In base alla ingiusta legge sui “collaboratori di giustizia”
Vergognosa scarcerazione del boss mafioso Brusca
Riceverà anche uno stipendio e la casa

 
Il 31 maggio scorso il sanguinario mafioso e stragista "pentito" Giovanni Brusca ha lasciato il carcere di Rebibbia ed è praticamente libero, anche se ancora per altri 4 anni almeno formalmente sarà in regime di libertà vigilata, come stabilito dalla Corte d'Appello di Milano.
Una clamorosa vergogna frutto della ingiusta e controversa legge sui cosiddetti "collaboratori di giustizia" e su presunti "benefici" ottenuti dallo Stato in altri processi grazie alle dichiarazioni dello stesso Brusca, le quali negli anni, nonostante le pesanti condanne gli hanno progressivamente evitato prima il regime carcerario del 41-bis, poi l'ergastolo per reati di mafia, arrivando a concedergli tutta una serie di benefici fino alla riduzione della pena a 30 anni, i quali, considerato il fatto che stiamo parlando di una vera belva sanguinaria oltre che uno dei massimi vertici di Cosa Nostra, sono davvero troppo pochi.
Ne ha scontati di fatto meno di 25 ed è uscito con il premio ulteriore di 45 giorni anticipati per "buona condotta".
Giovanni Brusca, detto u verru (il porco) e lo scannacristiani per la sua ferocia, nato a San Giuseppe Jato, il 20 febbraio 1957, è stato capo del mandamento di San Giuseppe Jato ed esponente di spicco dei Corleonesi, è stato condannato per oltre un centinaio di omicidi, tra cui quello del piccolo Giuseppe Di Matteo (figlio del "pentito" Santino Di Matteo) rapito, strangolato e sciolto nell'acido e per la strage di Capaci del 1992, in cui morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre agenti di scorta, nella quale Brusca ricoprì un ruolo fondamentale, anche operativo, fu proprio lui l'uomo che materialmente spinse il tasto del radiocomando a distanza che fece esplodere la bomba al tritolo di 500 kg piazzata in un canale di scolo sotto l'autostrada.
Condannato anche per la strage di Via d'Amelio, in cui morì il giudice Paolo Borsellino, è tuttora rinviato a giudizio nell'ambito del processo sulla trattativa Stato-Mafia della Procura di Palermo, iniziato nel 2013 per "concorso esterno in associazione mafiosa" e"violenza o minaccia a corpo politico dello Stato".
Una carriera criminale e sanguinaria all'ombra del padre Bernando Brusca e poi vicinissimo allo stesso Totò Riina fin da giovanissimo, tanto che fu proprio Riina il suo padrino nel rito di affiliazione a Cosa Nostra, la cosiddetta "punciuta", diventandone un fedelissimo e sanguinario esecutore nei primi anni 90, ai tempi delle già citate stragi di Capaci e Via d'Amelio e i fatti di Firenze, Milano e Roma del 1993, che causarono decine di morti e feriti, voluti da Riina per ammorbidire la condotta dello stato verso i vertici mafiosi e per far rispettare alcuni patti evidentemente disattesi, secondo i mafiosi, da parte di giudici corrotti e di politicanti borghesi vari.
Latitante dal 1991 è considerato tra i mafiosi più pericolosi del mondo quando viene arrestato nel 1996.
Impossibile ricostruire esattamente la scia di sangue che ha lasciato dietro di sé, come ammette egli stesso: «Ho ucciso Giovanni Falcone. Ma non era la prima volta: avevo già adoperato l'auto bomba per uccidere il giudice Rocco Chinnici e gli uomini della sua scorta. Sono responsabile del sequestro e della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, che aveva tredici anni quando fu rapito e quindici quando fu ammazzato. Ho commesso e ordinato personalmente oltre centocinquanta delitti. Ancora oggi non riesco a ricordare tutti, uno per uno, i nomi di quelli che ho ucciso. Molti più di cento, di sicuro meno di duecento. » . . “Sono un animale, ho lavorato per tutta la vita per Cosa nostra…”.
