Marx ed Engels sulla natura, l'ambiente e il capitalismo

La natura esiste indipendentemente da ogni filosofia; essa è la base sulla quale siamo cresciuti noi uomini, che siamo pure prodotti della natura; oltre alla natura ed agli uomini non esiste nulla, e gli esseri più elevati che ha creato la nostra fantasia religiosa sono soltanto il riflesso del nostro proprio essere.
(Engels, Ludovico Feuerbach ed il punto d’approdo dell’ideologia tedesca – Edizioni Rinascita, 1950, pag.21)
 
I filosofi della natura stanno alla scienza della natura coscientemente dialettica nello stesso rapporto in cui stanno gli utopisti al comunismo moderno.
(F.Engels, Antiduhring, 1878, Edizioni Rinascita, 1950, Pag.16)
 
La società è l’unità essenziale, giunta al proprio compimento, dell’uomo con la Natura, la vera resurrezione della Natura, il naturalismo compiuto dell’uomo e l’umanismo compiuto dalla Natura.
(Marx, Manoscritti economici-filosofici del 1844, Opere complete, vol III, p325)
 
Ma sono precisamente le opposizioni diametrali, rappresentate come irreconciliabili ed insolubili, le linee di demarcazione e le differenze fra le classi fissate violentemente quelle che hanno dato alla scienza teorica della natura il suo carattere metafisico. Il riconoscimento che queste opposizioni e queste differenze in verità sono presenti nella natura, ma con una validità soltanto relativa, e che invece quella rigidità e quell’assoluta validità con cui sono presentate viene introdotta nella natura solo dalla nostra riflessione; questo riconoscimento costituisce il punto centrale della concezione dialettica della natura. È possibile arrivare a questa concezione perché vi si è costretti dall’accumularsi dei fatti della scienza della natura, ma vi si arriva più facilmente se si raccosta al carattere dialettico di questi fatti la conoscenza delle leggi del pensiero dialettico. In ogni caso, la scienza della natura è oggi così avanzata che non sfugge più alla sintesi dialettica. Ma essa si renderà più agevole questo processo, se non dimenticherà che i risultati, in cui sono sintetizzate le sue esperienze, sono concetti; ma che l’arte di operare con dei concetti non è innata e neppure è acquisita con la coscienza comune di tutti i giorni, ma richiede invece un pensiero reale e questo pensiero ha una lunga storia sperimentale; né più e né meno dell’indagine naturalistica sperimentale. Appunto imparando a far propri i risultati dello sviluppo della filosofia durante venticinque secoli, essa si libererà da un lato da ogni filosofia della natura che stia a parte e al di fuori e al di sopra di essa, ma anche, d’altro lato, del suo proprio metodo limitato di pensare, ereditato dall’empirismo inglese.
(F.Engels, Antiduhring, Edizioni Rinascita, 1950, Pagg.17-19)
 
