Elezioni comunali parziali e regionali in Calabria del 3-4 ottobre 2021
Vittoria dell’astensionismo
Delegittimati i partiti e i nuovi governi locali del regime capitalista neofascista
Il 45,3% diserta le urne. Record dell’astensionismo a Torino, Milano, Roma, Napoli e Trieste. I nuovi governanti eletti da una minoranza dell’elettorato. Il “centro-sinistra” batte il “centro-destra”. Flop della Lega. Disfatta del M5S. I partiti a sinistra del PD tengono intrappolati nell’elettoralismo parte importante dell’elettorato di sinistra. Letta eletto deputato col 16,7%
Lavoriamo per qualificare in senso rivoluzionario l’astensionismo e perché si apra una grande discussione sul futuro dell’Italia
Quasi un elettore su due non si è recato alle urne per le elezioni comunali parziali che si sono tenute il 3 e 4 ottobre scorso. In Calabria, l’unica regione dove si tenevano le consultazioni regionali, l’astensionismo vola al 58,1%.
È una grandissima vittoria per l’astensionismo e una grande sconfitta per i partiti e i nuovi governi locali del regime capitalista neofascista che escono dalla competizione con le ossa rotta e completamente delegittimati.
Qualche commentatore, assieme a qualche politicante borghese, accennano al fenomeno ormai non più ignorabile dell’astensionismo, ma poi sorvolano perché dovrebbero ammettere che è il fallimento pieno del parlamentarismo e dell’elettoralismo borghesi e la testimonianza clamorosa del baratro che divide le elettrici e gli elettori dalle istituzioni rappresentative borghesi, i suoi governi e i suoi partiti.
Erano chiamati alle urne 1.192 comuni (1.153 nelle regioni a statuto ordinario e 38 nella regione a statuto speciale Friuli Venezia Giulia) per un totale di 12 milioni e 147 mila elettori. Di questi comuni la stragrande maggioranza circa il 90%, sono comuni con una popolazione inferiore ai 15 mila abitanti. Fra i restanti vi sono ben 6 comuni capoluogo di regione (Torino, Milano, Trieste, Bologna, Roma, Napoli), che da soli rappresentano circa il 40% degli elettori coinvolti, e altri 13 comuni capoluogo (Novara, Varese, Pordenone, Savona, Ravenna, Rimini, Grosseto, Latina, Isernia, Benevento, Caserta, Salerno e Cosenza).
In contemporanea si è votato di nuovo per le elezioni regionali in Calabria poiché la presidente eletta nel febbraio 2020, Jole Santelli, era deceduta il 15 ottobre dello stesso anno. Nonché per le elezioni suppletive della Camera nella XII circoscrizione Toscana (collegio uninominale 12 – Siena) e nella circoscrizione XV Lazio 1 (Collegio uninominale 11 – Roma – Quartiere Primavalle).
Erano elezioni attese, temute, volute da parte dei vari partiti del regime capitalista neofascista. Erano infatti il primo appuntamento elettorale significativo dopo la caduta del governo Conte bis e la nascita del governo del banchiere massone Draghi che ha imbarcato quasi tutti i partiti presenti in parlamento a parte Fratelli d’Italia della Meloni. Era il primo banco di prova per il “nuovo corso” del Movimento 5 stelle guidato da Conte e Grillo soprattutto nei test di Torino e Roma, nonché per il test di valore nazionale dell’alleanza col PD a Napoli. Così come si aspettava al varco la nuova segreteria PD di Letta, peraltro candidato alle suppletive di Siena, per quanto riguarda il “centro-sinistra” o, stando alle dinamiche interne alla destra, l’annunciato probabile sorpasso della Meloni su Salvini. Insomma, non sono state elezioni ordinarie e infatti, nonostante la competizione locale, sono scesi in campo e si sono spesi in prima persona tutti i leader nazionali e qualcuno azzardava addirittura che l’esito di queste consultazioni potevano anche ipotecare il futuro del governo.
