Emanuele Sala
Mao, il riformismo e l'unità della classe operaia

 
 
Importante, istruttivo e attuale discorso

Su indicazione del compagno Giovanni Scuderi, Segretario generale del PMLI, ripubblichiamo ben volentieri l'importante discorso che il compagno Emanuele Sala, membro da sempre del Comitato centrale e dell'Ufficio politico del PMLI, nonché ex Responsabile della Commissione del lavoro di massa del CC del PMLI ed ex membro della Redazione centrale de “Il Bolscevico”, pronunciò, a nome del CC del PMLI, al Palazzo dei Congressi di Firenze il 9 settembre 1987 in occasione dell'11° Anniversario della scomparsa di Mao.
Il discorso, dal titolo “Mao, il riformismo e l'unità della classe operaia” è stato pubblicato per la prima volta su “Il Bolscevico” n. 38 del 1987 e successivamente nel volume “Mao e la lotta del PMLI per il socialismo”, stampato a cura del Comitato Centrale del PMLI nel dicembre 1993.
I temi che ha trattato il compagno Sala sono tuttora attuali e molto istruttivi, specie per chi non conosce la storia della lotta tra rivoluzionari e riformisti a livello mondiale e in Italia, e il contributo che ha dato Mao sulla questione e sull'unità rivoluzionaria del proletariato mondiale.
Un discorso imperdibile da parte delle operaie e degli operai che vogliono capire quello che è accaduto nel movimento operaio italiano e internazionale, e che ricercano una via per liberarsi del capitalismo, della dittatura della borghesia e dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo.
Un discorso imperdibile anche da parte dei vecchi e dei nuovi militanti e simpatizzanti del PMLI, ai primi serve per rinfrescarsi la memoria e per continuare a tenere ferma la barra rivoluzionaria e antirevisionista, ai secondi serve per chiarirsi le idee e rafforzare la loro cultura marxista-leninista.
Perché si tratta di un discorso che è un tassello della storia e della linea del PMLI, una pietra miliare della lotta del PMLI contro il liberalismo, il riformismo e il revisionismo moderno, come sostiene il compagno Scuderi.
“Le scelte che si impongono oggi alla classe operaia italiana”, indicate e descritte dal compagno Sala, sono esattamente quelle che ancora adesso devono compiere le operaie e gli operai del nostro Paese.
La prima grande scelta è ideologica: o liberalismo o marxismo-leninismo-pensiero di Mao, la seconda grande scelta è politica: o capitalismo o socialismo, la terza grande scelta è organizzativa: o il PMLI o un partito riformista.
In questo quadro è da rilevare l'appello del compagno Sala ad “aprire un approfondito e ampio dibattito e un serio confronto fra tutti coloro che credono ancora nel socialismo senza alcun pregiudizio e al di là delle rispettive collocazioni politiche”. Un tema che, non a caso, ha ripreso, sviluppato e attualizzato il compagno Scuderi nell'importantissimo Editoriale per il 44° Anniversario della fondazione del PMLI.
Da quando il compagno Emanuele Sala ha perso la vista, non potendo avere un aiuto tecnico di un compagno, non scrive più discorsi di Partito e articoli per “Il Bolscevico”, che nel passato ne ha pubblicati tantissimi non firmati. Però i suoi saggi interventi nelle riunioni del CC e dell'UP del PMLI sono sempre seguiti con la massima attenzione e sono tenuti in debita considerazione.

 

 

Discorso pronunciato da Emanuele Sala, a nome del Comitato centrale del PMLI il 9 settembre 1987 al Palazzo dei Congressi di Firenze, in occasione dell'undicesimo anniversario della morte di Mao. Il discorso è stato pubblicato per la prima volta su “Il Bolscevico”, nuova serie Anno XL n. 38 del 18 settembre 1987.

 
Compagne, compagni, amici,
oggi ricorre l'11° anniversario della scomparsa del presidente Mao Zedong, grande Maestro del proletariato internazionale, dei popoli e delle nazioni oppresse. Il vuoto lasciato da questo gigante del pensiero e dell'azione rivoluzionari rimane incommensurabile nei cuori di tutti i rivoluzionari del mondo.
Sin da quel giorno doloroso del 9 settembre del 1976, noi marxisti-leninisti italiani, con alla testa il Segretario generale del Partito, Giovanni Scuderi, giurammo che saremmo rimasti fedeli per tutta la vita al pensiero di Mao, lo avremmo difeso tenacemente dagli attacchi della borghesia, della socialdemocrazia e dei revisionisti comunque camuffati e applicato dialetticamente e diligentemente per far chiarezza e risolvere i problemi della lotta di classe e della rivoluzione in Italia. Ed è quanto ci siamo sforzati di fare in questi anni nell'analisi della situazione nazionale e internazionale, nell'assolvimento dei compiti che si sono posti di volta in volta, ma soprattutto nella elaborazione di una linea e una strategia per il socialismo nel nostro Paese.
Ogni anno il Comitato centrale del Partito marxista-leninista italiano, a nome del quale ho l'onore di parlare in questa occasione, ha tenuto una solenne Commemorazione per ricordare e propagandare in modo militante gli insegnamenti preziosi di Mao in riferimento all'attualità politica e della lotta di classe e ai compiti che spettano ai marxisti-leninisti e ai rivoluzionari italiani.
Per questa Commemorazione, abbiamo scelto il tema: "Mao, il riformismo e l'unità della classe operaia". Non c'è compito più attuale e importante di quello di analizzare e denunciare sul piano storico, ideologico e politico il riformismo, l'anima nera di ogni revisionismo vecchio e nuovo che, purtroppo, nelle sue varie manifestazioni alla Gorbaciov, Deng Xiaoping, Craxi, Natta e Occhetto, detiene in vari paesi dell'Ovest e dell'Est l'egemonia all'interno del movimento operaio e popolare e avvelena le menti degli sfruttati, degli oppressi e delle nuove generazioni.
Favorito anche dalla conclusione della parabola riformista e neoliberale consumata dal vertice del PCI al 17 ° congresso (che equivale al ripudio di parti essenziali della sua storia, fino a rinnegare la scissione del '21 e a spostarsi sul terreno della socialdemocrazia), Craxi ha messo in atto, e negli ultimi tempi accelerato, una strategia di riunificazione ideologica, politica, programmatica e fors'anche organizzativa (se non subito, in una prospettiva futura) tra il PSI e il PCI, oltre che con il PSDI e il PR.
Il disegno del neoduce Craxi è quello di egemonizzare tutta la sinistra parlamentare sotto le insegne del riformismo socialdemocratico e della seconda repubblica presidenziale e fascista, di cancellare dalla mente del proletariato il marxismo-leninismo, la Rivoluzione d'Ottobre, la lotta per l'abbattimento del capitalismo e la conquista del socialismo. Su questi temi è avviata una serrata discussione tra i partiti che abbiamo citato, in particolare tra PCI e PSI, e noi non potevamo non interessarcene per dire la nostra sull'argomento e con l'occasione approfondire i caratteri della lotta tra rivoluzionari e riformisti che ha accompagnato la storia della classe operaia fino ai nostri giorni e che continuerà nel futuro.
 

La lotta tra rivoluzionari e riformisti nel movimento operaio internazionale
La lotta tra i riformisti e i rivoluzionari per l'egemonia del movimento operaio è antica quanto l'esistenza del proletariato stesso. Il riformismo, essendo un prodotto della borghesia liberale e del socialismo utopistico, è anzi antecedente alla nascita del marxismo. La dottrina di Marx ed Engels, cioè il materialismo dialettico e storico, il socialismo scientifico, è nata e si è sviluppata infatti in una lotta strenua contro le ideologie idealistiche e riformiste che circolavano ai loro tempi.
Nel fondare la teoria rivoluzionaria del proletariato per l'abbattimento del capi​ talismo e la conquista del socialismo e del comunismo, nella loro azione per farla affermare in campo filosofico, politico e pratico, Marx ed Engels hanno dovuto fare i conti incessantemente con molte correnti opportunistiche. Ad esempio contro i giovani hegeliani radicali che sostenevano le posizioni dell'idealismo filosofico, contro il proudhonismo nel campo della dottrina economica, contro l'anarchismo di Bakunin, contro le teorie riformiste e piccolo borghesi del professore Dühring.
Non può meravigliare, dice Lenin, che "la dottrina di Marx, la quale serve direttamente ad educare e organizzare la classe d'avanguardia della società moderna, addita i compiti di questa classe e dimostra che, in virtù dello sviluppo economico, la sostituzione del regime attuale con un ordine nuovo è inevitabile, non meraviglia che questa dottrina abbia dovuto farsi strada lottando a ogni passo" 1.
È nel corso di queste epiche battaglie che i primi maestri del proletariato internazionale hanno scritto lo storico "Manifesto del Partito comunista" e fondato la I e poi Engels la II Internazionale, educato e organizzato i primi nuclei comunisti in Europa e nel mondo.
Quando poi il marxismo è diventato, in seno al proletariato, l'ideologia vittoriosa sull'opportunismo di ogni tipo, la lotta è continuata contro gli insidiosi tentativi di deformazione e di revisione riformista attuati dai capi della II Internazionale.
Riferendosi proprio a questi rinnegati del marxismo e del proletariato sostenitori del riformismo borghese e dell'evoluzione pacifica al socialismo, Engels in una circolare indirizzata al vertice della II Internazionale ebbe a dire che "Per circa quarant'anni noi abbiamo messo in primo piano la lotta di classe, in quanto forza motrice immediata della storia, e in particolare la lotta di classe fra la borghesia e il proletariato, potente leva della rivoluzione sociale del nostro tempo, per questo ci è assolutamente impossibile camminare insieme a chi cerca di radiare questa lotta di classe dal movimento" 2.
Il dissidio tra rivoluzionari e riformisti ha da sempre riguardato, e ancora oggi è così, tali questioni cruciali: lotta di classe o conciliazione tra le classi? rivoluzione o riforme? rottura rivoluzionaria violenta o evoluzione pacifica? proprietà collettiva o privata dei mezzi di produzione? dittatura del proletariato o pluralismo dei partiti e democrazia e dittatura borghesi?
Su questi problemi Marx ed Engels hanno condotto una lotta risoluta e intransigente esprimendo parole estremamente chiare che hanno costituito i cardini della teoria e dell'azione di tutti gli autentici rivoluzionari di ogni tempo.