 
Per lui la libertà è il riconoscimento della necessità. “Cieca è la necessità solo nella misura in cui non viene compresa”. La libertà non consiste nel sognare l’indipendenza dalle leggi della natura ma nella coscienza di queste leggi e nella possibilità, legata a questa conoscenza, di farle agire secondo un piano per un fine determinato. Ciò vale in riferimento tanto alle leggi della natura esterna, quanto a quelle che regolano l’esistenza fisica e spirituale dell’uomo stesso: due classi di leggi che possiamo separare l’una dall’altra tutt’al più nell’idea, ma non nella realtà. Libertà del volere non significa altro perciò che la capacità di poter decidere con cognizione di causa. (…)
La libertà consiste dunque nel dominio di noi stessi e della natura esterna fondato sulla conoscenza delle necessità naturali: essa è perciò necessariamente un prodotto dello sviluppo storico. I primi uomini che si separarono dal regno degli animali erano tanto privi di libertà in tutto quello che è essenziale, quanto gli stessi animali, ma ogni progresso nella civiltà era un passo verso la libertà. Alla soglia della storia della umanità sta la scoperta della trasformazione del movimento meccanico in calore, la produzione del fuoco per sfregamento; a conclusione dello sviluppo che si è avuto sinora sta la scoperta della trasformazione del calore in movimento meccanico:la macchina a vapore. E malgrado la gigantesca rivoluzione liberatrice, non ancora compiuta per metà, che la macchina a vapore opera nel mondo sociale, è tuttavia fuori dubbio che la produzione del fuoco per sfregamento ha avuto sul mondo un’azione liberatrice superiore a quella della macchina a vapore. Infatti la produzione del fuoco per sfregamento diede all’uomo per la prima volta il dominio di una forza naturale e con ciò lo separò definitivamente dal regno degli animali. La macchina a vapore non farà mai fare allo sviluppo dell’umanità un salto così imponente, per quanto essa possa anche essere per noi rappresentativa di tutte quelle poderose forze produttive che si appoggiano ad essa e solo con l’aiuto delle quali si rende possibile una situazione sociale in cui non ci sono più differenze di classe, preoccupazione per i mezzi di sussistenza degli individui, e in cui per la prima volta può parlarsi di vera libertà umana, di un’esistenza in armonia con le leggi naturali conosciute. Ma quanto sia ancora giovane tutta la storia dell’uomo e quanto sarebbe ridicolo il voler attribuire alle nostre vedute odierne una qualche validità assoluta, appare dal semplice fatto che tutta la storia sinora si può caratterizzare come storia dell’intervallo di tempo che passa dalla scoperta pratica della trasformazione del movimento meccanico in calore a quella di trasformazione del calore in movimento meccanico.
(F.Engels, Antiduhring, Edizioni Rinascita, 1950, Pagg.127-8)
 
 
Con la preponderanza sempre crescente della popolazione urbana che la produzione capitalistica accumula in grandi centri, essa accumula da un lato la forza motrice storica della società, dall’altro turba il ricambio organico fra uomo e terra, ossia il ritorno alla terra degli elementi costitutivi della terra consumati dall’uomo sotto forma di mezzi alimentari e di vestiario, turba dunque l’eterna condizione naturale di una durevole fertilità del suolo. Così distrugge insieme la salute fisica degli operai urbani e la vita intellettuale dell’operaio rurale. Ma insieme essa costringe mediante la distruzione delle circostanze di quel ricambio organico, sorte per semplice spontaneità naturale, a produrre tale ricambio in via sistematica, come legge regolatrice della produzione sociale, in una forma adeguata al pieno sviluppo dell’uomo. Nell’agricoltura come nella manifattura la trasformazione capitalistica del processo di produzione si presenta insieme come martirologio dei produttori, il mezzo di lavoro si presenta come mezzo di soggiogamento, mezzo di sfruttamento e mezzo di impoverimento dell’operaio, la combinazione sociale dei processi lavorativi si presenta come soffocamento organizzato della sua vivacità, libertà e autonomia individuali . La dispersione degli operai rurali su estensioni d’una certa vastità spezza allo stesso tempo la loro forza di resistenza, mentre la concentrazione accresce la forza di resistenza degli operai urbani. Come nell’industria urbana, così nell’agricoltura moderna, l’aumento della forza produttiva e la maggiore quantità di lavoro resa liquida vengono pagate con la deva stazione e l’ammorbamento della stessa forza-lavoro. E ogni progresso dell’agricoltura capitalistica costituisce un progresso non solo nell’arte di rapinare l’operaio , ma anche nell’arte di rapinare il suolo ; ogni progresso nell’accrescimento della sua fertilità per un dato periodo di tempo, costituisce insieme un progresso della rovina delle fonti durevoli di questa fertilità. Quanto più un paese, per esempio gli Stati Uniti dell’America del Nord, parte dalla grande industria come sfondo del proprio sviluppo, tanto più rapido è questo processo di distruzione. La produzione capitalistica sviluppa quindi la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo minando al contempo le fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio .
( Marx, Il capitale, Libro I Cap. 13 Grande industria e agricoltura, Ed. Riuniti, vol. I pag.551-3)
 