Una volta arrestato, fra mille contraddizioni e giravolte inizia a collaborare con la giustizia, anche se, come capita a molti mafiosi (su tutti si pensi al defunto camorrista Raffaele Cutolo) riusciva dal carcere a gestire i suoi business, come dimostrano le accuse ricevute nel 2010 di riciclaggio, di intestazione fittizia di beni e di tentata estorsione, che portarono alla confisca a Brusca di una parte del suo patrimonio.
L'8 agosto 2015 i giudici della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo dispongono il sequestro di beni intestati ai prestanome del "pentito" ma a lui finanziariamente riconducibili, in maniera talmente palese che in una missiva lo stesso Brusca scrive di: “aver omesso spudoratamente di riferire di quei beni ai giudici”.
Persino l’ex giudice Silvana Saguto, condannata a otto anni a seguito dell’inchiesta per la gestione dei beni confiscati alla mafia, ex presidente delle Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, ha affermato, nelle intercettazioni diffuse dalla stampa nel 2019, di essere a conoscenza degli intestatari dei beni gestiti da Brusca a Piana degli Albanesi, come numerose "villette e supermercati", sostenendo che fosse "una vergogna che Brusca c'abbia mezza Piana"e oggi aggiunge: “Nelle sue dichiarazioni ha parlato solo dei suoi nemici. Non ha mai messo a disposizione i suoi beni. Una persona indegna, e ora viene liberato"
Francamente, non si riesce a capire come sia possibile che un individuo simile venga scarcerato con di fatto 4 anni di anticipo rispetto alla fine della pena di 30 anni di reclusione, consideriamo assai discutibili i "benefici" avuti dallo Stato borghese in chiave antimafiosa da parte dello stesso Brusca e se da un lato capiamo benissimo che può essere utile sul piano giudiziario servirsi di collaboratori ex appartenenti a famiglie criminali per indebolire le cosche incriminate stesse, consideriamo questa legge sui "pentiti" assai ingiusta complessivamente e dispensatrice di inaccettabili privilegi, basti pensare che ora lo stesso Brusca percepirà stipendio, casa e protezione insieme ai suoi familiari, anche perché una simile politica giudiziaria può avere un senso quando viene utilizzata nei confronti dei cosiddetti "pesci piccoli" delle mafie per colpire quelli più grossi, ma non può essere usata con i vertici stessi delle organizzazioni, come lo stesso Brusca, indipendentemente dal valore giudiziario delle rivelazioni effettuate.
Non solo, ma sono tanti i casi in cui le dichiarazioni dei cosiddetti "pentiti" si sono rivelate false e truffaldine, fatte apposta per sviare l'attenzione su altre questioni e coprire personaggi e trame di ogni tipo.
Le mafie riescono persino a depistare e mandare in carcere persone innocenti al posto dei veri colpevoli in cambio di denaro o in seguito alle minacce, per cui consideriamo scandaloso lo zelante legalitarismo di alcuni settori della "sinistra" borghese che sia pur rammaricati, cercano di stemperare la sacrosanta indignazione popolare sostenendo che in fondo sia giusto che Brusca sia oggi a piede libero, perché tutte le vicende riguardanti il pentitismo, e la sua in particolare, avrebbero "avvantaggiato lo Stato" nella lotta alle mafie.
Mentre capiamo perfettamente la rabbia di alcuni parenti delle vittime innocenti dello stragismo mafioso di Brusca che non sono disposte al perdono e che giustamente considerano vergognosa la vicenda.