"Quel che io ho fatto di nuovo - diceva Marx - è stato dimostrare: 1) che l'esistenza delle classi è soltanto legata a determinate fasi di sviluppo storico della produzione; 2) che la lotta di classe necessariamente conduce alla dittatura del proletariato; 3) che questa dittatura stessa costituisce soltanto il passaggio alla soppressione di tutte le classi e a una società senza classi" 3. Qualche anno avanti, dettando quelli che dovevano essere i compiti principali di un partito comunista, il suo compagno d'armi Engels aveva detto che essi sono: "1) Realizzare gli interessi dei proletari contro quelli della borghesia; 2) ottenere questo scopo con la soppressione della proprietà privata e la sostituzione ad essa della proprietà comune dei beni; 3) non riconoscere nessun altro mezzo per l'attuazione di questi propositi che la rivoluzione democratica violenta" 4.
La lotta tra rivoluzionari e riformisti, dunque, non solo dura dagli albori del proletariato, ma rappresenta una condizione fondamentale ineliminabile, parte integrante della lotta di classe contro la borghesia, per realizzare l'unità della classe operaia sul terreno della rivoluzione socialista e della dittatura del proletariato.
"Lo sviluppo del proletariato - dice Engels - si compie dappertutto attraverso lotte interne... L'unità va molto bene, sino a che è possibile; ma vi sono cose che stanno al di sopra dell'unità. E quando, come abbiamo fatto Marx ed io, si è combattuto durante tutta la vita più contro i sedicenti socialisti che contro chiunque altro (...) non si può provare un grande rincrescimento per il fatto che sia scoppiata una lotta che era inevitabile" 5.
Di questo insegnamento storico e indicazione strategica hanno fatto tesoro Lenin, Stalin e Mao, i quali, ognuno nel proprio tempo e in riferimento ai compiti che la rivoluzione imponeva loro, hanno condotto una lotta rigorosa e senza concessioni contro gli agenti della borghesia in seno al movimento operaio internazionale.
Alla morte di Marx ed Engels è toccato a Lenin impugnare saldamente la bandiera della difesa del marxismo, arricchirlo e svilupparlo nell'epoca dell'imperialismo e della rivoluzione proletaria, e opporsi alle teorizzazioni dei capi della socialdemocrazia Bernstein e Kautzky, e anche degli "ultrasinistri" tedeschi.
Nei confronti dei socialriformisti e socialtraditori della II Internazionale ha dato vita a una battaglia di principio e a un'opera di chiarificazione di inestimabile valore. Già nel 1902 nel "Che fare?" scrive: "La socialdemocrazia deve trasformarsi da partito di rivoluzione sociale in partito democratico di riforme sociali. Bernstein ha appoggiato questa rivendicazione politica con tutta una batteria di 'nuovi' argomenti e considerazioni abbastanza ben concatenate. Si nega la possibilità di dare un fondamento scientifico al socialismo e di provarne la necessità e l'inevitabilità dal punto di vista della concezione materialistica della storia; si nega il fatto della miseria crescente, della proletarizzazione, dell'inasprimento delle contraddizioni capitalistiche, si dichiara inconsistente il concetto di 'scopo finale' (famosa la frase di Bernstein 'il movimento è tutto il fine è niente', n.d.a.) e si respinge l'idea della dittatura del proletariato; si nega l'opposizione di principio tra il liberalismo e il socialismo; si nega la teoria della lotta di classe, che sarebbe inapplicabile in una società rigorosamente democratica, amministrata secondo la volontà della maggioranza" 6. Più tardi aggiungerà: "Il revisionismo o 'revisione' del marxismo è attualmente una delle principali manifestazioni se non la principale, dell'influenza borghese sul proletariato e della corruzione dei proletari da parte della borghesia.
Questo è il motivo per cui il capo degli opportunisti Eduard Bernstein, è tanto notoriamente (e tristemente) conosciuto nel mondo intiero" 7.
L'altro maestro negativo, Kautzky, che insieme a Bernstein ha costituito e costituisce la principale fonte teorica ispiratrice dal riformismo revisionista, fu bollato così da Lenin: "Kautzky ha travisato in modo inverosimile il concetto di dittatura del proletariato, trasformando Marx in un liberale volgare, e si è degradato lui stesso a livello di un liberale, che ripete logore frasi sulla democrazia pura abbellendo e offuscando il contenuto di classe della democrazia borghese e paventa soprattutto la violenza rivoluzionaria della classe oppressa. Quando Kautzky interpreta il concetto di 'dittatura rivoluzionaria del proletariato' in modo da far scomparire la violenza rivoluzionaria della classe oppressa sugli oppressori, batte il primato mondiale della contraffazione liberale di Marx. Il rinnegato Bernstein sembra un cucciolo accanto al rinnegato Kautzky" 8. Questo perché egli veste i panni del dirigente rivoluzionario e si atteggia a teorico marxista. Ma in realtà spiega Lenin, "Kautzky prende dal marxismo solo ciò che è accettabile per i liberali, per la borghesia (la critica del medioevo, la funzione storica progressiva del capitalismo in generale e della democrazia capitalistica in particolare) e respinge, passa sotto silenzio, attutisce tutto ciò che del marxismo è inaccettabile per la borghesia (la violenza rivoluzionaria del proletariato contro la borghesia per la distruzione di quest'ultima). Ecco perché Kautzky per la sua posizione oggettiva, qualunque possa essere il suo convincimento soggettivo è un lacchè della borghesia" 9.
Impadronitosi degli insegnamenti di Marx ed Engels e istruito dall'esperienza concreta fatta nel proprio paese contro i menscevichi, Lenin arriva a queste conclusioni: "L'opportunismo è il nostro principale nemico. L'opportunismo nei ranghi superiori del movimento operaio non è socialismo proletario ma socialismo borghese. La pratica ha dimostrato che coloro i quali sono attivi nel movimento operaio e aderiscono alla corrente opportunista difendono la borghesia, meglio della borghesia stessa" 10. Perciò, era la conclusione, "Una delle condizioni indispensabili per preparare la vittoria del proletariato, è la lotta lunga e accanita, la lotta implacabile ch'esso deve condurre con l'opportunismo, il riformismo, il socialsciovinismo e le altre tendenze e correnti borghesi dello stesso tipo, le quali sono inevitabili dal momento che il proletariato agisce nell'ambito capitalista" 11. "Il bolscevismo non avrebbe vinto la borghesia nel 1917-1919 se non avesse imparato prima, nel 1903-1917, a vincere e a scacciare inesorabilmente dal partito dell'avanguardia proletaria i menscevichi, e cioè, gli opportunisti, i riformisti, socialsciovinisti" 12.
Da qui la decisione storica del 1919 di rompere con la II Internazionale indicandola come una organizzazione gialla al servizio della borghesia e dell'imperialismo mondiale, di creare l'Internazionale comunista (la III Internazionale) e di chiamare i rivoluzionari a dividersi dai riformisti e a fondare nei rispettivi paesi dei partiti comunisti. Nel 2° Congresso Lenin ispira i famosi "21 punti" come condizione per l'ammissione all'Internazionale comunista dove, oltre alla "provata fede, ossia che abbiano dimostrato la loro dedizione alla classe operaia", si chiede la "rottura totale con il riformismo", e di estromettere "da tutti i posti di maggiore responsabilità gli elementi riformisti e centristi sostituendoli con comunisti fidati" nonché di abbandonare la vecchia denominazione di Partito socialdemocratico e di assumere il nome di Partito comunista.
Con la Rivoluzione d'Ottobre del 1917 in Unione Sovietica, che è la prova vivente della giustezza della dottrina di Marx, la vittoriosa battaglia di Lenin contro gli opportunisti della II Internazionale e la nascita dell'Internazionale comunista si apre una fase estremamente positiva per il proletariato internazionale che vede il marxismo predominare sul revisionismo, grazie anche all'azione di Stalin nella costruzione del socialismo nell'Urss, nello smascheramento del trotzkismo e del bucharinismo e nella guida vittoriosa del popolo sovietico contro il nazismo hitleriano; un periodo storico che vedrà la formidabile diffusione del marxismo e del leninismo in tutto il mondo, la formazione di numerosi partiti comunisti e subito dopo la 2a guerra mondiale la nascita di una serie di paesi socialisti che andranno a formare quello che allora si chiamava il "campo socialista" che si contrapponeva al campo imperialista.
Tale straordinario periodo dura 37 anni, cioè fino a quando, morto Stalin, il rinnegato Krusciov nel 1956 attua a sorpresa un vero e proprio colpo di Stato al XX congresso del PCUS e restaura il capitalismo in Unione Sovietica, nel paese che aveva rappresentato il baluardo del socialismo, l'esempio da seguire per tutti i proletari e gli sfruttati e gli oppressi nel mondo. Ciò favorirà il dilagare del revisionismo in quasi tutti i partiti comunisti, compreso quello italiano, di cui parleremo a parte, una vera tragedia per l'allora movimento comunista internazionale, persino più grave del tradimento della II Internazionale che aveva visto il passaggio della grande maggioranza dei partiti socialdemocratici nel campo delle rispettive borghesie.
 

Il contributo di Mao all'unità rivoluzionaria del proletariato
Il vile attacco contenuto nel famigerato "rapporto segreto" di Krusciov al cosiddetto "culto di Stalin", zeppo di frasi offensive e di squallide mistificazioni senza fondamento, è in realtà un criminale e generalizzato attacco all'intero marxismo-leninismo, alla dittatura del proletariato e al socialismo e rappresenta la capitolazione all'imperialismo e alla reazione mondiale; che non mancheranno di sfruttare questa insperata occasione per scatenare una campagna anticomunista senza precedenti fino a fomentare una controrivoluzione reazionaria e fascista in Ungheria nello stesso anno tramite il loro agente e manutengolo Nagy.
Con il XX e poi successivamente col XXI e il XXII congresso del PCUS, Krusciov e la sua banda di malfattori rimette in discussione tutti i principi del marxismo e del leninismo che erano stati alla base della III Internazionale e della conquista e della costruzione del socialismo in Unione Sovietica. Il partito del proletariato diventa "il partito di tutto il popolo", la dittatura del proletariato, lo "stato di tutto il popolo"; ammette la possibilità della conquista del socialismo per via pacifica e parlamentare, rigetta la teoria leninista sull'inevitabilità delle guerre di aggressione da parte dei paesi imperialisti sostituendola con la capitolarda "competizione pacifica" tra il socialismo e l'imperialismo. Tesi, nella sostanza non nuove, già avanzate dai capi opportunisti della socialdemocrazia contro cui Lenin aveva tanto combattuto.
Mao, istruito dalle molte lotte condotte all'interno del PCC contro le deviazioni sia di destra che di "sinistra" e dalla magistrale applicazione del marxismo-leninismo alla rivoluzione cinese, avverte immediatamente il grado di pericolosità del revisionismo kruscioviano e si impegna in Cina e all'interno dell'allora movimento comunista internazionale in una lotta intrepida per isolare il pugno di rinnegati, difendere la purezza dei principi rivoluzionari e salvare l'unità rivoluzionaria dei partiti della classe operaia.