Ciò però non è bastato a convincere la metà dell’elettorato a recarsi alle urne, ossia circa 6 milioni di elettori su 12, circa 800-900 mila disertori in più rispetto al 2016.
L’astensionismo
A livello nazionale considerando tutti i comuni nelle regioni a statuto ordinario il 45,3% degli elettori ha disertato le urne. 6,9% in più rispetto alle precedenti elezioni comunali (in genere svoltesi nel 2016) quando aveva disertato le urne il 38% degli elettori. Si calcola che in dieci anni dal 2011 ad oggi, nelle elezioni comunali la diserzione sia cresciuta del 15,4% passando dal 29,9 al 45,3%. Più marcatamente al Nord (+16,6%), che aveva storicamente sempre registrato delle alte percentuali di partecipazione alle urne, un po’ meno al Sud d’Italia (+14,5%)
Stando alle ultime tornate elettorali, è infatti il Nord che trascina l’avanzata della diserzione recuperando completamente il precedente scarto con il Mezzogiorno. In Piemonte e Lombardia la diserzione sfiora il 50%, rispettivamente al 48,9% e al 48,6%. Oltre il 50% va la diserzione in Friuli Venezia-Giulia. Nel Lazio è al 47,5% e in Emilia-Romagna al 45,2%.
Sono soprattutto le grandi città che registrano un vero e proprio record della diserzione. A Milano, Torino, Roma, Napoli e Trieste supera il tetto del 50%, e non da meno Bologna che si attesta appena al di sotto col 48,8%.
Il balzo della diserzione rispetto alle precedenti comunali in queste città è veramente impressionante. A Torino l’incremento è del 9,1%, a Milano del 7,0%, a Bologna dell’8,5%, a Roma dell’8,2%, a Napoli del 6,9%.
Questo spiega anche il fatto che al Sud le percentuali della diserzione, in assenza di grandi città coinvolte a parte Napoli, risulti complessivamente più bassa che al Nord. Fermo restando che il voto di preferenza previsto nelle elezioni comunali e la costellazione di liste che fioriscono in occasione delle elezioni comunali al Sud porta di riflesso a un coinvolgimento più personale e familiare degli elettori con i candidati e a un loro maggiore controllo da parte di questi sui singoli elettori.
Secondo uno studio dell’Istituto Cattaneo quest’anno si è verificato un vero tracollo della partecipazione alle urne nelle grandi città. Hanno infatti rilevato che nelle città con una popolazione superiore ai 350 mila abitanti la diserzione si è attestata al 51,6%, mentre nelle città dai fra i 350 mila e i 50 mila abitanti, fra 50 mila e 15 mila abitanti e infine sotto i 15 mila abitanti, le percentuali sono rispettivamente del 41,8%, 40,8% e 39,7%. Fra le città più grandi e quelle più piccole c’è uno scarto di quasi 12 punti percentuali.
Per completare il quadro dell’astensionismo di questa tornata elettorale riportiamo anche il dato delle regionali calabresi che saranno oggetto di un prossimo articolo, dove la diserzione si attesta a una percentuale già altissima del 55,6% con un minimo calo dello 0,1%. Peraltro nel 2020 le elezioni in Calabria si svolgevano in un solo giorno e non in due come quest’anno. Comunque, se prendiamo l’astensionismo totale (diserzione dalle urne, scheda nulla e lasciata in bianco) l’astensionismo oltre ad essere di gran lunga il primo “partito” col 58,1% degli elettori registra anche un +1% rispetto al 2016.
Per quanto riguarda le elezioni suppletive, nel collegio uninominale di Siena ha disertato le urne ben il 64,4% degli elettori, cioè quasi due elettori su tre (+42,9% rispetto alle elezioni omologhe del 2018). Nel collegio uninominale di Roma ha invece disertato le urne il 55,4%. Nel 2018 era meno del 30%.
