Col Ddl sulla concorrenza
Draghi privatizza i servizi pubblici locali
Il 4 novembre il Consiglio dei ministri ha approvato il Disegno di legge sulla concorrenza su proposta di Draghi e di Giorgetti. Già il fatto che porti la firma del ministro leghista dello Sviluppo economico, noto portavoce del capitalismo del “Nord produttivo”, oltre che quello del banchiere massone al servizio della grande finanza e dell'Ue imperialista, la dice lunga sulla matrice e gli scopi di questo provvedimento. Non bastasse ancora, si aggiunga che ad ispirarlo, per non dire a scriverlo, sono stati due consiglieri di Draghi come l'economista ultraliberista Francesco Giavazzi e il giurista Marco D'Alberti, allievo di Cassese, che già produssero in tandem nel 2012 un rapporto per Monti sui finanziamenti alle imprese e i tagli alla spesa che in soldoni si poteva riassumere così: i risparmi sui tagli alla spesa per essere produttivi si devono accompagnare al taglio delle tasse alle imprese e ai redditi più alti.
Si tratta di un Ddl delega, che cioè il parlamento valuta e vota solo in quanto contiene le linee generali, lasciando al governo la sua “messa a terra” attraverso una serie di decreti legislativi non soggetti a un ulteriore vaglio delle Camere. Concedendo cioè un'ampia discrezionalità al governo stesso nella traduzione pratica delle suddette linee. Come stabilisce l'articolo 1, richiamandosi anche all'articolo 117 della Costituzione, secondo comma lettera e, che tutela appunto la concorrenza, il Ddl si propone di “promuovere lo sviluppo della concorrenza” e di “rimuovere gli ostacoli regolatori, di carattere normativo e amministrativo, all’apertura dei mercati”. Tutto ciò con la scontata scusa di “garantire l’accesso ai mercati di imprese di minori dimensioni” e la “tutela dei consumatori”.
Il provvedimento, che come recita il comunicato stampa di Palazzo Chigi è uno dei principali impegni presi dal governo col PNRR, interviene nei seguenti ambiti: concessioni demaniali (spiagge e altri beni pubblici); concessioni di servizi portuali; concessioni di distribuzione del gas; concessioni idroelettriche; servizi pubblici locali e trasporti; centraline di ricarica elettrica; servizi di gestione dei rifiuti; tutela della salute (leggasi “agevolare l'accesso all'accreditamento delle strutture sanitarie private”); digitalizzazione; rimozione degli ostacoli alla semplificazione amministrativa per le autorizzazioni alle imprese e per i controlli sulle attività economiche; norme su assicurazioni e antitrust.
Verso l'abolizione della gestione pubblica dei servizi
La stampa di regime ha messo l'accento solo sul rinvio della direttiva Bolkenstein e delle gare per le concessioni delle spiagge, scandalosamente basse per un giro d'affari da 5 miliardi l'anno e più volte rinviate disattendendo le norme europee, nonché sul rinvio della liberalizzazione del trasporto non di linea (taxi e noleggio) e delle nuove regole liberalizzatrici per i notai. Si tratta della solita tattica di Draghi di rinviare i dossier più invisi all'elettorato della Lega e degli altri partiti della destra, come già fatto con la revisione del catasto, per non bloccare l'azione del governo. In questo modo i media hanno distolto l'attenzione dal principale obiettivo del provvedimento, che è la privatizzazione dei servizi pubblici locali in una misura mai vista finora: acquedotti, trasporti pubblici locali e regionali, rifiuti, reti di distribuzione del gas, ecc., sulla quale non solo Salvini e i ministri della destra, ma neanche di PD, LeU e M5S hanno sollevato la minima obiezione.
