniziate lo scorso 6 febbraio e non si sono mai interrotte, sono cresciute in tutte le città del Paese tra l'altro in risposta a una crescente repressione della polizia e dell'esercito, dalle retate dei dirigenti e militanti della Lega nazionale per la Democrazia (Lnd), compresa la leader Aung San Suu Kyi finiti in carcere dopo aver vinto con oltre l’80% dei voti validi le elezioni politiche dello scorso novembre, all'uso di gas lacrimogeni, cannoni ad acqua, bombe stordenti e proiettili di gomma fino ai proiettili veri contro le proteste di massa; con un sempre più grave bilancio di morti dai 18 nelle manifestazioni del 28 febbraio agli almeno 38 del 3 marzo, una sessantina in totale, oltre a centinaia di feriti e almeno 2 mila arrestati complessivi; sono bilanci parziali che riguardano soltanto le proteste nelle grandi città dove nelle prime settimane sfilavano senza grandi problemi grandi cortei mentre la repressione dei golpisti, non seguita dalle riprese delle telecamere e dai social, colpiva duramente nelle zone rurali del paese, nelle regioni periferiche abitate dalle minoranze etniche.
L’inviata dell’Onu per il Myanmar, Myanmar Christine Schraner Burgener, alla riunione del Consiglio di sicurezza del 5 marzo denunciava la sanguinosa repressione in Myanmar e chiedeva l'adozione di sanzioni contro la giunta golpista. Nella riunione del Consiglio Onu si ripeteva la sceneggiata imperialista delle precedenti sulla situazione di un paese conteso tra Cina, che vuol mantenere i rapporti più favorevoli costruiti negli anni della precedente dittatura militare, e gli Usa che puntano a scalzarla: il portavoce del Dipartimento di Stato degli USA, Ned Price, chiedeva la condanna delle repressione poliziesca e invitava altri paesi a seguire l'esempio di Washington nelle sanzioni alla giunta militare, il rappresentante di Pechino si limitava a un generico invito al dialogo nazionale. La posizione dei socialimperialisti cinesi era appoggiata dalla Russia e la riunione all'Onu si chiudeva senza alcuna dichiarazione comune.
Una copertura di fatto dei golpisti del Myanmar era il comportamento di India e Malesia che come se nulla fosse successo a Naypyidaw avviavano, Nuova Delhi, il rimpatrio di 160 profughi musulmani Rohingya sfuggiti nei mesi passati al genocidio birmano, e, Kuala Lumpur, l'espulsione di alcune decine di profughi di diverse etnie, molti Kachin, che avevano passato la frontiera meridionale scappando da fame e repressione.
10 marzo 2021