 
In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo per mezzo della propria azione produce, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi i materiali della natura in forma usabile per la propria vita. Operando mediante tale moto sulla natura fuori di se e cambiandola, egli cambia allo stesso tempo la natura sua propria. Sviluppa le facoltà che in questa sono assopite e assoggetta il giuoco delle loro forze al proprio potere. Qui non abbiamo da trattare delle prime forme di lavoro, di tipo animalesco e istintive. Lo stadio nel quale il lavoro umano non s’era ancora spogliato della sua prima forma di tipo istintivo si ritira nello sfondo lontano delle età primeve, per chi vive nello stadio nel quale il lavoratore si presenta sul mercato come venditore della propria forza-lavoro. Il nostro presupposto è il lavoro in una forma nella quale esso appartiene esclusivamente all’uom o. Il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti cion la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin dal principio distingue il peggior architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nell’idea del lavoratore , che quindi era già presente idealmente .
(…)
All’inizio della storia dell’umanità, la parte principale fra i mezzi di lavoro, assieme a pietre, legna, ossa e conchiglie lavorate, è rappresentata dall’animale addomesticato, dunque cambiato anch’esso per mezzo del lavoro, allevato. L’uso e la creazione dei mezzi di lavoro, benché già proprii, in germe, di certe specie animali, contraddistinguono il processo lavorativo specificatamente umano; per questo il Franklin definisce l’uomo “a toolmaking animal ”, un animale che fabbrica strumenti.
(Marx, Il capitale, Libro primo, Editori Riuniti pagg.211-2014 / Rinascita pagg.196-198)
 
 
D’altra parte la grande proprietà fondiaria riduce la popolazione agricola ad un minimo continuamente decrescente e le contrappone una popolazione industriale continuamente crescente e concentrata nelle grandi città; essa genera così le condizioni che provocano una incolmabile frattura nel nesso del ricambio organico sociale prescritto dalle leggi naturali della vita, in seguito alla quale la forza della terra viene sperperata e questo sperpero viene esportato mediante il commercio molto al di là dei confini del proprio paese. (…) La grande industria e la grande agricoltura gestite industrialmente operano in comune. Se esse originariamente si dividono per il fatto che la prima dilapida e rovina prevalentemente la forza-lavoro, e quindi la forza naturale dell’uomo e la seconda più direttamente la forza naturale della terra, più tardi invece esse si danno la mano, in quanto il sistema industriale nella campagna succhia l’energia anche degli operai e l’industria e il commercio, dal canto loro, procurano all’agricoltura i mezzi per depauperare la terra.
(Marx, Il Capitale, Libro III, cap47, Ed. Riuniti, vol.3 p.926)
 
“A Londra, per esempio, del letame prodotto da quattro milioni e mezzo di persone non si è trovato di meglio da fare che usarlo per avvelenare, con un costo enorme, il Tamigi.” “I residui derivanti dai processi fisiologici naturali degli esseri umani avrebbero potuto, come quelli della produzione industriale e del consumo, essere reintrodotti nel ciclo produttivo, chiudendo il ciclo metabolico”. “Il fatto di dipendere, per la coltivazione dei diversi prodotti del suolo, dalle fluttuazioni dei prezzi di mercato, che determinano un continuo cambiamento di quelle colture, e lo spirito stesso della produzione capitalistica, centrato sul profitto più immediato, sono in contraddizione con l’agricoltura, che deve gestire la produzione tenendo conto dell’insieme delle condizioni di esistenza permanenti delle generazioni umane che si susseguono.”
(Marx, Citato nel libro di Marco Alezio, Dai rifiuti all'economia circolare)
 
