Foggia
Blitz contro il caporalato tra i braccianti immigrati
5 arresti, 10 aziende sotto accusa
La moglie del prefetto Di Bari, scelto da Salvini, tra gli indagati
La mattina del 10 dicembre 2021 un'operazione di polizia disposta dalla Procura della Repubblica di Foggia contro il caporalato ha portato a cinque arresti - due persone in carcere e tre ai domiciliari – e alla sottoposizione al controllo giudiziario di dieci imprese agricole, mentre altre undici persone sono state sottoposte all’obbligo di dimora e di presentazione alla polizia giudiziaria.
Per i sedici indagati le accuse, a vario titolo, sono di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.
Tra gli indagati sottoposti alla misura cautelare dell'obbligo di firma c'è anche Rosalba Bisceglia, amministratrice di una delle imprese coinvolte nell'indagine nonché moglie del prefetto Michele Di Bari, prefetto che nel 2019 l'allora ministro dell'Interno Matteo Salvini volle a capo del dipartimento per le Libertà civili e l’immigrazione del ministero dell’Interno, il quale si è dimesso a poche ore dalla sottoposizione di sua moglie alla misura cautelare.
L’indagine, che prende in esame le attività delle aziende coinvolte comprese tra luglio e ottobre 2020, ha potuto accertare che un uomo, il trentatreenne gambiano Saidy Bakary, mentre i braccianti erano intenti al lavoro in una delle imprese agricole, si avvicinava a dei cassoni pieni di pomodori e annotava qualcosa su un quaderno, allontanandosi poi velocemente alla vista dei carabinieri, i quali, però, lo inseguivano e lo identificavano.
Nel quaderno, poi sequestrato, erano dettagliatamente annotati i nomi di numerosi lavoratori, di aziende per le quali egli svolgeva la sua opera di intermediazione, gli orari di lavoro dei braccianti e i conti relativi ai loro salari, oltre che alle sue provvigioni.
Dagli accertamenti successivi la Procura di Foggia appurava che i braccianti, assoldati dal caporale africano, lavoravano anche 13 ore al giorno nei campi di pomodoro, guadagnando cinque euro per ogni cassa riempita, mentre al caporale dovevano versare cinque euro sia per il trasporto su mezzi precari e di fortuna sia per l’attività di intermediazione. Insieme a lui operava come caporale anche un trentaduenne senegalese che faceva anche lui da tramite con le imprese agricole del territorio e che forniva ai lavoratori informazioni sui controlli da parte dei carabinieri.
Tutti i braccianti supersfruttati sono immigrati, provenienti dall’Africa, che venivano impiegati a lavorare nelle campagne della Capitanata e trovavano alloggio in condizioni precarie nella baraccopoli di Borgo Mezzanone, dove c’è un accampamento che ospita circa duemila persone che vivono in precarie condizioni igienico sanitarie: interrogati successivamente dagli inquirenti, i lavoratori coinvolti hanno raccontato di essere stati reclutati e portati sul posto proprio dal cittadino gambiano il quale, sarebbe poi stato accertato, si occupava anche del profilo burocratico dell’assunzione, provvedendo all’invio dei documenti ai braccianti e curando anche la corresponsione della relativa retribuzione.
Le buste paga dei lavoratori, avrebbero infine accertato le indagini, sono risultate del tutto false in quanto venivano indicate un numero di giornate lavorative di gran lunga inferiori a quelle realmente lavorate e non tenevano conto dei riposi e delle altre giornate di ferie spettanti, senza considerare il fatto che i lavoratori non venivano sottoposti alla prevista visita medica, il tutto con la piena consapevolezza e complicità delle imprese agricole coinvolte.
Secondo la Procura, il volume d’affari complessivo delle aziende coinvolte nell’inchiesta era di circa cinque milioni di euro.
Il nome più noto tra gli indagati è, come si diceva sopra, quello di Rosalba Bisceglia, moglie del prefetto Di Bari e amministratrice dell'Azienda Agricola Bisceglia S.S.: il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Foggia scrive, nell'ordinanza di irrogazione della misura cautelare che la donna trattava direttamente con uno dei due caporali arrestati, Saidy Bakary, impiegando nella sua azienda “manodopera costituita da decine di lavoratori di varie etnie
” per la coltivazione dei campi “sottoponendo i predetti lavoratori alle condizioni di sfruttamento
” ampiamente desunte dalle “condizioni di lavoro (retributive, di igiene, di sicurezza, di salubrità del luogo di lavoro) e approfittando del loro stato di bisogno derivante dalle condizioni di vita precarie
”. La moglie del capo del dipartimento per le Libertà civili e l’immigrazione del ministero dell’Interno era, secondo il magistrato foggiano, “consapevole delle modalità delle condotta di reclutamento e sfruttamento
”.
22 dicembre 2021