Ballottaggio del 17-18 ottobre 2021
Sindaci delegittimati dall'astensionismo in crescita
La “sinistra” borghese batte la destra
Lavoriamo per qualificare l'astensionismo come un voto dato al PMLI e al socialismo
Il 56,1% degli elettori chiamati di nuovo alle urne il 17 e 18 ottobre per il ballottaggio in 65 comuni ha disertato le urne. In crescita di ben 9 punti percentuali rispetto al primo turno di due settimane prima quando in queste stesse città aveva disertato le urne già il 47% degli elettori.
Solo una minoranza ha voluto esprimere una preferenza per i due candidati in lizza mentre la netta maggioranza ha voluto prendere le distanze da entrambe e privarli del loro sostegno e appoggio. Senza contare che anche chi è andato alle urne, soprattutto elettori di sinistra, spesso lo ha fatto per niente convinto ma solo per il ricatto del “voto utile”, per non “far vincere la destra”, e così via. Questa ulteriore crescita dell'astensionismo delegittima fortemente la credibilità e la rappresentatività dei sindaci eletti, ma anche più in generale dimostra il distacco crescente fra l'elettorato e i partiti, i governi e le istituzioni rappresentative borghesi locali del regime capitalista neofascista.
Un dato che non a caso sta preoccupando i commentatori e i partiti del regime neofascista che dopo questa tornata elettorale non riescono a ignorare e tacere sulla portata di questo fenomeno e le conseguenze che può avere sulla stabilità e la tenuta dei governi e del sistema capitalistico. Anche perché ciò si accompagna alla disfatta di Lega e Movimento 5 stelle che, presentandosi come partiti “nuovi” e “antisistema”, negli ultimi dieci anni erano stati capaci di intercettare la protesta e il malessere di grandi masse anche di sinistra, incatenandole comunque alle urne e alle istituzioni borghesi. In sostanza, stanno venendo meno quegli strumenti di controllo e inganno che erano stati messi in piedi per arginare l'astensionismo e il distacco delle masse dalle istituzioni e dalla democrazia borghesi. Altri strumenti come le “sardine”, che pure hanno avuto una funzione decisiva nelle precedenti elezioni amministrative permettendo al “centro-sinistra” di tenere in città e regioni sotto assedio della destra, si sono dimostrate al momento solo una meteora. Staremo a vedere cosa altro la classe dominante borghese si inventerà per tentare di riprendere il controllo elettorale, politico e organizzativo delle masse lavoratrici e popolari.
L'astensionismo
Per il ballottaggio erano chiamati alle urne circa 5 milioni di elettori, concentrati soprattutto nei tre grandi comuni capoluogo di regione, Roma, Torino e Trieste, e negli altri 7 comuni capoluogo di provincia, Varese, Savona, Latina, Isernia, Benevento, Caserta e Cosenza.
Proprio i grandi comuni capoluogo hanno fatto registrare il record astensionista. Hanno disertato le urne il 59,3% degli elettori romani, il 58% dei triestini e il 57,9% dei torinesi, tutte percentuali al di sopra della media nazionale. Gli incrementi rispetto al primo turno stati stati rispettivamente del 7,9%, 4% e 5,9%.
Il record dell'incremento fra primo e secondo turno va invece a Caserta (+20,5%) e Cosenza (+20,3%).
Se si prendono in considerazione tutti gli elettori che avevano diritto di voto, e non già solo i voti validi, tutti i sindaci, sia quelli eletti al primo turno, sia quelli eletti al ballottaggio, hanno ottenuto in media il consenso di solo un terzo dell'elettorato e anche meno. Si va da un massimo del 35,8% a Novara, a un minimo del 21% degli elettori a Trieste. Si tratta oggettivamente di una cocente sconfitta.