L'unico movente che determina il detentore di un capitale ad impiegarlo piuttosto nell'agricoltura o nell'industria o in un determinato ramo del commercio all'ingrosso o al minuto, è il punto di vista del proprio profitto. Non gli passa mai per la mente di calcolare quale quantità di lavoro produttivo potrà essere posto in opera da ciascuno di questi diversi tipi d'impiego [V] e quale aumento di valore potrà subire la produzione annuale della terra e il lavoro del suo paese (smith, t. II, pp. 400, 401).
Per il capitalista l’impiego più utile del capitale è quello che in condizioni uguali di sicurezza gli rende il profitto maggiore. Questo impiego non è sempre il più utile per la società; il più utile è quello che viene destinato a ricavare un utile dalle forze produttive della natura.
(Marx, Manoscritti economici-filosofici del 1844, Opere complete, vol III, p.272)
 
 
La vita della specie, tanto nell’uomo quanto negli animali, consiste fisicamente anzitutto nel fatto che l’uomo (come l’animale) vive della natura inorganica, e quanto più universale è l’uomo dell’animale, tanto più universale è il regno della natura inorganica di cui egli vive. Le piante, gli animali, le pietre, l’aria, la luce, ecc., come costituiscono teoricamente una parte della coscienza umana, in parte come oggetti della scienza naturale, in parte come oggetti dell’arte, (…) così costituiscono anche praticamente una parte della vita umana e dell’umana attività. L’uomo vive fisicamente soltanto di questi prodotti naturali, si presentino essi nella forma di nutrimento o di riscaldamento o di abbigliamento o di abitazione ecc..
L’universalità dell’uomo si manifesta praticamente proprio nell’universalità per cui l’intera natura è fatta suo corpo inorganico , 1) in quanto questa è un immediato alimento, 2) in quanto essa è la materia, l’oggetto e lo strumento dell’attività vitale dell’uomo. La natura è il corpo inorganico dell’uomo: cioè la natura nella misura in cui non è essa stessa corpo umano. Che l’uomo vive della natura significa: che la natura è il suo corpo , con il quale egli deve rimanere in un processo continuo per non morire. Che la vita fisica e spirituale dell’uomo sia congiunta con la natura, non significa altro che la natura è congiunta con se stessa, perché l’uomo è una parte della natura.
Poiché il lavoro alienato 1) aliena all’uomo la natura, e 2) aliena all’uomo se stesso, la sua attiva funzione, la sua attività vitale, aliena così all’uomo il genere ; egli riduce così la vita generica ad un mezzo della vita individuale. In primo luogo estrania l’una all’altra la vita generica e la vita individuale, in secondo luogo fa di quest’ultima nella sua astrazione lo scopo della prima, parimente nella sua forma astratta e alienata.
Infatti il lavoro, l’attività vitale , la vita produttiva , appare all’uomo solo come mezzo per la soddisfazione di un bisogno, del bisogno di conservazione dell’esistenza fisica. Ma la vita produttiva è la vita generica. È la vita generante la vita. Nel modo dell’attività vitale si trova l’intero carattere di una specie, il suo carattere specifico, e la libera attività consapevole è il carattere specifico dell’uomo. Ma la vita stessa appare soltanto mezzo di vita .
L’animale è immediatamente una cosa sola con la sua attività vitale. Non si distingue da essa. È quella stessa. L’uomo fa della sua attività vitale l’oggetto stesso della sua volontà e della sua coscienza. Ha un’attività vitale cosciente. Non c’è sfera determinata in cui l’uomo immediatamente si confonda. L’attività vitale cosciente dell’uomo distingue l’uomo immediatamente dall’attività vitale dell’animale. (…) soltanto perciò la sua attività è un’attività libera. Il lavoro alienato rovescia il rapporto nel senso che l’uomo, precisamente in quanto è un ente consapevole, fa della sua attività, della sua essenza, solo mezzo per la sua esistenza. La creazione pratica di un mondo oggettivo, la trasformazione della natura inorganica è la riprova che l’uomo è un essere appartenente a una specie e dotato di coscienza, cioè è un essere che si comporta verso la specie come verso il suo proprio essere, o verso se stesso come un essere appartenente a una specie. Certamente anche l’animale produce. Si fabbrica un nido, delle abitazioni come fanno le api, i castori, le formiche, ecc.. Solo che l’animale produce unicamente ciò che gli occorre immediatamente per sé o per i suoi nati; produce in modo unilaterale, mentre l’uomo produce in modo universale; produce solo sotto l’impero del bisogno fisico immediato, mentre l’uomo produce anche libero dal bisogno fisico, e produce veramente soltanto quando è libero da esso; l’animale riproduce soltanto se stesso, mentre l’uomo riproduce l’intera natura; il prodotto dell’animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico mentre l’uomo si pone liberamente di fronte al suo prodotto. L’animale costruisce soltanto secondo la misura e il bisogno della specie a cui appartiene, mentre l’uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e sa ovunque predisporre la misura inerente a quel determinato oggetto; quindi l’uomo costruisce anche secondo le leggi della bellezza.
Proprio soltanto nella lavorazione del mondo oggettivo l’uomo si realizza quindi come un ente generico . Questa produzione è la sua attiva vita generica. Per essa la natura si palesa opera sua, dell’uomo, e sua realtà. L’oggetto del lavoro è quindi l’oggettivazione della vita generica dell’uomo : poiché egli si sdoppia non solo intellettualmente, come nella coscienza, bensì attivamente, realmente, e vede quindi se stesso in un mondo fatto da lui. Allorchè, dunque, il lavoro alienato sottrae all’uomo l’oggetto della sua produzione, è la sua vita generica che gli sottrae, la sua reale oggettività di specie, e così trasforma il suo vantaggio sull’animale nello svantaggio della sottrazione del suo corpo inorganico, della natura.
(Marx, Manoscritti economici-filosofici del 1844, Opere complete, vol III, p302-4)
 