A pochi mesi dal colpo di mano di Krusciov, Mao formula questo giudizio: "Vorrei dire qualcosa sul XX congresso del Partito comunista dell'Unione Sovietica. Secondo me ci sono due spade: una è Lenin, l'altra è Stalin. Adesso i russi hanno gettato via quella spada che è Stalin. L'hanno raccolta Gomulka e certi ungheresi per colpire l'Unione Sovietica, per combattere il cosiddetto stalinismo. I partiti comunisti di diversi paesi europei criticano anche loro l'Unione Sovietica. Il loro leader è Togliatti" . "Noi in Cina - continua Mao - non l'abbiamo gettata via. Noi in primo luogo abbiamo difeso Stalin e in secondo luogo abbiamo criticato i suoi errori, abbiamo scritto l'articolo Sull'esperienza storica della dittatura del proletariato". "Si può dire che alcuni dirigenti sovietici hanno in qualche misura gettato via anche quella spada che è Lenin? Secondo me - conclude - lo hanno fatto in misura notevole. La Rivoluzione d'Ottobre è ancora valida? Può costituire o no un modello per tutti i paesi? Nel rapporto di Krusciov al XX congresso del Partito comunista dell'Unione Sovietica si dice che si può conquistare il potere seguendo la via parlamentare ossia che i vari paesi possono fare a meno di prendere esempio dalla Rivoluzione d'Ottobre. Una volta aperta questa breccia sostanzialmente si è gettato via il leninismo" 13.
La banda kruscioviana si avvale di tutto il prestigio che sino a lì godeva l'Unione Sovietica socialista per imporre al movimento comunista internazionale il nuovo corso revisionista. Ciò nonostante, grazie soprattutto all'opera del PCC guidato da Mao, nelle conferenze dei partiti comunisti del 1957 e del 1960 che si svolgono a Mosca, il revisionismo moderno subisce due sonore sconfitte. Nelle risoluzioni conclusive si legge: "Il revisionismo moderno rispecchia l'ideologia borghese in teoria e in pratica, deforma il marxismo-leninismo, svigorisce la sua essenza rivoluzionaria, e pertanto paralizza lo spirito rivoluzionario della classe operaia, disarma e smobilita gli operai, le masse dei lavoratori, nella lotta contro l'oppressione degli imperialisti e degli sfruttatori, per il trionfo del socialismo"14. E ancora: "I partiti comunisti hanno unanimemente condannato la variante jugoslava dell'opportunismo internazionale, una variante delle 'teorie' revisionistiche moderne in forma concentrata. Dopo aver tradito il marxismo-leninismo ch'essi hanno chiamato antiquato, i dirigenti della Lega dei comunisti della Jugoslavia hanno opposto il loro programma revisionistico antileninista alla Dichiarazione del 1957; essi hanno posto la Lega dei comunisti della Jugoslavia contro il movimento comunista internazionale nella sua interezza"15. Questa denuncia viene fatta nel momento stesso in cui Krusciov, rovesciando un verdetto storico sancito al tempo di Stalin, tenta una riappacificazione con il rinnegato Tito e dà alla sua politica una patente socialista.
Ma ormai il processo di degenerazione nel PCUS e in molti partiti comunisti dell'Europa orientale e occidentale è andato troppo avanti e non è più possibile fermare il dilagare del revisionismo. Pur rimanendo successivamente in minoranza nel movimento comunista internazionale, Mao non si piega alle minacce e ai ricatti economici di Krusciov attuati col ritiro dei tecnici sovietici impiegati in numerosi progetti civili e produttivi in Cina e col taglio di ogni assistenza e rapporto finanziario e commerciale (cosa che poi avvenne) né indietreggia di un palmo di fronte alle minacce militari in questa battaglia intrapresa in difesa del socialismo.
Come aveva fatto prima Lenin, a Mao non rimaneva che denunciare pubblicamente e con forza la natura borghese del revisionismo, tracciare una netta linea di demarcazione e chiamare tutti gli autentici comunisti a dividersi dai partiti caduti nell'opportunismo e nel riformismo socialdemocratico e neoliberale e a formare nuovi partiti marxisti-leninisti fedeli alla Rivoluzione d'Ottobre, alla dittatura del proletariato, al materialismo storico e dialettico. "I revisionisti cancellano la differenza tra socialismo e capitalismo, tra dittatura del proletariato e quella della borghesia. Ciò che sostengono di fatto non è la linea socialista, ma quella capitalista" 16, dice Mao in una riunione di quadri sul lavoro di propaganda nel 1957. Per lui è chiaro che il revisionismo al potere voleva dire la borghesia al potere.
Accanto a questo ruolo svolto all'interno dell'allora movimento comunista e per la nascita dei nuovi partiti marxisti-leninisti in tutto il mondo, che lo porrà oggettivamente a capo del proletariato rivoluzionario internazionale, Mao si impegna a fondo nella analisi e nella ricerca teorica dei motivi che hanno portato alla restaurazione del capitalismo nei paesi socialisti e all'avvento del revisionismo moderno e sulle contraddizioni che esistono e si incontrano nella costruzione di una società socialista.
Sono infatti di quel periodo opere importantissime come ad esempio "Sui 10 grandi rapporti", "Sulla giusta soluzione delle contraddizioni in seno al popolo" e tante altre, che definiscono nei tratti essenziali una linea completa per la continuazione della rivoluzione nelle condizioni della dittatura del proletariato e che costituiranno la base, l'orientamento teorico e politico della Grande rivoluzione culturale proletaria da Mao lanciata e diretta per impedire la restaurazione capitalistica e revisionista in Cina, portare la rivoluzione anche nella sovrastruttura, consolidare e sviluppare la società socialista.
Studiando gli avvenimenti in Unione Sovietica, egli avvisa i suoi compagni e il proletariato cinese che "La società socialista abbraccia una fase storica assai lunga. In questa fase storica del socialismo, esistono ancora le classi, le contraddizioni di classe e la lotta di classe, esiste la lotta tra le due vie, il socialismo e il capitalismo. Dobbiamo riconoscere la natura prolungata e complessa di questa lotta, raddoppiare la nostra vigilanza e proseguire l'educazione socialista. Dobbiamo - aggiungeva - capire e risolvere in maniera corretta le contraddizioni di classe, la lotta di classe, distinguere le contraddizioni tra noi e il nemico da quelle in seno al popolo e trattarle in modo corretto. Altrimenti un paese socialista come il nostro si trasformerà nel suo opposto; degenererà e avrà luogo la restaurazione del capitalismo" 17.
E a proposito della Rivoluzione culturale, di questo avvenimento nuovo e senza precedenti nella storia del movimento operaio internazionale, che ha entusiasmato e lanciato nella lotta di classe la gioventù rivoluzionaria dei cinque continenti, afferma che: "La Grande rivoluzione culturale proletaria è, in fondo, una grande rivoluzione politica che il proletariato conduce nelle condizioni del socialismo, contro la borghesia e tutte le altre classi sfruttatrici, la continuazione della lunga lotta che oppone il partito comunista cinese e le larghe masse popolari rivoluzionarie che esso dirige, alla reazione del Guomindang, la continuazione della lotta di classe tra il proletariato e la borghesia" 18.
Opponendosi fermamente al revisionismo moderno, e chiamando a raccolta gli autentici comunisti per dar battaglia in difesa dei principi marxisti-leninisti, Mao ha dimostrato di essere un campione dell'unità rivoluzionaria del proletariato, elaborando la linea per la continuazione della rivoluzione nel socialismo, ha sviluppato il marxismo-leninismo a un nuovo stadio, e si è guadagnato l'appellativo di maestro del proletariato internazionale accanto agli immortali Marx, Engels, Lenin e Stalin. Il fatto che poi in Cina, purtroppo si sia ripetuto quello che era successo in Unione Sovietica, cioè ci sia stata una restaurazione capitalista da parte dell'omuncolo e vecchio rottame della socialdemocrazia Deng Xiaoping, non indebolisce l'analisi e la linea messa a punto da Mao e conferma che la lotta di classe è fatta di vittorie e di sconfitte e che la lotta contro il riformismo borghese e il revisionismo è lunga, non termina con la conquista del socialismo e finisce per durare fino al comunismo e alla scomparsa delle classi.
 

Il movimento operaio italiano non è riuscito a liberarsi dal riformismo e ora rischia di essere egemonizzato da Craxi
La lotta tra i rivoluzionari che si richiamano al marxismo-leninismo e i riformisti in seno al movimento operaio organizzato in Italia, esplode e si acuisce con lo scoppio della Rivoluzione d'Ottobre russa e ancor più quando Lenin dà battaglia contro gli opportunisti imborghesiti della II Internazionale e fonda l'Internazionale comunista. Nel Partito socialista italiano fondato nel 1892 , per colpa dei suoi dirigenti, il marxismo non aveva mai attecchito; la facevano da padroni correnti ideologiche quali l'anarco-sindacalismo e il riformismo di fonte liberale, ispirate dai vari Croce, Labriola, Salvemini, Turati, Bissolati, ecc..
Già Engels, riferendosi alla situazione italiana e rispondendo ad alcuni "dubbi" della Kulisciov e di Turati, nel 1893 , aveva detto: "Dal 1848 in poi, la tattica che ha portato i maggiori successi ai socialisti fu quella del Manifesto dei comunisti. I socialisti, nei vari stadi attraversati dalla lotta fra proletariato e borghesia, difendono sempre l'interesse del movimento generale ... : lottano bensì per raggiungere scopi immediati nell'interesse delle classi lavoratrici, ma nel moto presente rappresentano eziandio l'avvenire del movimento'. Essi pigliano dunque parte attiva in ciascuna delle fasi evolutive della lotta delle due classi, senza mai perder di vista che queste fasi non sono che altrettante tappe conducenti alla prima grande meta: la conquista del potere politico da parte del proletariato, come mezzo di riorganizzazione sociale. Il loro posto è fra i combattenti per ogni vantaggio immediato da ottenere nell'interesse della classe operaia: tutti questi vantaggi politici o sociali essi li accettano, ma solo come acconti (...) Questa tattica, che mai non perde di vista il gran fine, risparmia ai socialisti le disillusioni cui vanno soggetti infallibilmente gli altri partiti meno chiaroveggenti - sia repubblicani, sia socialisti sentimentali, che scambiano ciò che è una semplice tappa per il termine finale della marcia in avanti". E concludeva: "Applichiamo tutto questo all'Italia" 19 .