La “sinistra” borghese batte la destra
La “sinistra” borghese batte la destra perché ottiene più comuni capoluogo rispetto alla situazione precedente. Al ballottaggio riesce a conquistare tre comuni capoluogo di regione su quattro (esclusa solo Trieste), e 6 comuni capoluogo su 7 (esclusa Benevento che resta feudo dell'ex democristiano Clemente Mastella).
Tirando le somme di tutta la tornata elettorale, nei 19 comuni capoluogo di provincia, il “centro-sinistra” prevale, anche grazie all'alleanza col M5S a Varese, Napoli e Bologna, in 14 città e ne governava otto: ne strappa due al M5S (Roma e Torino) e tre alla destra borghese (Savona, Isernia, Cosenza) e si è alleato alla “Lista civica” che già governava Latina. La destra difende solo cinque degli 8 comuni che governava (fra cui Trieste), ma non fa nuove conquiste come invece era successo in tutte le tornate elettorali precedenti quando era riuscita anche a strappare città da sempre in mano alla “sinistra” borghese come Siena, Pisa, Pistoia, Forlì e Ferrara.
A stento conserva il governo a Trieste. Non riesce a riconquistare Varese, dove solo cinque anni fa il “centro-sinistra” era riuscito a interrompere la lunga serie di giunte leghiste iniziata nel 1993. Analoga situazione a Latina, storicamente una città in mano alla destra con una sequela di sindaci espressione apertamente di destra, dal MSI a Fratelli d'Italia passando per AN, dove invece è stato riconfermato Damiano Coletta, espressione di una Lista civica oggi appoggiata anche dal PD.
Per la destra borghese è una evidente e bruciante sconfitta: per la coalizione che non riesce a tenere e ad avanzare; per la ducetta neofascista Meloni che sperava di conquistare trionfalmente Roma con il suo candidato Enrico Michetti; per la Lega fascista e razzista di Salvini che sperava di conservare i numeri delle ultime elezioni politiche ed europee e tenere a bada la concorrenza interna di Fratelli d'Italia. Niente di tutto ciò si è realizzato. Al contrario, i risultati sono veramente esigui. A Trieste per esempio, dove il sindaco Roberto Dipiazza si vanta di essere ormai al quarto mandato, il candidato della destra è stato rieletto con solo il 21% dei consensi ed è passato da 44.845 voti del 2016 ai 38.816 attuali perdendo per strada ben 6.028 voti. Clemente Mastella, anche lui alla riconferma, passa da 18.037 voti nel 2016 ai 15.474 attuali, calando dal 35% al 30,7% dei consensi.
Inutile dire che per il Movimento 5 stelle è stata una disfatta. Se nel 2016 la conquista di Torino e Roma furono esaltati come l'inizio di una inarrestabile ascesa, oggi possiamo concludere che sono stati l'apice di una inesorabile parabola discendente. Il M5S non riesce ad ottenere la guida di nessuna grande città e ha
perso per strada milioni di voti. Dopo aver perso Torino e Roma al M5S rimangono solo tre capoluoghi di provincia, il principale dei quali Campobasso; ma si tratta solo di un'eredità residuale di un passato che appare quanto mai remoto.
La sconfitta della destra e la liquefazione del M5S hanno ovviamente drogato il risultato del PD e del “centro-sinistra” che può sembrare oltremodo positivo tanto da aver spinto il segretario Enrico Letta a parlare addirittura di “vittoria trionfale”. Un'euforia del tutto ingiustificata.
Il “centro-sinistra” ha solo riconquistato un po' di terreno perso rispetto alla destra e riequilibrato la distribuzione del potere governativo a livello locale. Ma niente di più. Se il confronto viene fatto con cinque anni fa il bilancio per il “centro-sinistra” è comunque negativo: per quanto riguarda le centinaia di migliaia di voti persi e non recuperati e anche per quanto riguarda il governo delle città. Nel 2016 governava infatti 68 capoluoghi di provincia contro i 28 della destra. Il M5S ne governava cinque. Il conto oggi, dopo questa tornata elettorale, è sostanzialmente in equilibrio: al “centro-sinistra” 46 comuni, 50 alla destra borghese, 3 al M5S.