L'animale si limita a usufruire della natura esterna, e apporta ad essa modificazioni solo con la sua presenza; l'uomo la rende utilizzabile per i suoi scopi modificandola: la domina . Questa è l'ultima, essenziale differenza tra l'uomo e gli altri animali, ed è ancora una volta il lavoro che opera questa differenza. Non aduliamoci troppo tuttavia per la nostra vittoria umana sulla natura. La natura si vendica di ogni nostra vittoria. Ogni vittoria ha infatti, in prima istanza, le conseguenze sulle quali avevamo fatto assegnamento; ma in seconda e terza istanza ha effetti del tutto diversi, imprevisti, che troppo spesso annullano a loro volta le prime conseguenze. Le popolazioni che sradicavano i boschi in Mesopotamia, in Grecia, nell'Asia Minore e in altre regioni per procurarsi terreno coltivabile, non pensavano che così facendo creavano le condizioni per l'attuale desolazione di quelle regioni, in quanto sottraevano ad esse, estirpando i boschi, i centri di raccolta e i depositi dell'umidità. Gli italiani della regione alpina, nel consumare sul versante sud gli abeti così gelosamente protetti al versante nord, non presentivano affatto che, così facendo, scavavano la fossa all'industria pastorizia sul loro territorio; e ancor meno immaginavano di sottrarre, in questo modo, alle loro sorgenti alpine per la maggior parte dell'anno quell'acqua che tanto più impetuosamente quindi si sarebbe precipitata in torrenti al piano durante l'epoca delle piogge. Coloro che diffusero in Europa la coltivazione della patata, non sapevano di diffondere la scrofola assieme al tubero farinoso. Ad ogni passo ci vien ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo ad essa, ma che noi le apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: tutto il nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle in modo appropriato. E, in effetti, comprendiamo ogni giorno più esattamente le sue leggi e conosciamo ogni giorno di più quali sono gli effetti immediati e quelli remoti del nostro intervento nel corso abituale della natura. In particolare, dopo i poderosi progressi compiuti dalla scienza in questo secolo, siamo sempre più in condizione di conoscere, e quindi di imparare a dominare anche gli effetti naturali più remoti, perlomeno per quello che riguarda le nostre abituali attività produttive. Ma quanto più ciò accade, tanto più gli uomini non solo sentiranno, ma anche sapranno, di formare un'unità con la natura, e tanto più insostenibile si farà il concetto, assurdo e innaturale, di una contrapposizione tra spirito e materia, tra uomo e natura, tra anima e corpo, che è penetrato in Europa dopo il crollo del mondo dell'antichità classica e che ha raggiunto il suo massimo sviluppo nel cristianesimo. Ma se è stato necessario il lavoro di millenni sol perché noi imparassimo a calcolare, in una certa misura, gli effetti naturali più remoti della nostra attività rivolta alla produzione, la cosa si presentava come ancor più difficile per quanto riguarda i più remoti effetti sociali di tale attività. Abbiamo citato il caso delle patate e della scrofola, diffusasi col loro diffondersi. Ma cos'è la scrofola di fronte agli effetti che provocò sulle condizioni di vita delle masse popolari di interi paesi il fatto che i lavoratori fossero ridotti a cibarsi di sole patate? di fronte alla carestia che colpì l'lrlanda nel 1847 in conseguenza della malattia che distrusse le patate, e fece finire sotto terra un milione di irlandesi che si nutrivano di patate e quasi esclusivamente di patate, altri due milioni al di là del mare? Quando gli arabi impararono a distillare l'alcool non si sognavano neppure di aver creato la principale tra le armi destinate a cancellare dalla faccia della terra gli aborigeni della ancor non scoperta America. E quando Colombo scoprì questa America non sapeva che, così facendo, risvegliava a nuova vita la schiavitù già da lungo tempo superata in Europa e gettava le basi per il commercio dei negri. Gli uomini, che con il loro lavoro produssero la macchina a vapore, tra il diciassettesimo e il diciottesimo secolo, non avevano affatto il presentimento di costruire lo strumento che più d'ogni altro era destinato a rivoluzionare la situazione sociale di tutto il mondo, a procurare in particolare alla borghesia, in un primo tempo, il predominio sociale e politico, attraverso la concentrazione della ricchezza nelle mani della minoranza e la totale espropriazione della stragrande maggioranza, per generare poi tra borghesia e proletariato