Il cuore del provvedimento, infatti, è l'articolo 6 (“Delega in materia di servizi pubblici locali”), in base al quale entro 6 mesi dalla data di entrata in vigore del Ddl il governo è delegato ad adottare un decreto legislativo di riordino di tutta la materia, sulla base dei principi e criteri descritti in una lunga serie di paragrafi che vanno dalla lettera a alla lettera z, tra cui:
a) individuazione, “nell'ambito della competenza esclusiva statale di cui all'art. 117 secondo comma lettera p della Costituzione (che assegna allo Stato la legislazione esclusiva sulle funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane, ndr), “da esercitare nel rispetto della tutela della concorrenza” e della normativa europea, “delle attività di interesse generale” necessarie per le comunità locali, tenendo conto “dei migliori livelli di qualità e sicurezza”. Con ciò si vuol fare evidentemente una prima scrematura di attività non di “interesse generale” e non “necessarie” per le comunità locali da dare senz'altro in pasto ai privati, specie se giudicati in grado di offrire “migliori livelli di qualità e sicurezza”;
b) “previsione della separazione, a livello locale, tra le funzioni regolatorie e le funzioni di diretta gestione dei servizi”. Idem come sopra, si vuol operare un'ulteriore scrematura riducendo al minimo possibile i casi di enti locali che oltre a fissare le regole per la gestione dei servizi pubblici intendano esercitarne o mantenerne anche la gestione;
c) i “regimi speciali ed esclusivi” (che sono generalmente a gestione pubblica) debbono sottostare a principi di “adeguatezza e proporzionalità” e di conformità alla normativa europea, altrimenti debbono essere “superati”, ovvero aboliti e privatizzati;
d) sono previsti “Incentivi e meccanismi di premialità che favoriscano l'aggregazione delle attività e delle gestioni dei servizi a livello locale”: leggasi creazione di società “multiutility” che gestiscano più tipi di servizi.
I mille ostacoli alla gestione in house dei servizi locali
Inoltre, mentre i privati affidatari hanno solo l'obbligo della pubblicazione “dei dati relativi alla qualità del servizio, al livello annuale degli investimenti effettuati ed alla loro programmazione sino al termine dell’affidamento” (paragrafo s), gli enti locali hanno invece tutta una serie di obblighi tesi a scoraggiare in tutti modi la gestione in house
, ossia la gestione pubblica e spingerli verso l'affidamento a privati. Anche perché questi avranno un'arma formidabile in mano per citare in giudizio per danni le amministrazioni pubbliche che rifiutano di privatizzare e non ce la fanno a rispettare i mille obblighi a cui sono sottoposte, e che sono i seguenti:
f) gli enti locali devono dare “motivazione anticipata e qualificata per la scelta o la conferma del modello dell'autoproduzione ai fini di una efficiente gestione del servizio, che dia conto delle ragioni che, sul piano economico e della qualità, degli investimenti
(evidenziato in grassetto, ndr) e dei costi dei servizi per gli utenti, giustificano il mancato ricorso al mercato, anche in relazione ai risultati conseguiti nelle pregresse gestioni in autoproduzione”;
g) in tal caso devono “trasmettere tempestivamente la decisione motivata di utilizzare il modello dell'autoproduzione all'Autorità garante della concorrenza e del mercato”. Inoltre La costituzione di nuove società pubbliche saranno sottoposte al giudizio di “sostenibilità finanziaria” da parte della Corte dei conti a sezioni riunite che si pronunceranno entro 60 giorni;
h) sempre nella suddetta ipotesi devono altresì prevedere “sistemi di monitoraggio dei costi ai fini del mantenimento degli equilibri di finanza pubblica e della tutela della concorrenza”;
i) infine, hanno anche l'obbligo di procedere alla revisione periodica della gestione in house
per giustificare “il mantenimento dell'autoproduzione anche in relazione ai risultati conseguiti nella gestione”.
Con i paragrafi m ed n la suddetta disciplina della modalità di scelta di gestione dei servizi e di affidamento dei contratti pubblici viene estesa anche ai settori del trasporto pubblico, dei rifiuti e del servizio idrico.
Stessa logica ultraliberista del Decreto semplificazioni
Con il paragrafo q si stabilisce poi la “revisione della disciplina dei regimi di proprietà e di gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni, nonché di cessione dei beni in caso di subentro, anche al fine di assicurare un’adeguata valorizzazione della proprietà pubblica, nonché un’adeguata tutela del gestore uscente”. Che tradotto significa una delega in bianco al governo per la revisione dei regimi pubblici di gestione ma anche di proprietà delle reti in vista di una dismissione il più possibile estesa dei beni pubblici ai privati.