Gli insegnamenti di Marx ed Engels non furono accolti dai capi del Partito socialista italiano, il proletariato rimase così senza una guida rivoluzionaria, in occasione dello scoppio della 1ª guerra mondiale imperialista, nel corso delle grandi lotte operaie del 1919 e del 1920 e all'avvento di Mussolini e della dittatura fascista, per citare solo tre avvenimenti importanti.
Ci vuole l'intervento ripetuto di Lenin che con grande lucidità ed estrema efficacia più volte si interessa della "questione italiana", sono necessarie le sollecitazioni della III Internazionale, perché la lotta tra rivoluzionari (la frazione comunista) e riformisti progredisca fino alla storica scissione del 1921 a Livorno. Basti pensare al ''Discorso sulla questione italiana" pronunciato al 3° Congresso della Internazionale comunista (28 maggio 1921) dove Lenin svolge un'analisi precisa e puntuale della natura dei riformisti organizzati attorno al gruppo di Turati, bolla l'opportunismo dei "centristi" di Serrati che paradossalmente si definivano "terzinternazionalisti" e ripropone con forza e autorevolezza la estrema urgenza dei comunisti di ripulire le proprie fila e di organizzare un partito adatto ad affrontare la crisi rivoluzionaria che si prospettava vicina e a guidare il proletariato alla conquista del socialismo.
"Attualmente - scrive Lenin - la cosa più importante e assolutamente necessaria per la vittoria della rivoluzione in Italia è questa: che l'avanguardia effettiva del proletariato rivoluzionario italiano costituisca un partito completamente comunista, incapace di oscillare e dar prova di debolezza nel momento decisivo, un partito che riunisca in sé il massimo di entusiasmo, la dedizione della causa rivoluzionaria, un'energia, una fermezza e un'audacia illimitate" 20. Ecco "la particolarità del momento di transizione in cui si trova attualmente l'Italia, dove, per riconoscimento generale, si stanno avvicinando le battaglie decisive del proletariato contro la borghesia per la conquista del potere statale. In un momento simile non solo è assolutamente indispensabile allontanare dal partito i menscevichi, i riformisti, i turatiani, ma può essere utile allontanare da tutti i posti di responsabilità degli eccellenti comunisti, che potrebbero tentennare e che manifestano esitazioni nel senso dell'"unità' con i riformisti" 21.
Rivolgendosi al Partito socialista italiano, ribadisce un principio valido per tutti i paesi, e cioè che avendo nelle proprie file dei riformisti, soprattutto se hanno posti di direzione, non si può vincere la rivoluzione proletaria né si può difenderla e che per preparare la dittatura del proletariato occorre denunciare il carattere borghese di ogni riformismo e sostituire senza esitazioni i dirigenti riformisti dalla guida dei partiti comunisti.
"Il Partito socialista italiano - ribadisce Lenin - se vuol essere realmente per la III Internazionale, scacci con ignominia dalle sue file i signori Turati e consorti e diventi un partito comunista, non soltanto di nome, ma anche per le sue azioni" 22.
Le forti sollecitazioni di Lenin e lo sviluppo della lotta dei comunisti contro l'opportunismo e la degenerazione borghese dei capi della II Internazionale, pongono, dunque, con forza la questione della lotta tra rivoluzionari e riformisti all'interno del partito socialista, e ne accelerano il processo di sviluppo. In vista dell'imminente congresso nazionale, la frazione "concentrazione socialista", ossia i riformisti di Turati, Treves, Modigliani e D'Aragona, tengono a Reggio Emilia un convegno nell'ottobre del 1920 per mettere a punto una loro piattaforma. Nel novembre dello stesso anno, la frazione comunista tiene a sua volta una riunione a Imola per assumere e fare proprie le indicazioni della Internazionale comunista. C'è poi una terza e sostanziosa corrente, detta dei "massimalisti" o dei "centristi" capeggiata da Giacinto Serrati, che inneggia strumentalmente alla nuova Internazionale formatasi a Mosca, ma si oppone alla lotta e alla divisione tra comunisti e riformisti.
Al Congresso del '21 del Partito socialista italiano, la frazione comunista presenta e sottopone ai voti una mozione che chiede: la trasformazione del nome, da partito socialista a partito comunista, l'adesione all'Internazionale comunista sulla base dei 21 punti da essa stabiliti per farne parte, l'espulsione di coloro che avevano organizzato il succitato convegno di Reggio Emilia e l'allontanamento dai posti di direzione di coloro che non erano disposti a svolgere una lotta risoluta contro il riformismo. I rappresentanti di 58.000 comunisti votano a favore, quelli di 14.000 riformisti contro. I delegati dei 98 .000 della corrente centrista, invece di appoggiare la mozione gli votano contro. Da qui la scissione e la fondazione di un nuovo partito, il partito comunista d'Italia, un atto assolutamente inevitabile e necessario che viene compiuto lo stesso giorno. "Una scissione è cosa grave e dolorosa - diceva Lenin -. Ma qualche volta è necessaria, e in questi casi ogni debolezza, ogni 'sentimentalismo' (...) è un delitto" 23.
Si tratta di una decisione storica giusta, un avvenimento che rimarrà scritto a lettere d'oro nella storia del movimento operaio italiano. La scissione del '21, infatti, risponde alla necessità di ripulire le file del proletariato dai riformisti, ottenere una sua unità sul terreno rivoluzionario e creare un partito di " tipo nuovo" come dice Lenin adatto a dirigere la rivoluzione socialista e la dittatura del proletariato. Noi siamo d'accordo con Stalin quando afferma nei "Principi del leninismo" che "Quando la classe dirigente di un partito operaio viene meno alla propria funzione e tradisce, tocca alla classe operaia costruire il proprio partito capace di guidarla in modo rivoluzionario, nella lotta contro il proprio nemico di classe, per il socialismo" 24.
Nel manifesto ai lavoratori italiani, lanciato dal congresso di fondazione del partito comunista, e nello statuto approvato nella stessa sede, non vi è dubbio che si trovano riflesse le indicazioni di Lenin e della Internazionale comunista circa la lotta al riformismo, al parlamentarismo e al !egalitarismo borghese, la concezione della lotta di classe e del partito rivoluzionario, gli obiettivi della rivoluzione e della dittatura del proletariato. Dunque un salto di qualità ideologico, politico e organizzativo notevolissimo. Ma più formale che reale, in quanto i gruppi dirigenti che si sono susseguiti alla testa di questo partito, non si sono mai attestati sul marxismo​-leninismo, non lo hanno mai assunto a guida per l'azione, se non in modo deformato, come la pratica ha dimostrato in modo inequivocabile.
I primi anni del PCd'I, infatti, sono contrassegnati dalla direzione settaria, dogmatica, "ultrasinistra" e trotzkista di Bordiga, il quale, nonostante le precedenti autocritiche, rimane fondamentalmente legato all'anarchismo e ali'anarco-sindacalismo. In seguito, al III Congresso di Lione del 1926, quando Bordiga viene messo in minoranza (nel '29 sarà espulso dal partito), all'opportunismo "ultrasinistra" si sostituisce l'opportunismo di destra del gruppo capeggiato da Gramsci che aveva assunto la segreteria del Partito nel '24.
Gramsci, con la sua cervellotica ed enciclopedica elaborazione, che si ritrova principalmente nei "Quaderni dal carcere", si propone come il principale teorico del revisionismo in Italia e nell'Europa occidentale, particolarmente insidioso perché agisce all'interno dell'allora movimento comunista internazionale, e in modo più coperto rispetto ai capi della socialdemocrazia battuti da Lenin. Gramsci non è mai stato un marxista autentico, bensì un idealista, liberale borghese. I suoi punti di riferimento sono Benedetto Croce, Antonio Labriola, Salvemini, Pareto, Einaudi, Carlo Rosselli, con i quali polemizza su aspetti secondari, ma aderisce a parti sostanziali delle loro teorie. In particolare rispetto a Benedetto Croce, il principale filosofo idealista della borghesia liberale, Gramsci fornirà una variante di "sinistra" della sua elaborazione idealistica.
Egli scimmiotta il marxismo, ma in realtà tutto il suo impegno è indirizzato alla confutazione di parti importanti di esso e a dimostrare la sua "inapplicabilità" nelle democrazie occidentali. Da qui la revisione della teoria marxista circa il rapporto dialettico e di stretta dipendenza tra struttura e sovrastruttura della società, la deformazione della natura di classe dello Stato, la confusione e il capovolgimento del suo rapporto con la "società civile".
Nelle sue teorizzazioni, Gramsci immagina per il proletariato italiano una via al socialismo completamente diversa da quella della Rivoluzione d'Ottobre, ossia riformista, parlamentarista, legalitaria. Non si tratta di accumulare le forze e quando siano mature le condizioni oggettive, soggettive e organizzative scatenare l'insurrezione armata, che lui chiama "guerra di movimento", ma di attuare una "guerra di posizione o di assedio" per la conquista della "robusta catena di fortezze e casematte", ossia le strutture dominanti della macchina statale borghese. Da svolgere però, attenzione, sul terreno del pacifismo, parlamentarismo e !egalitarismo, giacché prevede un itinerario all'interno delle istituzioni e la raccolta del consenso della maggioranza, e del gradualismo riformista in quanto queste "casematte" sono da conquistarsi una dopo l'altra.
Per Gramsci quello che conta non è la lotta di classe intesa come lotta antagonista e totale tra proletariato e borghesia, ma la lotta delle idee e della "ragione" dalla quale passa l'avanzamento della strategia da lui delineata. L'assunto è che il proletariato si potrà affermare come classe dirigente solo dopo aver strappato alla borghesia la "direzione intellettuale e morale" della società. All'interno di questa impostazione, niente di strano quindi se nel partito e nella politica delle alleanze il ruolo di guida e di forza motrice principale è dato non alla classe operaia ma agli intellettuali, ossia alla piccola e media borghesia.
Certo, il punto di partenza e il tragitto culturale e di elaborazione teorica di Gramsci è diverso dai vecchi capi della socialdemocrazia Bernstein, Kautzky, e Turati per l'Italia, ma il punto di approdo è lo stesso: antimarxista, riformista, borghese.
Togliatti, questo opportunista e doppiogiochista di prima grandezza, che quando ricopriva un posto di responsabilità nella III Internazionale mentre inneggiava a Stalin tramava e trafficava per rinnegare i principi marxisti-leninisti, appena torna in Italia nel '44, pesca a piene mani nella elaborazione di Gramsci, ne rivaluta la figura, fino allora praticamente ignorata dalla maggioranza del partito, al vertice e alla base, e dalla famosa "svolta di Salerno" costruisce la strategia della "via italiana al socialismo", di tipo riformista, pacifista, parlamentarista e costituzionale.