una lotta di classe, che può aver fine solo con l'abbattimento della borghesia e l'abolizione di tutti i contrasti di classe. Ma anche in questo campo noi riusciamo solo gradualmente ad acquistare una chiara visione degli effetti sociali mediati, remoti, della nostra attività produttiva, attraverso una lunga e spesso dura esperienza, e attraverso la raccolta e il vaglio del materiale storico; e così ci è data la possibilità di dominare e regolare anche questi effetti. Ma per realizzare questa regolamentazione, occorre di più che non la sola conoscenza. Occorre un completo capovolgimento del modo di produzione da noi seguito fino ad oggi, e con esso di tutto il nostro attuale ordinamento sociale nel suo complesso. Tutti i modi di produzione fino ad oggi esistiti si sono sviluppati avendo di mira i risultati pratici più vicini, più immediati, del lavoro. Le ulteriori conseguenze manifestantisi solo in un tempo successivo, operanti solo per graduale accumulazione e ripetizione, rimanevano del tutto trascurate. L'iniziale proprietà collettiva del suolo corrispondeva da una parte a uno stadio di sviluppo dell'uomo, che limitava in generale il suo orizzonte alle cose più vicine, e presupponeva d'altra parte una certa abbondanza di terreno a disposizione, che consentiva un certo giuoco di fronte ad eventuali cattivi risultati di quell'economia primitiva di tipo forestale. Esauritasi questa sovrabbondanza di terreno, si disgregò anche la proprietà collettiva. Ma tutte le forme superiori di produzione hanno portato alla divisione della popolazione in diverse classi e con ciò al contrasto tra classi dominanti e classi oppresse; con ciò però l'interesse della classe dominante diveniva l'elemento che dava impulso alla produzione, nella misura in cui quest'ultima non si limitava alle più indispensabili necessità di vita degli oppressi. Questo processo si è sviluppato nella maniera più completa nel modo di produzione capitalistico oggi dominante nell'Europa occidentale. I singoli capitalisti, che dominano la produzione e lo scambio, possono preoccuparsi solo degli effetti pratici più immediati della loro attività. Anzi questi stessi effetti - per quel che concerne l'utilità dell'articolo prodotto o commerciato - vengono posti completamente in secondo piano: l'unica molla della produzione diventa il profitto che si può realizzare nella vendita. La scienza borghese della società, l'economia politica classica, si occupa soprattutto degli effetti sociali immediatamente visibili dell'attività umana rivolta alla produzione e allo scambio. Ciò corrisponde completamente all'organizzazione sociale, di cui essa è l'espressione teorica. In una società in cui i singoli capitalisti producono e scambiano solo per il profitto immediato, possono esser presi in considerazione solo i risultati più vicini, più immediati. Il singolo industriale o commerciante è soddisfatto se vende la merce fabbricata o comprata con l'usuale profittarello e non lo preoccupa quello che in seguito accadrà alla merce o al compratore. Lo stesso si dica per gli effetti di tale attività sulla natura. Prendiamo il caso dei piantatori spagnoli a Cuba, che bruciarono completamente i boschi sui pendii e trovarono nella cenere concime sufficiente per una generazione di piante di caffè altamente remunerative. Cosa importava loro che dopo di ciò le piogge tropicali portassero via l'ormai indifeso humus e lasciassero dietro di sé solo nude rocce? Nell'attuale modo di produzione viene preso prevalentemente in considerazione, sia di fronte alla natura che di fronte alla società, solo il primo, più palpabile risultato. E poi ci si meraviglia ancora che gli effetti più remoti delle attività rivolte a un dato scopo siano completamente diversi e per lo più portino allo scopo opposto; che l'armonia tra la domanda e l'offerta si trasformi nella loro opposizione polare, come mostra l'andamento di ogni ciclo industriale decennale (e anche la Germania, nel "crac", ne ha esperimentato un piccolo preludio); ci si meraviglia che la proprietà privata basata sul lavoro personale porti come necessaria conseguenza del suo sviluppo alla mancanza di ogni proprietà per i lavoratori, mentre tutti i possessi si concentrano sempre di più nelle mani di chi non lavora; che [...](1) (1) Qui il manoscritto si interrompe.
(Engels, "Dialettica della natura", cap. "Parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia", giugno 1876. Sta in Marx-Engels, Opere complete, vol. 25, pagg. 467-470, Editori Riuniti)
 