Importante è anche il paragrafo v, che prevede una disciplina transitoria, per l'entrata a regime degli obblighi di cui alla lettera f, “al fine di garantire la tutela della concorrenza”, in base alla quale lo Stato può esercitare gli “interventi sostitutivi ai sensi dell'art. 120 della Costituzione” qualora l'ente pubblico non provvedesse sollecitamente a privatizzare i servizi, oppure a fornire le debite garanzie di poter esercitare l'autoproduzione.
Con Gli articoli 23 e 24, fortemente voluti dal ministro della Funzione pubblica Brunetta, il governo è delegato inoltre ad adottare uno o più decreti legislativi “per la revisione dei procedimenti amministrativi in funzione pro-concorrenziale” e per la “semplificazione dei controlli sulle attività economiche”.
In altre parole, con misure come l'eliminazione di tutte le autorizzazioni e gli adempimenti “incidenti sulla libertà di iniziativa economica non indispensabili”, l'estensione dell'“ambito delle attività private liberamente esercitabili senza necessità di alcun adempimento, inclusa la mera comunicazione”, l'eliminazione dei “livelli di regolazione superiori a quelli minimi” richiesti dalla normativa Ue, ecc., si punta a semplificare e sveltire le autorizzazioni alla creazione di imprese, la concessione di servizi pubblici e i controlli sulle loro attività, facendo anche largo uso del silenzio-assenso e della semplice comunicazione di inizio attività. E' la stessa logica, insomma, del precedente Decreto semplificazioni di Draghi, che liberalizza gli appalti, riduce i diritti dei lavoratori e apre pericolosi varchi alle infiltrazioni della criminalità organizzata, in questo caso nell'appetitoso mercato dei servizi pubblici.
Difendere i beni e i servizi pubblici dalla privatizzazione
È scandaloso che l'Associazione dei Comuni italiani (Anci) non abbia ancora espresso un parere su questo provvedimento che cambia radicalmente il ruolo degli enti locali spingendoli in mille modi ad uscire dalla gestione dei servizi pubblici essenziali e metterli sul mercato. Ed è puramente pretestuoso il continuo invocare la normativa europea che per concedere i soldi del PNRR imporrebbe la privatizzazione dei servizi. Ci sono delle “raccomandazioni”, non vincolanti, con cui si consiglia di “affrontare le restrizioni della concorrenza, in particolare nel settore del commercio al dettaglio e dei servizi alle imprese” e dove non appaiono riferimenti alle privatizzazioni e non si nominano esplicitamente nemmeno i servizi pubblici locali.
Si tratta di una forzatura evidente per togliere competenza ai Comuni, Province e Città metropolitane e attribuirla allo Stato, per obbligare questi enti a rinunciare alla proprietà e alla gestione dei beni e servizi pubblici essenziali e metterli sul mercato.
Tra l'altro il provvedimento si propone anche di “agevolare l'accreditamento delle strutture private” presso i servizi sanitari regionali, cioè di facilitare la privatizzazione della sanità pubblica, andando in direzione opposta alla domanda popolare di estensione e rafforzamento del Servizio sanitario nazionale fortemente avanzata durante questa pandemia. Allo stesso modo il Ddl va contro la volontà popolare espressa dal risultato del referendum del 2011 contro la privatizzazione dell'acqua e degli altri beni pubblici essenziali.
La volontà popolare emersa in questa crisi economica e pandemica chiede al contrario il rafforzamento del ruolo pubblico nella gestione dei beni e dei servizi essenziali (acqua, trasporti, rifiuti, energia ecc.) e nella tutela della salute. Dove i servizi sono stati privatizzati abbiamo invariabilmente assistito all'aumento delle tariffe, al peggioramento delle reti e dei servizi, alla riduzione degli investimenti e così via.
Questo Ddl ultraliberista di Draghi va perciò decisamente respinto e affossato con ogni mezzo, promuovendo un vasto movimento di lotta in difesa dei beni e servizi essenziali per le masse popolari. Altrimenti la gestione pubblica dei servizi diventerebbe al più presto residuale: l'eccezione alla regola rappresentata dalla gestione privata, possibilmente nella forma di grandi società multiservizi quotate in Borsa.
17 novembre 2021