Engels: Dalla Introduzione a “La guerra civile in Francia”
(18 marzo 1891)

Se rivolgiamo lo sguardo ora, dopo vent'anni, all'attività e all'importanza storica della Comune di Parigi del 1871, troveremo che alla esposizione datane nella “Guerra civile in Francia” si deve fare qualche aggiunta.
I membri della Comune si dividevano in una maggioranza, i blanquisti, i quali avevano predominato anche anteriormente nel Comitato centrale della Guardia nazionale, e in una minoranza composta di membri della Associazione internazionale degli Operai, seguaci in prevalenza della scuola socialista di Proudhon. I blanquisti erano allora nella maggioranza socialisti soltanto per istinto rivoluzionario proletario; pochi solamente erano arrivati a una maggior chiarezza di principi grazie a Vaillant, che conosceva il socialismo scientifico tedesco. Così si comprende come nel campo economico furono trascurate parecchie cose che, secondo la nostra concezione odierna, la Comune avrebbe dovuto fare. Più che mai difficile a comprendersi rimane ad ogni modo il sacro rispetto col quale ci si arrestò con devota soggezione davanti alle porte della Banca di Francia. Questo fu anche un grande errore politico. La Banca in mano della Comune valeva più che diecimila ostaggi. Significava la pressione di tutta la borghesia francese sul governo di Versailles per spingere alla pace con la Comune. Ma ciò che è ancor più mirabile sono le molte cose giunte compiute malgrado tutto dalla Comune, composta di blanquisti e di proudhoniani. Naturalmente, dei decreti economici della Comune, per i loro aspetti gloriosi e per i loro aspetti ingloriosi, responsabili sono in prima linea i proudhoniani; come per gli atti e per le omissioni politiche sono responsabili i blanquisti. E in entrambi i casi l'ironia della storia volle, - come avviene di solito quando dei dottrinari arrivano al potere, - che gli uni e gli altri facessero precisamente il contrario di quello che prescriveva la loro dottrina scolastica.
Proudhon, il socialista del piccolo contadino e dell'artigiano, odiava l'associazione d'un odio positivo. Diceva che essa conteneva in sè più male che bene, che era di sua natura improduttiva e persino dannosa, perché era una catena messa alla libertà dell'operaio; che essa era un puro dogma, infruttuoso e oneroso, in contrasto tanto con la libertà del lavoratore quanto col risparmio del lavoro, e che i suoi svantaggi crescevano più rapidamente che i vantaggi; che in contrapposto ad essa la concorrenza, la divisione del lavoro e la proprietà privata erano forze economiche positive. Solo per i casi eccezionali, - come li chiama Proudhon, - della grande industria e delle grandi organizzazioni di locomozione, per esempio le ferrovie, l'associazione dei lavoratori sarebbe stata conveniente. (V. “Idée générale de la Révolution'', 3° étude'') .
Nel 1871 la grande industria aveva già cessato di essere un caso eccezionale anche a Parigi, sede centrale dell'artigianato artistico, e in tal guisa che il decreto di gran lunga più importante della Comune ordinava un'organizzazione della grande industria e perfino della manifattura, la quale non doveva fondarsi soltanto sull'associazione degli operai in ogni fabbrica, ma doveva anche riunire in una grande unione tutte queste società; in breve, un'organizzazione la quale, come ben giustamente dice Marx nella “Guerra civile”, doveva alla fine portare al comunismo, cioè all'opposto diretto della teoria proudhoniana. Perciò la Comune fu la tomba della scuola proudhoniana del socialismo. Questa scuola è ora scomparsa dai circoli degli operai francesi; in essi predomina incontrastata, fra i possibilisti non meno che fra i “marxisti”, la teoria di Marx. Solo fra la borghesia “radicale” ci sono ancora dei proudhoniani.
Né migliore fu la sorte dei blanquisti. Educati alla scuola della cospirazione, tenuti assieme dalla rigida disciplina ad essa corrispondente, essi partivano dal principio che un numero relativamente piccolo di uomini risoluti e bene organizzati fosse la condizione, in un dato momento favorevole, non solo per impadronirsi del potere, ma anche per mantenerlo spiegando una grande energia, priva d'ogni riguardo, fino a che fosse loro riuscito lanciare la massa del popolo nella rivoluzione e raggrupparla intorno alla piccola schiera dei dirigenti. Per questo occorreva prima di tutto l'accentramento più energico, dittatoriale, di ogni potere nelle mani del nuovo governo rivoluzionario. E che fece la Comune, la quale era in maggioranza composta appunto di questi blanquisti? In tutti i suoi proclami ai francesi della provincia essa li chiamava a costituire una federazione libera di tutti i comuni francesi con Parigi; una organizzazione nazionale, che per la prima volta doveva essere creata dalla nazione stessa. Invece proprio questo potere repressivo del precedente governo centralizzato, dell'esercito, della polizia politica, della burocrazia, che Napoleone aveva creato nel 1798 e che da allora in poi ogni nuovo governo aveva accettato come un comodo strumento e sfruttato contro i suoi avversari, proprio questo potere doveva dappertutto cadere, come già era caduto a Parigi.