Record dell’astensione nelle periferie urbane
Nel successo della diserzione nelle grandi città ha giocato un ruolo fondamentale l’elettorato delle periferie, quell’elettorato un tempo fortemente egemonizzato dal PCI revisionista e dai suoi eredi e che poi hanno fatto la fortuna del M5S per esempio a Torino e a Roma permettendo l’elezione della Appendino e della Raggi o del boom alle politiche 2018, o di Luigi De Magistris che venne eletto sindaco a Napoli anche senza i voti del PD.
Il dato è particolarmente evidente a Roma, Torino e Napoli. A Roma dove la diserzione s’è attestata in media al 51,2%, vi sono evidenti differenze fra il centro e la periferia. Al Municipio II (da San Lorenzo ai Parioli) il dato più basso del 43,3% di diserzione, mentre al Municipio VI, periferia che comprende anche Tor Bella Monaca, la diserzione vola al 57,1%. Sopra la media cittadina anche la diserzione a Ostia, Portuense, Magliana, Primavalle e altre periferie.
A Torino, dove in media ha disertato le urne il 51,9% degli elettori, si scopre invece che nella circoscrizione 1 (Centro e Crocetta) diserta le urne il 48,5%, mentre nella circoscrizione 5 e 6 (Barriera di Milano, Rebandendo) la diserzione si impenna rispettivamente al 56,6% e al 57,4%. Una crescita evidentemente dovuta all’arretramento sia del M5S sia del “centro-sinistra” il cui candidato viene peraltro battuto da quello del “centro-destra”.
A Napoli stesso copione. Qui ha disertato le urne il 52,8%, ma nella più centrale e benestante municipalità 5 del Vomero e dell’Arenella diserta il 45,5%, mentre nella municipalità 7, quella delle periferie di Miano e Secondigliano, diserta ben il 57,4% degli aventi diritto.
Evidentemente la povertà, la disoccupazione e l’abbandono che sono una realtà cronica e crescente delle periferie urbane specie nelle grandi città, accompagnate all’esperienza diretta dei governi che avevano illuso su un presunto cambiamento e addirittura “rivoluzione” nella vita politica e sociale delle città, hanno spinto la gran parte dell’elettorato di questi territori a prendere le distanze dalle elezioni, dai sindaci e dai governi locali e dai partiti del regime capitalista neofascista.
Inutile dire che un astensionismo di queste dimensioni, delegittima in partenza i partiti, e i nuovi sindaci e governi locali del regime capitalista.
Tutti i nuovi sindaci sono dati eletti solo da una minoranza dell’elettorato. Anche quelli che apparentemente hanno superato il 50% dei voti validi e sono stati così eletti al primo turno. Se invece si rapportano come sarebbe opportuno e corretto i voti ottenuti all’intero corpo elettorale degli aventi diritto, nessuno dei nove sindaci dei comuni capoluogo eletti già al primo turno arriva nemmeno al 40% dei voti dell’elettorato. Si va dal sindaco di destra riconfermato a Novara, Alessandro Canelli che ottiene il 35,8% degli elettori, a Beppe Sala, riconfermato sindaco di Milano che si deve accontentare appena del 27%.
Di questi nove sindaci, sei sono delle riconferme, ossia i sindaci di destra di Pordenone, Novara e Grosseto e quelli di “centro-sinistra” di Milano, Bologna, Ravenna e Salerno. Quasi tutti, a parte Vincenzo Napoli a Salerno, guadagnano qualche migliaia di voti rispetto alla volta precedente, ma non si tratta di un vero e proprio plebiscito. Anche perché le percentuali sono calcolate sui soli voti validi che si sono ridotti drasticamente rispetto al 2016. Ma anche perché i nuovi voti acquisiti sono spesso il frutto di spostamenti trasversali fra destra e “centro-sinistra”, dovuti non di rado a motivi di opportunismo che spingono settori specie della borghesia medio-alta a salire sul carro dei vincitori, cioè di quelli che hanno materialmente gestito il potere in quelle città, specie se affidabili e collaborativi sul piano borghese. Basti pensare che le liste che sostenevano Beppe Sala nel 2016 erano 5 e quest’anno erano già 8. Secondo alcuni dati sui flussi elettorali, sembra che addirittura quasi il 16% degli elettori che avevano votato il candidato della destra nel 2016 abbiano quest’anno scelto di votare per la riconferma di Sala. A Salerno, Vincenzo Napoli era sostenuto da 6 liste nel 2016, oggi sono ben 9. Per inciso anche a Napoli Gaetano Manfredi oltre alla sua lista, al PD e al M5S era sostenuto da altre 10 liste.
