Contro carichi di lavoro sempre più pesanti, i controlli asfissianti e per un contratto che includa tutti i lavoratori della filiera
Successo del primo sciopero nazionale delle lavoratrici e dei lavoratori Amazon
“Vogliamo ritmi più umani”
Lunedì 22 marzo si è svolto il primo sciopero nazionale della filiera di Amazon, indetto dalle organizzazioni di categoria di Cgil, Cisl e Uil. La convinta adesione delle lavoratrici e dei lavoratori ha decretato il successo dell'iniziativa che ha raggiunto, secondo i sindacati, un adesione dell'80%. Un dato molto alto nonostante Amazon si ostini a negare l'evidenza parlando di un 10% di astensioni dal lavoro. Una reazione in linea con l'atteggiamento tenuto fin qui dall'azienda di Jeff Bezos che mal tollera i sindacati e crede di poter fare, in Italia e negli altri Paesi, tutto ciò che vuole.
Attualmente il colosso americano dell'e-commerce gode di ottima salute. Il 2020 ha rappresentato per Amazon a livello mondiale un anno incredibilmente remunerativo grazie alla pandemia che ha costretto in casa milioni di persone e portato alla chiusura di centinaia di migliaia di negozi al dettaglio. Nel 2020 Amazon ha fatturato a livello mondiale oltre 386 miliardi, il 38% in più del 2019 con un utile netto di 21,3 miliardi di dollari, 9,7 miliardi in più del 2019. Mentre il valore delle azioni è aumentato del 640%. Questo fa del suo amministratore delegato Jeff Bezos l’uomo più ricco del mondo. I ritmi di lavoro in questa fase di pandemia sono esplosi: mentre l’e-commerce guadagna per il lavoratore Amazon è un inferno.
Si è trattato del primo sciopero al mondo che ha coinvolto contemporaneamente tutta la filiera Amazon, circa 40mila lavoratori. Tra questi 9500 impiegati direttamente da Amazon Italia Logistica che operano negli hub, i grandi magazzini di smistamento, e nei depositi più piccoli. Il più grande è quello di Castel San Giovanni in provincia di Piacenza. Sono circa 1.100 i lavoratori impiegati a tempo indeterminato, ma arrivano fino a 2.000 nei periodi di maggiore richiesta come il Black Friday o il periodo natalizio. Un avveniristico capannone industriale di quasi 100.000 metri quadrati, grande come 11 campi da calcio e alto come un palazzo di 3 piani, dove tutto è studiato nei minimi particolari per spremere il più possibile i propri dipendenti.
Accanto a loro ci sono circa altri 9 mila lavoratori interinali che portano il rapporto tra lavoratori fissi e precari a 1:1. Vanno poi aggiunti circa 1.500 lavoratori in appalto che in alcuni hub come quello di Rovigo gestiscono completamente il magazzino Amazon. E poi ci sono quasi 20mila driver, ovvero gli autisti che portano il pacco direttamente a casa. Nessuno di loro è dipendente diretto Amazon perché il gigante di Jeff Bezos si appoggia ad una pluralità di aziende di corrieri riunite in Assoespressi (sebbene usi anche Poste, Sda e altri corrieri), e con questo pretesto rifiuta il confronto con i sindacati.
Davanti al grande magazzino in provincia di Piacenza si è tenuto uno dei presidi più importanti organizzati nella giornata dello sciopero del 22 marzo con la partecipazione di centinaia di lavoratori e la mobilitazione ha interessato l'intera Emilia-Romagna (si veda l'articolo a parte). Altre iniziative, anche con blocchi stradali e dei cancelli, si sono svolte in tutta Italia: ben 8 manifestazioni nella sola Lombardia, iniziative anche in Veneto, Friuli Venezia Giulia e Piemonte, a Bologna e Genova. In Toscana sono stati coinvolte le sedi di Pisa e Calenzano (FI), nel Lazio i grandi centri di smistamento di Passo Corese e Colleffero alla porte di Roma, e quello di Arzano in provincia di Napoli.
Lo sciopero inizialmente era stato indetto dai sindacati confederali dei trasporti e proprio tra i driver l'adesione è stata altissima. Comunque significativa anche la partecipazione nei magazzini affiliati al settore del commercio, dove il ricatto è più diretto. Al primo posto della piattaforma, spiega Danilo Morini della Filt Cgil, “c'è il monitoraggio dei ritmi e dei carichi di lavoro. Con la pandemia il volume di lavoro è raddoppiato e non sono di certo raddoppiati i lavoratori: ci sono carichi di lavoro insostenibili sia nei magazzini che per i driver”.
Che in Amazon ci siano ritmi forsennati che non lasciano respirare, azioni ripetitive che portano dolori fisici (l'infermeria interna è sempre piena), a cui si aggiunge il ricatto del precariato per una larga fetta di lavoratori, non è un segreto per nessuno. Nonostante l'impenetrabilità di Amazon, testimonianze di lavoratori, e anche di giornalisti in incognito che sono riusciti a farsi assumere per raccontare come si svolge il lavoro, ci parlano di ritmi pesanti dettati da computer, fino a 360 pezzi all'ora da smistare, denunce sui problemi di salute per muscoli e articolazioni nei magazzini, mentre i driver devono consegnare 200 pacchi al giorno correndo come forsennati nel traffico cittadino e autostradale. Il tutto tenuto sotto controllo da algoritmi, GPS, braccialetti elettronici, palmari, che ne scandiscono tempi e ritmi di lavoro e consegna.
Qualcuno potrebbe obiettare che queste sono le condizioni che si vivono normalmente nelle fabbriche e sui luoghi di lavoro. In molti casi è così, ma quello che emerge è come queste condizioni, specie in alcuni ambiti lavorativi, vengono nascoste dietro una patina di modernità, efficienza, tecnologia, nel vano tentativo di sostenere la scomparsa del classico rapporto di sfruttamento del capitalista verso il proletario; quando invece la realtà ci dimostra come questo rapporto non solo sia pienamente in vigore, ma stia tornando ad usare metodi ottocenteschi come il lavoro a cottimo, il controllo padronale, i ricatti, con o senza mezzi tecnologici, che sembravano definitivamente scomparsi. Ai padroni del vapore si sono semplicemente sostituiti i giganti del web.
E questi stessi scioperi smentiscono coloro che frettolosamente davano la lotta di classe per morta e sepolta.
31 marzo 2021