A Roma, dove la partita ha avuto più che altrove una valenza nazionale, Roberto Gualtieri strappa il comune al M5S e batte al ballottaggio il candidato della destra Michetti con una percentuale sui voti validi del 60,1%, ma se rapportati a tutti gli elettori aventi diritto i voti ottenuti corrispondono ad appena il 24%. Pur prosciugando sia i voti della lista dell'ex piddino Carlo Calenda, che aveva dichiarato pubblicamente di votare Gualtieri, sia di gran parte dell'elettorato del M5S (alcuni sondaggi parlano di almeno il 40% di chi ha votato al primo turno la Raggi), al secondo turno Gualtieri ha ottenuto solo 565 mila voti, contro i 770 mila che la Raggi aveva ottenuto nel 2016.
Stesso discorso a Torino dove Stefano Lo Russo riesce ad avere la meglio sul candidato della destra ma ottiene solo il 24,5% di voti dell'elettorato avente diritto e 168 mila voti. La Appendino nel 2016 di voti ne aveva ottenuti oltre 200 mila. Da notare come Lo Russo abbia immediatamente dedicato la sua vittoria al defunto Don Aldo Rabino che non è stato solo il cappellano del Torino calcio, ma per ammissione del neosindaco, il suo personale maestro spirituale e politico.
È pur evidente che esiste un “effetto Draghi” se con ciò si intende che la classe dominante borghese è in questo momento del tutto appagata e tranquilla con il suo uomo, forse oggi il più rappresentativo, alla guida del governo nazionale e preferisca favorire tutte quelle forze politiche, compreso il PD, che lo appoggiano incondizionatamente. Salvo poi in futuro cambiare tattica e cavalli pur di mantenere il potere politico.
Qualificare l'astensionismo
Qualcuno ha detto che il PD “non è più il partito della ztl”, ossia il partito che vince nei centri cittadini più ricchi e benestanti, e perde nelle periferie urbane. La verità è che l'astensionismo continua a crescere soprattutto nelle periferie urbane dove regnano incontrastate la disoccupazione, la povertà, il sovraffollamento abitativo, l'abbandono scolastico, la mancanza di servizi sociali, sanitari e culturali, l'emarginazione sociale, il degrado ambientale. E ciò vale a Roma come a Torino, Milano, Napoli.
Il problema che occorre porsi è come trasformare il voto astensionista, soprattutto dell'elettorato di sinistra, di per sé importante e significativo ma in gran parte spontaneo, da voto passivo, da voto di testimonianza e di protesta in un voto attivo, utile alla lotta di classe, alla lotta per difendere gli interessi delle masse sfruttate e oppresse, alla lotta anticapitalista e per il socialismo.
Per quanto ci riguarda dobbiamo continuare a lavorare per qualificare l'astensionismo come un voto dato al PMLI e al socialismo.
Al contempo crediamo però che tutti i partiti della sinistra di opposizione, i partiti e i gruppi con la bandiera rossa e tutte le forze fautrici del socialismo debbano aprire un dibattito sull'utilità di continuare a praticare l'elettoralismo borghese e a spargere così oggettivamente illusioni parlamentariste, governative e costituzionali. Un dibattito che si dovrebbe aprire nell'ambito di una sempre più urgente, salutare e senza precedenti grande discussione rivoluzionaria sul futuro dell'Italia che il PMLI ha lanciato attraverso un appello contenuto nel documento nel Comitato centrale del PMLI, emesso all'indomani della nascita del governo Draghi, e rilanciato con forza il 12 settembre scorso dal Segretario generale del Partito, compagno Giovanni Scuderi, nel magistrale discorso per il 45° Anniversario della scomparsa di Mao che invitiamo tutti a leggere, commentare e discutere.
20 ottobre 2021