Il “centro-sinistra” batte il “centro-destra”
Questa tornata elettorale se la porta comunque a casa il “centro-sinistra” che ha battuto il “centro-destra” soprattutto nelle grandi città capoluogo. Su nove sindaci già eletti al primo turno sei vanno al “centro-sinistra” con o senza il M5S (Milano, Bologna, Ravenna, Rimini, Napoli, Salerno) e tre al “centro-destra” (Pordenone, Novara e Grosseto).
Per gli altri dieci si deciderà invece ai ballottaggi del 17 e del 18 ottobre. In nessuno di questi concorre il Movimento 5 stelle. Se la vedranno in ogni città fra “centro-sinistra” e “centro-destra”, ivi compreso a Benevento dove concorre il solito ex democristiano e sindaco uscente Clemente Mastella, con l’appoggio anche di Forza Italia, contro il “centro-sinistra”.
Il “centro-sinistra” è per ora in testa al ballottaggio a Torino, Varese, Savona e Caserta”. Il “centro-destra” è in testa a Trieste, Latina, Roma, Isernia, Benevento e Cosenza. Ma i risultati sono tutt’altro che scontati. Certo è che se il “centro-sinistra” riuscirà a portarsi a casa anche Torino e Roma, la sconfitta per il “centro-destra” sarebbe particolarmente pesante.
Il successo del “centro-sinistra” è dovuto a più fattori: il crollo verticale del M5S che sembra aver esaurito tutta la sua spinta iniziale, consumato anche dall’aver svelato il proprio vero volto nelle esperienze governative prima con Salvini, poi col PD e Renzi e ora con Draghi; il fatto che la destra non è comunque riuscita complessivamente a “sfondare” come sperava rispetto alle ultime performance elettorali che l’avevano vista in ascesa, a causa del lento ma inesauribile processo di esaurimento di Forza Italia di Berlusconi, nonché delle contraddizioni interne allo stesso schieramento e degli stessi partiti che lo compongono a cominciare dalla Lega di Salvini; del peso elettorale relativo che il PD e il “centro-sinistra” sono riusciti a far registrare rispetto agli altri partiti, in presenza di un astensionismo così alto.
Non ci sono state spallate da parte del “centro-destra” e nemmeno eclatanti rimonte da parte del “centro-sinistra”.
Per inciso la stessa vittoria di Letta alle suppletive di Siena con tanto di festeggiamenti in piazza del Campo, in realtà, di fronte al 64,4% di diserzione dalle urne, risulta assai modesta. Ufficialmente è passato con 33.391 voti pari al 49,9% dei voti validi, ma che corrispondono appena al 16,7% dell’intero corpo elettorale. Nel 2018 l’eletto del PD, Padovan, di voti ne aveva ottenuti 20 mila in più. Si riconferma quindi che il PD non gode affatto un ottima salute ed è tutt’altro che guarito dei suoi mali.
I risultati di lista
Il PD si vanta di essere tornato il primo partito. Almeno nella gran parte delle principali città. Un merito che deve tutto al crollo dei partiti avversari: dal M5S alla Lega, a Forza Italia, ecc. Non certo a un'avanzata di voti assoluti.