Capiamo fin troppo bene poi l'attacco frontale ad alcune leggi antimafiose da parte dei fascisti del nuovo millennio come Salvini, fatte per rendere ancora più morbida la condotta dello Stato borghese nei confronti delle centrali direttive e di comando delle mafie, i famosi "colletti bianchi", mentre vorrebbero inasprire le pene per la piccola criminalità oltre che restringere ulteriormente gli spazi di democrazia borghese, lo sgomento dell'opinione pubblica nei confronti della liberazione di Brusca è, per questi delinquenti, una ghiotta occasione per andare ancora più a destra nella legislazione e nella politica giudiziaria antimafiosa, come se non bastasse la sottomissione della marcia magistratura borghese al governo secondo i piani della P2.
Al limite del corporativismo la difesa della condotta delle procure interessate da parte di molti magistrati, che strumentalizzano anche lo stesso Falcone, ispiratore della legge sui "pentiti" N 45 del 2001 per giustificare la scarcerazione di Brusca, ai quali sembra rivolgersi la stessa sorella del giudice Maria Falcone: “Voglio dire a tutti i nostri parlamentari e a tutte le forze politiche, molte delle quali votarono la legge sui pentiti voluta da mio fratello, che oggi hanno l’occasione per dimostrare che la lotta alla mafia resta una priorità del Paese e che possono, al di là delle parole, attraverso una normativa giusta, evitare scarcerazioni e permessi ai boss che mai hanno interrotto il loro legame con l’associazione mafiosa”(...) “Concedere dei benefici a chi neppure ha dato un contributo alla giustizia sarebbe inammissibile e determinerebbe una reazione della società civile ancora più forte di quella causata dalla liberazione, purtroppo inevitabile, del “macellaio” di Capaci”.
Fra l'altro il parlamento nero dovrà legiferare dopo la sentenza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale il cosiddetto "ergastolo ostativo", che faceva parte delle misure antimafia immaginate dal magistrato ucciso a Capaci.
Noi marxisti-leninisti abbiamo sempre sostenuto e continueremo a farlo, le indagini antimafia portate avanti dalla magistratura, ma non ci facciamo alcuna illusione al riguardo, visto il marciume della stessa magistratura e della totale compenetrazione tra mafie e Stato borghese, tanto che spesso non si capisce dove inizino le prime e finisca il secondo e viceversa.
Ma aldilà delle vicende giudiziarie, dell'ingiusta legislazione sui "pentiti", del marciume della magistratura borghese, delle vomitevoli dichiarazioni di esponenti della destra e della "sinistra" borghese, due facce della stessa medaglia borghese , neofascista e filomafiosa, quello che ci preme sottolineare, come abbiamo ribadito con forza nel 5° Congresso nazionale del PMLI, tenuto nel Dicembre del 2008, è che le mafie sono un prodotto della società capitalista, sono la parte più reazionaria e sanguinaria della borghesia italiana, la loro testa si trova nell'alta finanza, nei circoli dell'industria, dell'agricoltura, del terziario e nelle istituzioni.
Cioè dentro la classe dominante borghese, lo Stato borghese e l'economia capitalistica, quindi la lotta alla borghesia criminale rientra nella lotta di classe tra il proletariato e la borghesia, tra il socialismo e il capitalismo, tra il marxismo-leninismo-pensiero di Mao e il riformismo, il revisionismo e il neorevisionismo.
Tuttavia è necessario che tutti gli antimafiosi si uniscano in un vasto Fronte unito, che può essere articolato nelle regioni e nelle città, deve avere un carattere di massa e nazionale e deve comprendere tutte le forze politiche, sindacali, sociali, culturali, religiose democratiche che realmente intendono liberare il Mezzogiorno e l'intero Paese dalla criminalità organizzata.
Il PMLI è disponibile a formare questo vasto Fronte unito, sulla base di una piattaforma politica comune e su un piano di uguaglianza nei diritti e nei doveri, il quale consentirà di riportare delle importanti vittorie sulla criminalità organizzata.
Occorre tuttavia, a nostro avviso, essere coscienti che la criminalità organizzata non è un corpo estraneo allo Stato e all'economia borghesi, e perciò essa potrà essere estirpata completamente e definitivamente solo abbattendo lo Stato borghese e instaurando il socialismo.

9 giugno 2021