"La via italiana al socialismo - dirà Berlinguer in un discorso del '78 a Genova - la ricerca di una via originale aderente a tutte le pieghe della realtà nazionale, comincia per noi da lontano: dalle ricerche dell'ordine nuovo, dalla formazione del nuovo gruppo dirigente intorno a Gramsci e Togliatti che portò alle tesi di Lione del 1926, dalla drammatica, lucida e geniale riflessione di Gramsci nel carcere, dalla politica di unità nazionale inaugurata, con alta visione di rivoluzionario e di statista, da Togliatti a Salerno"25.
A partire dalla "svolta di Salerno", e poi successivamente all'VIII e al X Congresso del PCI, non a caso dopo la morte di Stalin e il XX Congresso del PCUS, Togliatti aggiunge alle idee appena abbozzate di Gramsci una corposa e articolata strategia politica. Nel rapporto di Krusciov, Togliatti legge ''l'affermazione della possibilità di evitare la guerra in conseguenza delle modificazioni stesse della struttura del mondo, il riconoscimento delle possibilità di una avanzata verso il socialismo che escluda la violenza insurrezionale e si compra nell'ambito della legalità democratica, utilizzando anche gli istituti parlamentari"26.
Con la cosiddetta "destalinizzazione", l'abbattimento della dittatura del proletariato e la restaurazione capitalistica in Urss, Togliatti si sente coperto e autorizzato ad andare fino in fondo nella sua marcia socialdemocratica di integrazione del partito comunista e della classe operaia nel sistema capitalistico e nella democrazia borghese. A conti fatti, si può dire che già da quegli anni Togliatti e il gruppo dirigente del PCI ha tagliato, a livello ideologico, i ponti col marxismo, la Rivoluzione d'Ottobre e la dittatura del proletariato. Anche se, va detto, che questo processo di deideologizzazione, decomunistizzazione e socialdemocratizzazione sarà in qualche modo frenato dall'asprezza delle campagne reazionarie e anticomuniste che seguiranno a livello internazionale contro l'Urss e all'interno del Paese con i governi democristiani e la repressione di Scelba.
Togliatti in una sessione plenaria del CC del PCI del '56 fa questa significativa affermazione: "Prima Marx ed Engels e in seguito Lenin, nello sviluppare questo tema (della dittatura del proletariato) affermano che l'apparato dello Stato borghese non può servire per costruire una società socialista. Questo apparato deve essere dalla classe operaia spezzato e distrutto, sostituito dall'apparato dello Stato proletario, cioè dallo Stato diretto dalla classe operaia stessa. Questa non era la posizione originaria di Marx ed Engels: fu la posizione - continua - cui essi giunsero dopo la esperienza della Comune di Parigi e fu particolarmente sviluppata da Lenin. Questa posizione - si domanda Togliatti - rimane pienamente valida oggi? Quando noi, infatti, affermiamo che è possibile una via più avanzata verso il socialismo non solo sul terreno democratico, ma anche utilizzando le forme parlamentari, è evidente - confessa - che correggiamo qualche cosa in questa posizione"27.
Nel documento programmatico approvato all'VIII Congresso del PCI, Togliatti definisce i capisaldi teorici della via italiana riformista e pacifica. In esso si legge che: "I comunisti hanno sempre sottolineato che nella lotta per il socialismo la questione decisiva è la questione del potere politico, perché non è possibile la costruzione di una società socialista se il potere politico non viene tolto ai gruppi dirigenti del capitalismo monopolistico e non passa alla classe operaia. Lo sviluppo delle lotte politiche aveva però già dimostrato, nel periodo tra le due guerre, che potevano presentarsi situazioni nuove e diverse da quella che era stata davanti al proletariato russo nel 1917, e poteva quindi porsi e venire risolto in modo diverso il problema del potere...”28.
Per i revisionisti togliattiani, la realizzazione del disegno scritto nella Costituzione repubblicana diventa "l'alfa e l'omega" di tutta l'azione del proletariato italiano, perché, a loro dire, la nostra Costituzione avrebbe il potere di rimuovere tutti gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la "libertà e l'uguaglianza dei cittadini" e impediscono l'effettiva partecipazione dei lavoratori alla vita politica, economica e sociale dello Stato. E perché, essa, attraverso le "riforme di struttura" permetterebbe il superamento dello Stato borghese e il raggiungimento per via pacifica del socialismo.
Nel documento programmatico del PCI si legge ancora che "Il regime parlamentare, il rispetto del principio della maggioranza liberamente espressa, il metodo definito dalla Costituzione per assicurare che le maggioranze si formino in modo libero e democratico sono non soltanto compatibili con l'attuazione di profonde riforme sociali e con la costruzione di una società socialista, ma agevolano e assicurano, nelle condizioni di oggi, la conquista della maggioranza da parte dei partiti della classe operaia"29.
Per accedere al governo borghese, sin da allora il gruppo dirigente revisionista ha il problema di dimostrare alla classe dominante la sua buona fede riformista. Il PCI "non concepisce la Costituzione repubblicana come un espediente per utilizzare gli strumenti della democrazia borghese' fino al momento dell'insurrezione armata per la conquista dello Stato e per la sua trasformazione in uno Stato socialista ma come un patto ... posto a base dello sviluppo organico della vita nazionale". "Il rispetto, la difesa, l'applicazione integrale della Costituzione repubblicana è il cardine di tutto il programma politico del Partito"30. L'opera di Togliatti sarà proseguita dai suoi successori nella segreteria del PCI, Longo e in misura molto maggiore da Enrico Berlinguer, tenuto conto anche che la sua direzione dura ben 15 anni dal '69 all'84 e copre un periodo importante della vita politica italiana e internazionale. La gestione berlingueriana porta a compimento la politica di distacco e di autonomia dall'Urss, in ciò favorita anche dall'invasione socialimperialista dell'Afghanistan. Nel '68 c'era stata quella della Cecoslovacchia che aveva creato non pochi problemi nei rapporti tra il PCUS e il PCI. E contestualmente sviluppa il processo d'integrazione nell'occidente capitalistico. Famosi in questo senso i due slogan: "mi sento più sicuro sotto l'ombrello atomico della Nato" e "la spinta propulsiva della rivoluzione d'Ottobre si è definitivamente esaurita".
Berlinguer è anche colui che si fa promotore dell"'eurocomunismo", incontra più volte il segretario del PCF Marchais e l'ex segretario del PCE Carrillo, ma per varie ragioni l'esperimento fallisce miseramente. Più fortuna incontra, invece, con le socialdemocrazie europee, specie con quella tedesca di Brandt e svedese di Palme, con le quali intreccerà solidi rapporti.
Nel solco teorico di Gramsci e Togliatti, Berlinguer rilancia la "via italiana al socialismo" o come la chiamava lui la "terza via", la ricerca, come è stata presentata allora, di un "percorso originale" che non sia né l'esperienza dell'Unione Sovietica né quella della vecchia socialdemocrazia della II Internazionale. La lotta per il socialismo rimane per Berlinguer un processo gradualistico e riformista attraverso l'inserimento di "elementi di socialismo" nella società capitalistica, che sono una variante delle "riforme di struttura", da realizzarsi comunque nell'ambito della Costituzione repubblicana, del pluralismo economico e politico e della difesa di quei valori liberali di cui si è fatta portatrice la rivoluzione borghese. Il che comporta l'accettazione dell'economia di mercato, del profitto capitalistico e il mantenimento della macchina statale e delle istituzioni rappresentative borghesi. Da qui l'affermazione della democrazia come "valore universale", ossia al di sopra delle classi e della lotta di classe.
Il vero significato della "terza via" e dove Berlinguer voleva andare a parare con questa teorizzazione, lo svela Occhetto in una intervista all'Unità del 5 luglio '87 . Occhetto anzi, dovendo sbarazzarsi delle ambiguità che per ragioni tattiche permanevano in Berlinguer, porta il discorso fino in fondo. "Io ritengo molto fossilizzata - dice - l'ipotesi di una pura ricerca di 'terza via'. È un abito stretto, anchilosante. Confesso che non mi ci ritrovo... pur avendo condiviso questa affermazione nel momento in cui fu enunciata da Enrico Berlinguer. Allora essa aveva una forte carica di distinzione rispetto al modello sovietico, apriva la strada a una elaborazione autonoma che non fosse una sorta di andata a Canossa dei comunisti italiani. (. .. ) In altre parole, una premessa metodologica per continuare in modo originale una propria ricerca. Ormai, però, - aggiunge Occhetto - i dati della realtà rendono del tutto superata l'idea di un luogo geometrico intermedio tra altri due punti che sarebbero la rivoluzione e il riformismo. Direi che oggi la coppia opposizionale riformismo-rivoluzione è una coppia vecchia, ottocentesca. È un anacronismo ritenere che oggi siamo ancora di fronte a un dibattito importante, intenso, che - a cavallo del nostro secolo - ha segnato le sorti non solo del movimento operaio, ma poi dell'Europa, la stessa cultura mondiale. Io non a caso, - continua - parlo esplicitamente della necessità di andare oltre, di trovare una ricomposizione della sinistra oltre l'orizzonte del sopravvento di una tradizione sull'altra. Perché è puro ideologismo, sia le vecchie impostazioni rivoluzionarie, sia il riformismo classico, che si sorreggevano reciprocamente (…Quindi, a mio avviso, ciò che stiamo ricercando noi non è la 'terza via'. Noi cerchiamo la via... la via di una sinistra europea. Non è vero neppure che noi stiamo cercando semplicemente l"identità comunista'. Il problema, anche nostro, è quello della identità, della funzione della sinistra"31.
Occhetto, dunque, accantona e supera a destra la "terza via", pone l'obiettivo di una ricomposizione-riunificazione dei vari tronconi della "sinistra europea" , attraverso un rinnovamento, quasi una rifondazione, ma su quali basi? e per quale società? Riformista e capitalista, diciamo noi. Avverte anzitutto che la lotta tra rivoluzione e riformismo è un anacronismo ottocentesco e poi tuttavia finisce per sposare proprio il riformismo. Occhetto non è sincero e vende molto fumo per confondere gli operai e gli stessi iscritti del suo partito.
Ma terminiamo il discorso su Berlinguer, prima di approfondire questi temi. Berlinguer è anche l' uomo della ricerca a ogni costo di uno sbocco governativo alla strategia del PCI. Per passare il "guado" teorizza il "partito di lotta e di governo", dichiara superata la tesi togliattiana del raggiungimento del 51% dei voti per accedere nella "stanza dei bottoni" , e quindi lancia in tempi ravvicinati, con un eclettismo incredibile, prima il "compromesso storico" e poi "l'alternativa democratica", che rappresenta la linea su cui è attestato l' attuale gruppo dirigente di Natta e Occhetto.