La Lega ha fatto flop. Un flop per certi versi annunciato dagli ultimi sondaggi ma pur sempre una cocente sconfitta per l’aspirante duce d’Italia Matteo Salvini. Specie perché è maturato soprattutto al Nord, il suo feudo incontrastato dove da ormai decenni scorrazza indisturbato. A Milano e Torino perde i due terzi dei propri voti: nel capoluogo lombardo passa da 157 mila a 48 mila voti, in quello piemontese da 106 a 30 mila. Non meglio va ovviamente al Sud. A Napoli perde quasi la metà del suo elettorato alle europee 2019, l’anno del boom, verso il candidato del “centro-sinistra” Manfredi.
Ha buon gioco Fratelli d’Italia, della fascista doc Giorgia Meloni, che sorpassa il suo alleato a Trieste, Bologna, Torino e lo tallona da vicino a Milano. Fratelli d’Italia non se ne avvantaggia comunque più di tanto sia perché non riesce a intercettare in grande misura i voti della Lega, sia perché a sua volta perde consensi verso il “centro”, come per esempio a Milano o a Roma dove una parte del suo elettorato avrebbe votato anche Calenda.
Per il Movimento 5 stelle si può parlare di vera ed ennesima disfatta. Ormai non si calcolano più i milioni di voti persi nel volgere di una manciata di anni.
Ovunque ormai viaggiano con percentuali (seppure calcolate sui soli voti validi) a una cifra. Cinque anni fa, alle passate comunali, per non parlare alle politiche 2018 e ancora alle europee 2019, le percentuali erano marcatamente a due cifre.
A Torino e Roma, l’emblema della marcia trionfale dei cinque stelle alla conquista del potere governativo centrale e locale, i numeri parlano chiarissimo.
A Torino nel 2016, il M5S ottenne al primo turno 107.680 voti. Chiara Appendino al ballottaggio di voti ne ottenne addirittura 202.764 battendo Piero Fassino.
Nel 2019 i voti alle Europee erano già calati a 52 mila. Oggi i voti sono appena 24.058. Da primo partito (ovviamente dopo l’astensionismo), a quinto partito in soli 5 anni.
A Roma, il M5S ottiene quest’anno 111.624 voti (dato non ancora definitivo perché a Roma, mentre scriviamo, mancano lo spoglio di 6 sezioni). Nel 2016 ne aveva ottenuti 420.435. La Raggi ne aveva ottenuti 461.190 al primo turno e ben 770.564 al secondo. Oggi ottiene solo 211.816 e da prima precipita al quarto posto dietro non solo al “centro-destra” e “centro-sinistra” ma anche dello stesso Carlo Calenda.
Stessa parabola in quasi tutte le altre città. A Napoli, la città di Di Maio e Fico, il M5S ottiene 31.805 voti, ne aveva 36.359 nel 2016 e soprattutto ne aveva ottenuti 118.221 alle europee 2019 ed era il 1° partito, dopo l’astensionismo.
Il M5S perde in tutte le direzioni come è normale vista la natura eterogenea del suo elettorato, ma perde soprattutto verso l’astensionismo liberando finalmente quegli elettori che si erano fatti di nuovo ingannare da questa formazione solo apparentemente “antisistema”. Per esempio a Torino un elettore su due che alle europee aveva votato M5S ora si è astenuto.
Praticamente scomparsi sul piano elettorale i partiti alla sinistra del PD. Qualcuno per volontà propria, essendosi di fatto direttamente o indirettamente posizionato in area PD anche attraverso liste di sostegno ai suoi candidati sindaci.
Altri perché, pur presentando proprie liste e candidati, da soli o con altri, in una manciata di città, ottengono scarsissimi risultati, completamente inutili anche al fine di entrare nei consigli comunali.