La Comune dovette riconoscere sin dal principio che la classe operaia, una volta giunta al potere, non può continuare a governare la vecchia macchina dello Stato, che la classe operaia, per non perdere di nuovo il potere appena conquistato, da una parte deve eliminare tutta la vecchia macchina repressiva già sfruttata contro di essa, e dall'altra deve assicurarsi contro i propri deputati e impiegati, dichiarandoli senza nessuna eccezione e in ogni momento revocabili. In che cosa consisteva sino allora la proprietà caratteristica dello Stato? La società, per la tutela dei propri interessi comuni, si era provveduta in organi propri, originariamente per mezzo di una semplice divisione di lavoro. Ma questi organi, alla cui testa è il potere dello Stato, si erano col tempo trasformati, al servizio dei propri interessi speciali, da servitori della società in padroni della medesima. Il che per esempio è evidente non solo nella monarchia ereditaria, ma anche nella repubblica democratica. In nessun paese i “politici” formano una sezione della nazione così separata e così potente come nell'America del Nord. Ognuno dei due grandi partiti che si scambiano a vicenda il potere viene alla sua volta governato da gente per cui la politica è una professione, che specula tanto sui seggi nelle assemblee legislative dell'Unione quanto su quelli dei singoli Stati, o che per lo meno vive dell'agitazione per il suo partito e dopo la sua vittoria viene compensata con dei posti. È noto come gli americani tentano da trent'anni di scuotere questo giogo diventato insopportabile e come, a dispetto di ciò, affondano sempre più profondamente nella palude di questa corruzione. Proprio in America possiamo vedere nel miglior modo come si compia questa separazione e contrapposizione del potere dello Stato alla società, di cui in origine esso era destinato a non essere altro che uno strumento. Qui non esiste dinastia, non nobiltà, non esercito permanente all'infuori di un manipoli d'uomini per la vigilanza degli indiani, non burocrazia con impiego stabile e con diritto a pensione. E con tutto questo, abbiamo qui due grandi bande di speculatori politici che alternativamente entrano in possesso del potere, e lo sfruttano coi mezzi più corrotti e ai più corrotti scopi; e la nazione è impotente contro queste due grandi bande di politici, che apparentemente sono al suo servizio, ma in realtà la dominano e la saccheggiano.
Contro questa trasformazione, in tutti gli Stati finora inevitabile, dello Stato e degli organi dello Stato da servitori della società in padroni della società, la Comune applicò due mezzi infallibili. In primo luogo, assegnò per via di elezione, con diritto generale di voto da parte degli interessati, e col diritto costante di revoca da parte di questi stessi interessati, tutti gli impieghi, amministrativi, giudiziari, educativi. In secondo luogo, per tutti i servizi, alti e bassi, pagava solo lo stipendio che ricevevano gli altri operai. Il più alto assegno che essa pagava era di 6.000 franchi. In questo modo era posto un freno sicuro alla caccia agli impieghi e al carrierismo, anche senza i mandati imperativi per i delegati ai Corpi rappresentativi, che furono aggiunti per soprappiù.
Questa distruzione del potere dello Stato esistente e la sostituzione ad esso di un nuovo potere, veramente democratico, è esaurientemente descritta nel terzo capitolo della “Guerra civile”. Era però necessario ritornar qui brevemente sopra alcuni tratti di essa, perché precisamente in Germania la superstizione dello Stato si è trasportata dalla filosofia nella coscienza generale della borghesia e perfino di molti operai. Secondo la concezione filosofica, lo Stato è la “realizzazione dell'Idea”, ovvero il regno di Dio in terra tradotto in linguaggio filosofico, il campo nel quale la verità e la giustizia eterna si realizza o si deve realizzare. Di qui una superstiziosa idolatria dello Stato e di tutto ciò che ha relazione con lo Stato, idolatria che si fa strada tanto più facilmente in quanto si è assuefatti fin da bambini a immaginare che gli affari e gli interessi comuni a tutta la società non possano venir curati altrimenti che come sono stati curati fino ad ora, cioè per mezzo dello Stato e dei suoi bene istallati funzionari. E si crede d'aver già fatto un passo estremamente audace quando ci si è liberati dalla fede nella monarchia ereditaria e si giura nella repubblica democratica. In realtà però lo Stato non è che una macchina per l'oppressione di una classe da parte di un'altra, e ciò nella repubblica democratica non meno che nella monarchia; e nel migliore dei casi un male che viene lasciato in eredità al proletariato riuscito vittorioso nella lotta per il predominio di classe e i cui lati peggiori non potrà fare a meno, subito, di eliminare nella misura del possibile, come fece la Comune, finché una nuova generazione, cresciuta in condizioni sociali nuove, libere, non sia in grado di scrollarsi dalle spalle tutto il vecchiume dello Stato.
Il filisteo socialdemocratico recentemente si è sentito preso da un salutare terrore sentendo l'espressione: dittatura del proletariato. Ebbene, signori, volete sapere come è questa dittatura? Guardate la Comune di Parigi, Questa era la dittatura del proletariato.
 
(Londra, nel ventesimo anniversario della Comune di Parigi, 18 marzo 1891).
 
Dalla “Introduzione di F. Engels a La guerra civile in Francia”, 18 marzo 1891. Sta in Marx-Engels, Scritti scelti, vol. II, pagg. 401-405, Ed. in lingue estere, Mosca - 1944
 

24 marzo 2021