Utilizzando le forti spinte e i benefici provenienti dalle grandi lotte operaie e studentesche del '68 è '69, in virtù delle avanzate elettorali dal 1975 e 1976, il PCI entra per la prima volta dal dopoguerra (se si eccettua la breve parentesi che va dal giugno '45 al maggio '47 nei governi Parri e De Gasperi), nell'area governativa e partecipa dall'esterno ai governi di "solidarietà nazionale". Finisce per fare da sgabello e da copertura alla politica antipopolare della Democrazia Cristiana, e per evitare un tracollo elettorale, che poi avverrà lo stesso nel '79, e un dissanguamento degli iscritti è costretto in fretta e furia a disimpegnarsi dal governo Andreotti, a fare una correzione di strategia e a lanciare, appunto, l'"alternativa democratica".
La parabola revisionista e il processo di socialdemocratizzazione hanno una forte accelerazione si completano con la segreteria di Natta e la vicesegreteria Occhetto. Le sconfitte elettorali del '79 e dell'85 scottano, la politica del governo pentapartito del neoduce Craxi e la perdita delle "giunte rosse" in quasi tutte le città più importanti dell'Italia, aumentano le preoccupazioni e le frenesie del gruppo dirigente del PCI per la riapertura di spazi parlamentari e governativi, lo spingono più a destra, verso la completa identificazione e degenerazione in partito riformista e occidentale, pronto a partecipare e gestire il governo, come e alla pari degli altri partiti borghesi. Nel 17 ° congresso il PCI attua una vera e propria rifondazione e si delinea come "moderno partito riformatore", "parte integrante della sinistra europea", ossia della socialdemocrazia riformista, dalla quale i comunisti di tutto il mondo si erano divisi nel 1919. "Ci siamo proposti - afferma Natta nella relazione - il compito di aprire una nuova fase della nostra politica e di promuovere il rinnovamento ideale, programmatico, organizzativo del nostro partito". Sono eliminati i residui di quelli che Natta chiama "l'idealismo dogmatico della tradizione terzinternazionalista" ed effettuate " con nettezza le cesure che erano necessarie"32 nella storia del PCI. Per dare prova di questa trasformazione del PCI, a chi ancora nel campo della borghesia è dubbioso, Natta risponde così: "Ci si invita a liberarsi da ogni forma di massimalismo, da ogni sorta di filosofia della storia che ritenga in essa implicito il fine socialista di cui parliamo. Ma questa liberazione - dice Natta - l'abbiamo compiuta da gran tempo"33.
E siamo ai nostri giorni, alla pesante sconfitta elettorale alle politiche del 14 giugno 1987, alle successive riunioni del comitato centrale del PCI e alla contrastata elezione di Occhetto alla vicesegreteria. Nel documento del CC del PMLI sui risultati elettorali tra l'altro si legge: "che l"alternativa democratica', poiché non riesce a convincere nemmeno l'elettorato operaio e giovanile più avanzato e combattivo, è destinata a disintegrarsi o ad essere gestita da Craxi". E ancora: "Il PCI è quindi di fronte a un bivio: o seguire il suo elettorato di sinistra buttandosi nella lotta di classe, oppure percorrere fino in fondo la via della collaborazione di classe e della ricerca spasmodica di un posto nel governo borghese al servizio di Craxi, salvo colpi di scena e virate improvvise-verso la DC"34.
È evidente a tutti, a questo punto, che la strada scelta da tutto il gruppo dirigente, al di là di differenziazioni tattiche dettate dalla lotta di potere tra le varie correnti, è la seconda, in quanto tutti i leader, da Occhetto a Napolitano, da Ingrao a Cossutta, hanno riconfermato la validità della strategia riformista e neoliberale sancita nel 17° Congresso. Nessun ritorno indietro, nessuna modifica, come la base operaia e popolare del PCI aveva auspicato nell'infuocato dibattito seguito ai risultati elettorali, ma piena conferma di questa strategia.
Nel commentare i risultati della riunione del CC del PCI di fine luglio, Natta nell'editoriale de "l'Unità" del 2 agosto scrive: "il voto, l'Italia che esso rivela, i problemi che pone al nostro partito non solo non contraddicono, ma confermano e avvalorano la scelta portata a maturazione dal Congresso di Firenze.
Non dobbiamo orientare la bussola in una direzione diversa da quella tracciata un anno fa - aggiunge Natta -. Il colpo che abbiamo subito non è dovuto al fatto che ci siamo proposti di essere un moderno partito riformatore"35.
Come si ricorderà, i commenti a "botta calda" dei risultati elettorali rilasciati da alti esponenti del PCI erano del tipo: non siamo più il partito che coagula "il voto di protesta", "il colpo è a sinistra... non siamo riusciti a coprire un'area di malessere e protesta sociale", il che poteva far supporre ipoteticamente un indurimento della politica di opposizione del PCI. Poi questa analisi è cambiata, Natta ha incominciato a dire che la perdita di voti andava in diverse direzioni, anche verso il PSI, per arrivare a concludere che "un certo riequilibrio di forze a sinistra c'è stato, e ciò potrebbe favorire anche soluzioni diverse dal pentapartito"36. Riferendosi a una pregiudiziale posta più volte da Craxi di un riequilibrio di forza elettorale tra i due partiti per potere fare qualsiasi discorso di collaborazione governativa.
La elezione di Achille Occhetto a vicesegretario del PCI, non è in contraddizione con tutto ciò, come qualcuno frettolosamente e superficialmente poteva credere.
Non si deve dimenticare che Occhetto è il massimo artefice, il padre putativo della linea del 17° congresso, in quanto coordinatore del gruppo incaricato della stesura delle tesi precongressuali e responsabile della commissione politica per la stesura del documento finale del congresso. Lo stesso Occhetto si è preoccupato di tranquillizzare la destra del PCI capeggiata da Napolitano che gli aveva votato contro, e il PSI di Craxi, con l'intervento fatto al momento della nomina e con interviste e dichiarazioni successive, circa la strategia che egli intende seguire oggi e nel futuro.
È accaduto, anzi, un fatto curioso. Riguardo all'interpretazione da dare alla "terza via" e all'"alternativa democratica", al rapporto del PCI col PSI e alla collocazione del partito revisionista come "parte integrante della sinistra europea", abbiamo visto Occhetto sostenere e spiegare questa strategia da posizioni e con argomenti fino a ora avanzati dalla corrente di destra del PCI di Napolitano e di Lama.
In questo senso abbiamo già citato l'intervista del 5 luglio all'"Unità". Possiamo aggiungere il "faccia a faccia" con Martelli il cui resoconto è stato pubblicato il 12 luglio '87 dall'“Espresso". Colpisce qui il tono amichevole, mieloso, usato dai due vice e la identità di vedute sulla politica e le prospettive dei rispettivi partiti. Tanto da far esclamare all'intervistatore: mai voi "sembrate quasi dello stesso partito"! Martelli, per "pensare a una prospettiva comune" pone al PCI un problema di identità in senso riformista e il superamento della filosofia dello statalismo "che è stata comune sia ai socialdemocratici che ai comunisti"37. Gli risponde Occhetto dicendosi d'accordo: "Oggi noi abbiamo una sola nuova frontiera: ridefinire tutti i rapporti pubblici e tutti i rapporti privati, l'economia e il diritto, fuori dalla tradizione statalista comune sia alla Seconda che alla Terza Internazionale. E farlo insieme, tutta la sinistra"38. Martelli invita il PCI: "Dobbiamo andare oltre le colonne d'Ercole della socialdemocrazia nordica, in direzione di un socialismo liberale", il che "vuol dire - aggiunge - porsi l'obiettivo di un unico partito democratico, partito del progresso, del popolo, delle riforme"39. Occhetto gli risponde che "nella campagna elettorale io avevo detto che bisognava lavorare per una casa più grande della sinistra italiana. Partito democratico? Il nome lo si troverà: ma la sostanza è la stessa". Introdurre "elementi di liberalismo - aggiunge - nei processi di socializzazione. Questo è lo scenario che ha di fronte la sinistra. E per affrontarlo non si può che andare oltre le esperienze già fatte, gettare l'anima oltre la siepe"40.
La questione del superamento della scissione del '21 e di una riunificazione ideologica, politica e organizzativa del PCI e del PSI è emersa più volte nel dibattito in questi ultimi quarant'anni, se ne è incominciato a parlare al tempo di Nenni e Togliatti, quando a livello elettorale i due partiti presentavano le liste comuni del "fronte popolare". Ma il quadro dei rapporti internazionali caratterizzati dalla "guerra fredda" scatenata dagli Usa contro l'Urss di Stalin, e le condizioni ideologiche e politiche non erano maturi. Allora questa unificazione sarebbe avvenuta sotto l'egemonia del PCI.
Per impedire questo sbocco, la destra del partito socialista, capeggiata da Saragat e ispirata e foraggiata dall'imperialismo americano e dalla reazione interna, provocò nel 1947 una scissione passata alla storia come "scissione di Palazzo Barberini", dove appunto fu consumata.
Ma i tempi sono cambiati, quelle condizioni che mancavano allora stanno maturando velocemente e la questione di una riunificazione sul terreno del riformismo e della socialdemocrazia occidentale, non solo del PCI e del PSI, ma anche del PSDI e altri, è tornata all'ordine del giorno in modo assai più concreto e operativo. Per questo progetto, di riunificazione di tutta la sinistra parlamentare sotto la sua egemonia, il neoduce Craxi ha lavorato si può dire da quando col golpe del Midas conquistò la segreteria del PSI e accantonò De Martino, e oggi è vicino a raccoglierne i frutti. "Sul quadrante della storia - afferma Craxi in un'intervista alla "Stampa" del 31 maggio '87 - l'ora della ricomposizione del movimento socialista è scoccata da un pezzo. (...) Come non mi sono rassegnato all'idea che al partito socialista spettasse nella politica italiana solo un ruolo subalterno, così non mi sono rassegnato all'idea che il movimento socialista in Italia e la sinistra nel suo complesso debbano restare ancorati alle divisioni che si produssero nel primo dopoguerra e che via via, si sono riprodotte in vari periodi ed in forme diverse, sino ai nostri giorni"41.
Ad ogni appuntamento politico importante, Craxi non perde occasione per ripetere questo concetto: "L'idea di fondo che noi abbiamo è che si debba riuscire a tracciare per l'avvenire un terreno che deve essere socialista, riformista, democratico, europeo e occidentale che deve valere per tutti o per gran parte delle forze di progresso e delle forze di sinistra del nostro paese. A questa idea noi non rinunciamo perché lo riteniamo un capitale storico del partito socialista: riportare nell'alveo originale il movimento socialista e la sinistra italiana"42.