Si tratta del fallimento dell'elettoralismo e del partecipazionismo del gruppo dirigente del PC di Rizzo, del PCI, di Rifondazione e di Potere al popolo che continuano a spargere fra l'elettorato di sinistra illusioni elettorali, costituzionali e governative e quindi la fiducia nelle istituzioni rappresentative borghesi ormai marce, irrecuperabilmente fascistizzate e inservibili a un qualsiasi uso da parte del partito del proletariato, in contraddizioni con la loro stessa definizione di partiti comunisti. Pur tuttavia questi partiti in questo modo tengono intrappolati nell’elettoralismo una parte importante dell’elettorato di sinistra che avrebbe invece bisogno di liberarsi completamente da queste inutili catene e agire liberamente sul fronte della lotta di classe e di piazza.
Il nostro lavoro
Sul piano elettorale ciò corrisponde oggi a praticare l’astensionismo e a lavorare per qualificarlo in senso rivoluzionario. Il nostro Partito ha fatto, dove è presente, la sua parte per propagandare l’astensionismo marxista-leninista e di questo ringraziamo di cuore le compagne e i compagni che sono stati impegnati in prima persona in questa battaglia, mentre condanniamo il vergognoso silenzio stampa che ci è stato riservato anche in questa occasione. Ma date le sue attuali forze e mezzi è impossibile che raggiunga tutte le elettrici e gli elettori di sinistra che se già praticano l’astensionismo lo fanno ancora in grandissima parte spontaneamente e se ancora non lo praticano, vanno convinti su un piano di classe, anticapitalista e della lotta per il socialismo.
Come ha sostenuto il compagno Giovanni Scuderi, Segretario generale del PMLI, nel magistrale discorso per il 45° Anniversario della scomparsa di Mao, il 12 settembre scorso, “Il capitalismo va combattuto su tutti i fronti, da quello ideologico, culturale e morale, a quelli politico ed economico, va combattuto anche sul fronte elettorale, non però presentando liste ma con l’astensione. Nel nostro Paese, in base alle sue condizioni specifiche, all’esperienza governativa, parlamentare ed elettorale, nonché alla necessità di elevare la coscienza politica e la combattività anticapitalista e antistituzionale delle masse, l’arma elettorale giusta è quella dell’astensionismo tattico qualificato come un voto dato al PMLI e al socialismo”.
“L’altra arma politica e organizzativa – aggiunge Scuderi - che dobbiamo usare è quella delle istituzioni rappresentative delle masse fautrici del socialismo fondate sulla democrazia diretta. Queste istituzioni anticapitaliste unitarie potrebbero essere fin da subito un terreno di discussione tra i partiti della sinistra di opposizione, i partiti e i gruppi con la bandiera rossa e tutte le forze fautrici del socialismo per creare le condizioni per realizzarle”.
Rilanciamo tale fondamentale appello perché questo potrebbe essere fin da subito un terreno di discussione, di dialogo, di unità fra i partiti alla sinistra del PD che peraltro sono e saranno sempre più tagliati fuori dall’elettoralismo borghese sempre più fascistizzato e che esclude in partenza la partecipazione e tantomeno il prevalere dei partiti con la falce e martello che addirittura si vorrebbe mettere al bando e fuori legge.
Questo tema è comunque parte integrante dei cinque calorosissimi appelli che fin dal documento del 17 febbraio il Comitato centrale del PMLI ha lanciato alle forze anticapitaliste affinché si uniscano per concordare una linea comune contro il governo Draghi, e, novità assoluta, per elaborare assieme un progetto per una nuova società.
Come ha sottolineato il compagno Scuderi nel suddetto discorso: “In sostanza il PMLI chiede di aprire una grande discussione pubblica e privata sui due suddetti temi all’interno del proletariato e delle sue organizzazioni politiche, sindacali e culturali e fra di esse. Facciamola con apertura mentale, a cuore aperto, senza pregiudizi, preclusioni e personalismi, da pari a pari e con la piena disponibilità ad apprendere l’uno dall’altro. Il nostro auspicio è che siano le operaie e gli operai che hanno posti dirigenti nei partiti, nei sindacati e nei movimenti di lotta i primi e i principali promotori di questa urgente, salutare e senza precedenti grande discussione rivoluzionaria sul futuro dell’Italia”.
6 ottobre 2021