Il comunismo come positiva soppressione della proprietà privata quale autoalienazione dell'uomo , e però in quanto reale appropriazione dell’umana essenza da parte dell'uomo e per l'uomo; e come ritorno completo, consapevole, compiuto all'interno di tutta la ricchezza dello sviluppo storico, dell'uomo per sé quale uomo sociale , cioè uomo umano. Questo comunismo è, in quanto compiuto naturalismo, umanismo, e in quanto compiuto umanismo, naturalismo. Esso è la verace soluzione del contrasto dell’uomo con la natura e con l'uomo, la verace soluzione del conflitto fra esistenza ed essenza, fra oggettivazione e affermazione soggettiva, fra libertà e necessità, fra individuo e genere. È il risolto enigma della storia e si sa come tale soluzione.
(Marx, Manoscritti economici-filosofici del 1844, Opere complete, vol III, p323-4)
 
Dal punto di vista di una più elevata formazione economica della società, la proprietà privata del globo da parte di singoli individui apparirà così assurda come la proprietà privata di un uomo da parte di un altro uomo. Anche un'intera società, una nazione, e anche tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente, non sono proprietarie della terra. Sono soltanto i suoi possessori, i suoi usufruttuari e hanno il dovere di tramandarla migliorata, come boni patres familias , alle generazioni successive.
(Marx, Il Capitale, Libro III, Cap. 46, Editori Riuniti, vol. 3, pag.886-7)
 

17 novembre 2021