Questa offensiva di Craxi si è fatta particolarmente forte negli ultimi due anni, non a caso in contemporanea col 17° congresso del PCI. Ha utilizzato tutte le scadenze di rilievo politico che si prestavano per rendere sempre più esplicito questo disegno e per cadenzarne tempi e modi di realizzazione: l'anniversario dei fatti d'Ungheria, per chiedere a Natta la revisione del giudizio dato nel '56 e la riabilitazione del rinnegato e controrivoluzionario Nagy; il congresso del PSDI e il 40° della "scissione di Palazzo Barberini", per riconoscere a Saragat "le sue ragioni" e sottolineare che i motivi di quella scissione sono superati e che "nulla più giustificherebbe la divisione mentre tutto esige l'unità"43 ; infine il 44° congresso del PSI e i commenti sui risultati delle elezioni politiche di giugno che come è noto hanno segnato una pesante sconfitta del PCI e un rafforzamento elettorale del PSI.
Le attenzioni principali di Craxi, più che al PSDI di Nicolazzi, il cui scioglimento nelle file del PSI appare un fatto molto probabile, sono rivolte al PCI, che incalza in tutti i modi perché porti fino in fondo la sua revisione ideologica, riveda interamente la sua storia, dichiari superata la scissione del '21, si modelli come partito riformista e occidentale. "Intravedo un futuro della sinistra italiana nella prospettiva socialista e riformista, democratica e occidentale. A chi me lo chiede - ribadisce Craxi - rispondo che solo così sarà possibile superare le divisioni all'interno della sinistra italiana. Non esiste - secondo lui - un futuro comunista, ma la prospettiva è quella da me indicata. Il PCI giunge a dire: siamo noi i veri socialdemocratici. Bene rispondo io, adottino allora le insegne e il patrimonio della socialdemocrazia"44.
Come si è visto, il vertice del PCI non è affatto insensibile a queste sollecitazioni, anzi. Nelle sue aspirazioni c'è persino quella di aderire all'Internazionale socialista. Ma per essere accettati dalla SPD tedesca, dal Labour Party inglese e dai socialisti spagnoli, occorre il benestare del PSI, cioè - di Bettino Craxi. Nel libro "Intervista sul mio partito", il destro e crumiro Lama afferma che "sulla porta d'ingresso di quella casa c'è una targa con su scritto: 'Partito socialista italiano'. Non possiamo essere parte integrante della sinistra europea senza esserlo della sinistra italiana, ed essere riconosciuti come tali dal resto della sinistra italiana"45. E aggiunge, "indipendentemente dalla nostra disponibilità, il problema del nostro eventuale ingresso nell'Internazionale è bloccato su questo punto, dei nostri rapporti col PSI"46.
 

Le scelte che si impongono oggi alla classe operaia italiana
Ora che il vertice del PCI ha rigettato ogni residuo di marxismo-leninismo, ripudiato la Rivoluzione d'Ottobre e ogni aspetto della sua storia che in qualche modo lo legava alle tradizioni della III Internazionale; ora che ha completato la trasformazione riformista e neoliberale e che ideologicamente si è ricongiunto alla vecchia socialdemocrazia (almeno sul piano ideologico), si fa sempre più strada il pericolo che il movimento operaio cada sotto l'influenza e l'egemonia di Craxi.
Sarebbe una grave sciagura per la classe operaia e le masse lavoratrici. È vero che costui lavora per scalzare la Democrazia cristiana dal centro del potere nel parlamento, nel governo e nello Stato, non certo però per far posto alla classe operaia e alle masse popolari ma per dare via libera alla politica e alle ambizioni della borghesia golpista e imperialista con mire egemoniche e di dominio nel Mediterraneo.
Per darsi una copertura ideologica e per riunire sotto la sua personale direzione tutti i riformisti, Craxi agita la bandiera del socialismo liberale dei fratelli Rosselli che non ha niente a che fare col socialismo autentico e la dittatura del proletariato. A lui si adattano bene queste parole di Mao: "Guardate Hitler non dichiarava di essere 'fedele al socialismo'? Venti anni fa anche Mussolini era un 'socialista'. Ma in fondo cosa era il loro socialismo? Non era che fascismo" 47.
Di tutto ciò occorre prendere urgentemente e fino in fondo coscienza per impedire che passi impunemente il disegno della socialdemocrazia e di Craxi e le masse lavoratrici e le nuove generazioni vengano spinte e rinchiuse nel pantano del riformismo, del pacifismo, del parlamentarismo e del !egalitarismo.
È giunto il momento di interrogarsi su quello che sta avvenendo nel movimento operaio italiano e di aprire un approfondito e ampio dibattito e un serio confronto fra tutti coloro che credono ancora nel socialismo senza alcun pregiudizio e al di là delle rispettive collocazioni partitiche.
Ma soprattutto questa è l'ora delle grandi scelte storiche sul tipo di quelle compiute da Lenin nel '19, da Mao nel '56 e dai comunisti italiani nel '21. Ancora una volta si tratta di separarsi e di discriminarsi nettamente dai riformisti e dai revisionisti per difendere i propri interessi di classe, per riunire la classe operaia sulla via dell'Ottobre, per disarcionare dal potere la borghesia e per spingere in avanti la ruota della storia.
La prima grande scelta che si impone oggi alla classe operaia e ai rivoluzionari è ideologica. Si tratta di scegliere tra il liberalismo e il marxismo-leninismo-pensiero di Mao. Sono queste due filosofie, due scuole di pensiero, due concezioni del mondo diverse, antagoniste, inconciliabili.' Il liberalismo è l'ideologia della borghesia che affonda le sue radici nell'idealismo e nell'individualismo, e che si sostanzia a livello economico e politico nella proprietà privata dei mezzi di produzione, nello sfruttamento dell'uomo sull'uomo e nel dominio di una minoranza di sfruttatori sulla maggioranza del popolo sfruttato.
Il liberalismo, soppiantando l'ideologia feudale, ha svolto un ruolo progressivo e rivoluzionario, ma oggi, nell'era del proletariato e del socialismo, rappresenta la conservazione e la reazione.
Al liberalismo, pur con varie interpretazioni ma senza differenze sostanziali e strategiche, fanno parimenti riferimento esponenti ufficiali della borghesia, sedicenti socialisti e comunisti al potere e non. Tutti uniti intorno ai dogmi del capitalismo: l'economia di mercato, la proprietà privata, il parlamentarismo, la democrazia borghese.
Il liberalismo è anche la giustificazione ideologica dell'imperialismo, della conquista dei mercati e delle zone d'influenza all'estero, dello sfruttamento dei popoli oppressi e della guerra di invasione.
E nel nome del liberalismo che attualmente le due superpotenze, gli Usa e l'Urss, e altre potenze imperialiste europee come la Francia e l'Inghilterra, alle quali ora si è accodata malauguratamente l'Italia, pattugliano con le loro navi militari il Golfo Persico con funzioni di polizia e di provocazione nei confronti dell'Iran mettendo a repentaglio la pace mondiale.
Il liberalismo perciò non riflette sotto alcun aspetto gli interessi delle masse operaie e lavoratrici. Non a caso in lotta e in contrapposizione ad esso è nato e si è sviluppato il marxismo-leninismo-pensiero di Mao che rappresenta l'ideologia del proletariato.
Il marxismo-leninismo-pensiero di Mao, indipendentemente da alcuni rovesci subiti e dalle difficoltà contingenti, quantunque sia stato distorto, calunniato, diffamato e infangato dalla borghesia e dai suoi servi, non ha perso per niente la sua forza dirompente. Ogni volta infatti che è stato impugnato con forza dalle larghe masse ha sempre riportato in ogni luogo del mondo delle vittorie smaglianti sulla borghesia, sull'imperialismo e sulla socialdemocrazia.
Altro che superato! Esso rappresenta il futuro, la teoria rivoluzionaria del 2000. Il marxismo-leninismo-pensiero di Mao, oltre ad essere la filosofia più progredita che la storia umana conosca, è allo stesso tempo la scienza della rivoluzione della classe operaia e di tutte le masse sfruttate e oppresse. Perché fornisce gli strumenti per conoscere la realtà economica e politica, indica come organizzarsi e sviluppare vittoriosamente la lotta di classe, come definire una strategia rivoluzionaria per abbattere il capitalismo e realizzare la nuova società socialista.
L'esperienza storica internazionale e nazionale ha ampiamente dimostrato che senza abbracciare e assimilare il marxismo-leninismo-pensiero di Mao, senza questa guida per l'azione, non è possibile liberarsi dalle catene dello sfruttamento e lottare per un nuovo mondo.
La seconda grande scelta è politica, riguarda il tipo di società che si vuol costruire: il capitalismo o il socialismo? Il capitalismo, è esperienza comune, è la società modellata sulla base degli interessi economici, politici, sociali e culturali della borghesia. Tutto nel capitalismo è in mano a un pugno di sfruttatori: il capitale, i mezzi di produzione, la terra, le ricchezze del suolo e del sottosuolo, lo Stato, la cultura. Per le masse lavoratrici e popolari non c'è altro che sfruttamento, miseria, oppressione, disoccupazione. Percepiscono solo una piccola parte della ricchezza che producono e non hanno nessuna voce in capitolo negli affari dello Stato e del governo del Paese.
Nell'“Italia che cambia e che cresce" di questi anni si è assistito ad un arricchimento e un lusso sfrenati dei capitalisti e della classe borghese, mentre ci sono 10 milioni di persone che vivono in condizioni di estrema indigenza, 3 milioni, quasi tutti giovani, sono disoccupati, il Mezzogiorno è più povero e abbandonato, salari e pensioni sono ridotti all'osso.
E guardate cosa è accaduto nella Valtellina! Una tragedia che ha sconvolto una zona intera, costretto 26.000 persone a lasciare le proprie case. Mentre il Paese intero versa in un grave dissesto idrogeologico per responsabilità del governo, delle istituzioni e dei capitalisti.
Ecco perché il capitalismo, comunque abbellito e riformato non potrà essere mai la società ideale del proletariato. Tanto più nell'attuale contingenza politica che vede lo sfascio e il fallimento della Prima Repubblica e la caduta delle istituzioni rappresentative nello squallore e nel discredito generale. Tutti i partiti parlamentari, chi più chi meno, propongono riforme istituzionali, costituzionali, elettorali. Vogliono andare verso una seconda repubblica che assicuri stabilità e governabilità al sistema e così fare più "forte" l'ordinamento statale capitalistico. Anche le proposte dell"'alternativa democratica" di Natta e l"'alternativa di sinistra" di Democrazia proletaria si muovono in questo ambito.
