Verso un maxiprocesso: 120 indagati, 85 capi di imputazione, 175 parti offese
La Procura sammaritana chiede il rinvio a giudizio per la mattanza in carcere
Confermate le misure cautelari nei confronti dei vertici della polizia penitenziaria
Redazione di Napoli
Nel giro di poco più di un anno, complice probabilmente la forte pressione dell’opinione pubblica dovuta allo sdegno per l’accaduto, la Procura di Santa Maria Capua Vetere ha chiuso le indagini relative ai fatti della primavera 2020 al carcere sammaritano “Francesco Uccella” con numeri da capogiro in uno dei processi più gravi che riguardano i vertici, e non solo, della polizia penitenziaria in Italia dal dopoguerra.
I magistrati hanno notificato l’avviso di conclusione delle indagini a tutti i 120 indagati, che dovranno rispondere di ben 85 capi di imputazione, e alle 175 parti offese che si costituiranno parti civili in giudizio per chiedere già al giudice penale il risarcimento dei danni. Gli inconfutabili video che vedono le “forze dell’ordine” carcerarie impegnate in una vera e propria mattanza picchiando selvaggiamente i detenuti inermi, con calci, pugni, manganellate a freddo, in tenuta antisommossa coperti da parastinchi e caschi che non fanno individuare tutti i feroci protagonisti delle violenze spropositate. Identificazione che si è fermata a 120 agenti di polizia penitenziaria, mentre gli altri non “vengono riconosciuti” né dal loro capo, Pasquale Colucci, né dal responsabile delle guardie carcerarie di Santa Maria Capua Vetere, Gaetano Manganelli, un buco delle indagini fatte di depistaggi e menzogne (dedotte dalle chat
rinvenute nei cellulari degli agenti, ma anche dalle copiose intercettazioni telefoniche e, soprattutto, ambientali) ma che ha comunque prodotto il risultato degli inquirenti che hanno decodificato, attraverso le inoppugnabili immagini (circa dodici ore), i gravissimi fatti del 6 aprile 2020.
Le accuse contestate a vario titolo agli agenti vanno dalla tortura pluriaggravata, ai maltrattamenti pluriaggravati, alle lesioni personali, all’abuso di autorità, al falso in atto pubblico aggravato, al favoreggiamento personale, alla frode processuali, al depistaggio, sino al concorso (doloso?) nell’omicidio di un detenuto, Hakine Lamine, che subìti i terribili pestaggi e, posto in una cella senza alcuna cura, moriva nel giro di un mese senza assistenza sanitaria.
D’altronde pochi mesi prima il Tribunale del Riesame di Napoli aveva confermato l’ipotesi accusatoria della Procura confermando le dure misure cautelari, ben 52, di cui otto agenti rinchiusi nel carcere militare e diciotto agli arresti domiciliari.
Relativamente ai depistaggi potrebbe finire alla sbarra il capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria della Campania, Antonio Fullone, soprattutto per la partecipazione attiva, secondo i magistrati, ai depistaggi successivi alle violenze; non sono riusciti gli inquirenti a indagare l’ex direttrice Elisabetta Palmieri, rimossa dall’incarico ad agosto, dopo aver dichiarato senza pudore di non conoscere nulla dei fatti vergognosi del 6 aprile 2020 e di quelli successivi.
Non vi sono dubbi sulle responsabilità politiche, atteso che all’epoca dei fatti ministro della Giustizia era il pentastellato Bonafede e che lo scandalo fosse poi esploso quando al dicastero vi era e vi è ancora il ministro Cartabia in quota Draghi. Né Bonafede né Cartabia hanno saputo dare soluzioni all’annosa questione delle carceri proponendo i pannicelli caldi della giustizia riparativa che non ha nulla a che vedere con la rieducazione costituzionalmente orientata, ma attualmente principio-chimera dell’ordinamento giuridico di stampo neofascista.
6 ottobre 2021