Contraddittoria sentenza della Corte di assise d'appello di Palermo
La trattativa Stato-mafia c'è stata ma Mori e Dell'Utri non hanno commesso reato
Lo scorso 23 settembre la seconda sezione della Corte di Assise di Appello di Palermo, nel processo sulla trattativa tra Stato e mafia e in parziale riforma della pronuncia di primo grado, ha assolto l'ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri con la formula “per non aver commesso il fatto”
nonché gli ufficiali dei carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno con la formula “perché il fatto non costituisce reato”,
mentre sono state sostanzialmente confermate le pene ai mafiosi Leoluca Bagarella – che ha ricevuto 27 anni di carcere anziché i 28 stabiliti in primo grado – e Antonino Cinà, medico fedelissimo di Totò Riina. che ha visto confermati 12 anni di carcere.
Il pregiudicato Massimo Ciancimino era uscito dal processo nel luglio dello scorso anno in quanto il reato di calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro era caduta in prescrizione.
In primo grado la seconda sezione della Corte di Assise di Palermo aveva condannato, il 19 luglio 2018, coloro che erano ritenuti responsabili della trattativa tra Stato e mafia, ossia Leoluca Bagarella a 28 anni di carcere, Antonino Cinà, Marcello Dell’Utri, Mario Mori e Antonio Subranni a 12 anni e Giuseppe De Donno a 8 anni. Nello stesso processo Massimo Ciancimino era stato condannato a 8 anni per calunnia mentre veniva assolto l’ex ministro democristiano Nicola Mancino, al quale era stato contestato il reato di falsa testimonianza.
Nella corposa sentenza di primo grado i giudici avevano accertato l'esistenza di una vera e propria trattativa tra lo Stato da una parte – rappresentato dai carabinieri Mori, Subranni e De Donno – e la mafia dall'altra, rappresentata quest'ultima da Dell'utri, Bagarella e il medico del capomafia Salvatore Riina, Cinà, scrivendo nelle motivazioni che “l’improvvisa accelerazione che ebbe l’esecuzione del dottore Borsellino” fu determinata “dai segnali di disponibilità al dialogo
– ed in sostanza, di cedimento alla tracotanza mafiosa culminata nella strage di Capaci – pervenuti a Salvatore Riina, attraverso Vito Ciancimino, proprio nel periodo immediatamente precedente la strage di via D’Amelio”
: in parole povere, la Corte d'Assise aveva accertato la violazione aggravata dell'articolo 338 del codice penale (violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti) dovuta alle pesantissime minacce mafiose - già concretizzatesi in gravissimi attentati nel 1993 a Roma, Firenze e Milano - di fronte alle quali lo Stato italiano, rappresentato dai tre ufficiali dei carabinieri, avrebbe intavolato trattative con l'organizzazione criminale al fine di scongiurare ulteriori stragi.
Ora la lettura del dispositivo della sentenza di appello, il 23 settembre scorso, sembra rimettere in discussione la trattativa, e per comprendere pienamente il percorso logico che hanno utilizzato i giudici per giungere a tale conclusione occorrerà attendere il deposito delle motivazioni, ma già dalla sola lettura del dispositivo emergono inquietanti incongruenze.
Infatti – per ciò che riguarda la posizione dei tre ufficiali dei carabinieri imputati con l’accusa di violenza o minaccia ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario - la formula assolutoria “perché il fatto non costituisce reato”
prevista dal primo comma dell'articolo 530 del codice penale farebbe intuire che la Corte d'Assise d'Appello abbia comunque ritenuto accertato il fatto storico della trattativa, così come la formula assolutoria usata per Dell'Utri “per non aver commesso il fatto
“, prevista dallo stesso comma.
I giudici sembra che abbiano ritenuto che il fatto storico della trasmissione della minaccia stragista dei mafiosi – da parte dei tre carabinieri - ai governi Amato e Ciampi tra il 1992 e il 1993 sia stato effettivamente commesso, ma che i tre abbiano agito senza dolo, neanche eventuale, ossia senza la consapevolezza di trasmettere una minaccia di tale portata a un organo costituzionale, ovvero senza alcuna intenzione di commettere un reato: la cosa, da un punto di vista giuridico, non sta in piedi.
D'altra parte i due mafiosi Cinà e Bagarella hanno visto sostanzialmente confermate le condanne per lo stesso, identico, reato per il quale, al contrario, i tre ufficiali dei carabinieri sono stati assolti: infatti, in base alle motivazioni della sentenza di primo grado, Cinà, medico e uomo di fiducia del boss mafioso Salvatore Riina, trasmise effettivamente insieme a Bagarella ai carabinieri il papello, cioè il foglio di carta con le richieste avanzate dallo stesso Riina per far cessare le stragi, ma se trattativa effettivamente vi fu – come sembra abbiano ritenuto i giudici della Corte d'Assise d'Appello, non si comprende il motivo per cui siano stati condannati solo i mafiosi e non anche i tre carabinieri.
Ancora diversa è la posizione di Dell'Utri, perché in base alle motivazioni della sentenza di primo grado egli è stato, nella sua doppia veste di politico - nonché strettissimo collaboratore di Berlusconi - e di mafioso, l’uomo che trasmise la minaccia di Salvatore Riina al primo governo Berlusconi: la vicenda storica, come si vede, è diversa ed è successiva a quella che vede coinvolti i tre carabinieri, ma anche qui non mancano le contraddizioni con quanto accertato in via definitiva dalla Cassazione, nel 2014, la quale ha condannato definitivamente Marcello Dell'Utri a sette anni di carcere per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa.
Pertanto uno dei fondatori di Forza Italia e da sempre strettissimo collaboratore di Silvio Berlusconi nelle sue imprese, Marcello Dell'Utri, veniva dichiarato incontrovertibilmente e a tutti gli effetti mafioso nel 2014, a seguito di indagini della Procura di Palermo iniziate addirittura nel 1994, ossia pressoché contemporaneamente ai fatti a lui contestati nel processo sulla trattativa tra Stato e mafia: sembra assai strano, pertanto, che Salvatore Riina, dopo avere trasmesso le sue minacce ai governi Amato e Ciampi tra il 1992 e il 1993 tramite personaggi che nell'organigramma statale non erano certo di primo piano (i tre ufficiali dei carabinieri), si sia fatto sfuggire l'occasione di interloquire con il governo immediatamente successivo a quello di Ciampi, ossia il governo Berlusconi che si insediò a maggio 1994 per durare fino a dicembre di quell'anno, avendo addirittura il capo dei capi a sua disposizione un mafioso che era contemporaneamente strettissimo collaboratore, nel lavoro e nella politica, del presidente del Consiglio in carica!
15 dicembre 2021