Noi marxisti-leninisti invece affermiamo: né con la Prima né con la seconda repubblica ma lotta per il socialismo. Via il capitalismo, via la borghesia, tutto il potere alla classe operaia, questa è la nostra parola d'ordine strategica. Di fronte alla presente crisi istituzionale l'unica posizione di sinistra è quella dell'opposizione di classe al capitalismo e al suo governo.
Checché ne dicano le classi reazionarie, il socialismo è l'avvenire della classe operaia e dei lavoratori italiani. Il socialismo è la società in cui è possibile sopprimere lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo; sostituire all'individualismo e alla proprietà privata, il collettivismo e la proprietà collettiva socialista; eliminare i fenomeni sociali propri del capitalismo quali ad esempio la disoccupazione, le disuguaglianze tra Nord e Sud e tra città e campagna, le disparità tra uomo e donna, l'emarginazione, la droga e l'alcolismo, la mafia, lo sfascio ambientale; nonché sostituire le istituzioni rappresentative borghesi di tipo parlamentare con una nuova organizzazione statale basata sull'autogoverno in cui i lavoratori si amministrino da sé e insieme amministrino gli affari economici e politici dello Stato socialista nel quadro della dittatura del proletariato. E su questa base avanzare verso il comunismo. "Il comunismo - rileva Mao - è il sistema completo dell'ideologia proletaria e, nello stesso tempo, un nuovo sistema sociale. Differisce da ogni altra ideologia e da ogni altro sistema sociale, è il più completo, il più progressista, il più rivoluzionario, il più razionale di tutta la storia dell'umanità" 48.
Perché, dunque, l'operaio, il lavoratore in genere, il disoccupato, le masse del Mezzogiorno, il giovane e la donna e l'anziano del popolo si dovrebbero rassegnare a vivere nel capitalismo?
La terza grande scelta è organizzativa. Ossia in quale partito militare. Quanti sono orientati verso il riformismo, il liberalismo e il capitalismo, non hanno alcun problema. Possono scegliere fra l'ampio ventaglio di partiti del palazzo che va dal PLI alla DC e da DP al PSI e al PCI. Ma chi. invece aspira al socialismo deve ricercare un partito rivoluzionario.
Con le elezioni politiche di giugno il famoso "zoccolo duro" ha cominciato a sgretolarsi. Nelle grandi città industriali in particolare ha preso il via un processo di emancipazione di strati di operai dalla dipendenza del PCI, dall'elettoralismo e dal parlamentarismo.
Ma dove andranno queste vitali forze? Rientreranno dalla finestra del palazzo attraverso DP o i Verdi - raggruppamenti che sono pronti a vendersi al migliore offerente in cambio di una leggina o di un posticino nel governo -, oppure si coaguleranno attorno a Ingrao o a Cossutta? C'è del resto l'ipotesi che quest'ultimo costituisca "un altro partito comunista"49 qualora si riunifichino il PCI e il PSI. Ma Cossutta non è credibile, non ha le carte in regola, e bleffa, tenuto conto che non è d'accordo né con Stalin e Mao, né con la rivoluzione socialista e la dittatura del proletariato, ha approvato nel complesso le tesi del 17° Congresso e votato pure la elezione di Occhetto a vicesegretario del partito.
Non c'è bisogno di creare un altro partito, esso c'è già, è il Partito marxista-leninista italiano pronto ad accogliere nelle sue file i comunisti di base che non si riconoscono più nel PCI, e anche tutti gli operai e i rivoluzionari che non hanno rinunciato alla lotta per il socialismo.
Il PMLI è nato per soddisfare l'esigenza storica e insopprimibile della classe operaia di avere il suo partito politico che la guidi alla conquista del potere e alla realizzazione della dittatura del proletariato. Esso è l'espressione più matura e avanzata di tutta l'esperienza del movimento operaio italiano organizzato. Non è un'appendice del PSI e del PCI ma qualcosa di nuovo e differente per fondamento teorico, linea politica, struttura organizzativa e stile di lavoro.
Nei primi capitoli del Programma e dello Statuto è messo in evidenza che il PMLI è il Partito della classe operaia, la classe che rappresenta la forza motrice principale e dirigente della rivoluzione socialista italiana; esso basa tutta la sua strategia e tattica sulla teoria rivoluzionaria del marxismo-leninismo-pensiero di Mao; la ragione storica e della stessa esistenza del PMLI è quella di guidare di tappa in tappa il proletariato e i suoi alleati nella rivoluzione socialista e nella costruzione del socialismo. Tenendo ben fermi questi punti di riferimento è stata elaborata una linea ideologica, politica e di massa per il socialismo senza precedenti storici nel nostro Paese, e, nel 3° Congresso nazionale del PMLI, è stato delineato nei tratti essenziali il disegno generale della futura società socialista che noi vogliamo realizzare in Italia.
Solo attraverso il rafforzamento organizzativo del PMLI e il suo sviluppo su scala nazionale è possibile ridurre gradualmente e attraverso prolungati sforzi lo spazio che la socialdemocrazia e il riformismo hanno occupato nella classe operaia e rico​minciare pazientemente di nuovo l'opera di ricostruzione dell'unità rivoluzionaria della stessa classe.
Solo così è possibile creare una nuova e più avanzata situazione politica in Italia e dare una svolta rivoluzionaria alla lotta di classe.
È quindi interesse degli operai avanzati, degli sfruttati del Sud coscienti, delle donne, dei giovani e degli intellettuali rivoluzionari, unire le loro forze nel PMLI per sviluppare su tutti i piani la guerra contro il capitalismo, per far mordere la polvere al governo reazionario, interventista e antioperaio Goria ostaggio di Craxi, per sventare i piani della seconda repubblica, per combattere la politica imperialistica ed egemonica dell'Italia nel Mediterraneo, per combattere le battaglie quotidiane per il lavoro, i salari, le pensioni, la giustizia sociale, la casa, l'ambiente, per creare tutte le condizioni per la lotta per il socialismo.
Ci rendiamo perfettamente conto che a causa della forte influenza che la socialdemocrazia e il riformismo esercitano anche sulla parte più avanzata del proletariato e delle masse non è facile dare una risposta positiva e sollecita alle tre grandi scelte da noi auspicate. Eppure bisogna avere il coraggio di farle, poiché sono le scelte che oggi impone la lotta di classe, e si possono fare facilmente se ci atteniamo alla esortazione di Mao di "lasciarsi infiammare dalle grandi e sublimi aspirazioni proletarie, osare aprire sentieri nuovi inesplorati e scalare vette mai raggiunte" 50.
 

 
NOTE
1 Lenin, Marxismo e revisionismo, (aprile 1908)
2 Marx e Engels, Circolare a A. Bebel, W. Liesknicht, W. Bracke ed altri, (17-18 settembre 1879)
3 Lettera di K. Marx a Giuseppe Weydemeyer, (5 marzo 1852)
4 Lettera di F. Engels a Marx, (23 ottobre 1846)
5 Engels, Lettera a Bebel, (28 ottobre 1882)
6 Lenin, Che fare, (autunno 1901-febbraio 1902)
7 Lenin, cit. in "Conclusioni affrettate", pubblicato in Prosveshcheniye n. 5, (maggio 1914)
8 Lenin, La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautzky, (ottobre 1918)
9 Lenin, Ibidem
10 Lenin, II Congresso dell'Internazionale Comunista, Rapporto sulla situazione internazionale e i compiti fondamentali dell'Internazionale comunista, (19 luglio 1920)
11 Lenin, Le elezioni all'Assemblea costituente e la dittatura del proletariato, (16 dicembre 1919)
12 Lenin, Ibidem
13 Mao, Discorso alla II Sessione dell'VIII CC del PCC, (15 novembre 1956)
14 Mao, Citato nell'articolo "Le divergenze tra il compagno Togliatti e noi"
15 Mao, Ibidem
16 Mao, Discorso alla Conferenza nazionale del Partito comunista sul lavoro di propaganda, (12 marzo 1957)
17 Mao, X Sessione plenaria delPVIII CC del PCC, (settembre 1962)
18 Mao, Citato nell'articolo "Un faro per la grande rivoluzione culturale proletaria", Quotidiano del Popolo, (23 maggio 1966)
19 Lettera di Engels a Turati, (26 gennaio 1894)
20 Lenin, "A proposito della lotta in seno al partito socialista italiano", (4 novembre 1920)
21 Ibidem
22 Lenin, "Estremismo, malattia infantile del comunismo", Op. complete, vol. XXV
23 Lenin, Il Congresso dei socialisti italiani, (15 luglio 1912), Opere complete, vol. 18, p. 161
24 Stalin, Principi del leninismo, (aprile 1924)
25 E. Berlinguer, Discorso tenuto a Genova, (settembre 1978)
26 P. Togliatti, Rapporto all'VIII Congresso del PCI, (dicembre 1956)
27 P. Togliatti, Discorso alla Sessione plenaria del CC del PCI, (giugno 1956)
28 "Elementi per una Dichiarazione programmatica del Partito Comunista Italiano" approvati all'VIII Congresso del PCI
29 Ibidem
30 Ibidem
31 A. .Occhetto, Intervista all'Unità" del 5 luglio 1987
32 A. Natta, Rapporto al 17° Congresso del PCI, Firenze 9 aprile 1986
33 Ibidem
34 Documento del CC del PMLI, 16 giugno 1987, "L'astensionismo resiste"
35 A. Natta, articolo su "l'Unità" del 2 agosto 1987
36 A. Natta, citazione de "l'Unità" del 16 giugno 1987
37 Intervista a A. Occhetto e a C. Martelli nel "faccia a faccia" dell'Espresso" del 12 luglio 1987
38 Ibidem
39 Ibidem
40 Ibidem
41 B. Craxi, Intervista alla "Stampa" del 31 maggio 1987
42 B. Craxi, Conferenza stampa presso l'associazione della stampa estera, 4 giugno 1987
43 B. Craxi, Relazione al 44° Congresso del PSI, Rimini 31 marzo 1987
44 B. Craxi, Intervista a "Canale 5", 9 giugno 1987
45 L. Lama, "Intervista sul mio partito", "Laterza" maggio 1987
46 Ibidem
47 Mao, "L'orientamento del movimento giovanile", 4 maggio 1939
48 Mao, Sulla nuova democrazia, gennaio 1940
49 A. Cossutta, articolo apparso sulla "Stampa" dell'8 luglio 1987
50 Mao, cit. nel 1966

28 aprile 2021