Il nuovo zar Putin si rifà all'impero russo, che vuole restaurare, e attacca l'URSS di Lenin e Stalin
La Russia riconosce l'indipendenza del Donbass e vi invia sue truppe
USA e UE approvano sanzioni
Con una sceneggiatura curata fin nei minimi particolari, come la bandiera con l'aquila imperiale alle spalle, il nuovo zar della Russia Vladimir Putin nel tardo pomeriggio del 21 febbraio firmava in diretta televisiva il riconoscimento delle repubbliche separatiste del Donbass rispondendo all'appello che si era fatto inviare dai leader della Repubblica popolare di Donetsk e di quella di Lugansk. La prima conseguenza dell'atto formale sarà poco dopo l'ingresso dei militari russi presentato come una necessità per difendere le popolazioni russofone dagli attacchi delle forze di Kiev, una "operazione di peacekeeping" come una delle tante messe in atto dai concorrenti imperialisti che così camuffano i loro interventi militari.
Può darsi che le truppe di Putin si fermino a ridosso della linea fortificata costruita dal governo reazionario ucraino attorno ai territori delle repubbliche ribelli del Donbass, con una operazione lampo simile a quella messa in pratica in Georgia nel 2008 per il controllo delle regioni russofone dell'Abkazia e dell'Ossezia e per bloccare il procedimento già avviato dell'ingresso del paese nella Nato. Al momento questo sembra l'obiettivo minimo cercato da Putin, che da parte sua ha gettato benzina sul fuoco riattizzato da Biden e dalla Nato in Ucraina, ma nessuno può garantire che non ci siano ulteriori e pericolossimmi passi secondo quello scenario di guerra che comprende tutta l'Ucraina già descritto sui mezzi di informazione americani, e puntualmente rilanciato e arricchito di dettagli dalla filoimperialista La Repubblica
, che potrebbe portare verso un nuovo devastante conflitto in Europa dopo la Seconda guerra mondiale; quel conflitto ricordato negli allarmi lanciati della Casa Bianca e dal fido valletto inglese Boris Johnson sul rischio "della più grande guerra in Europa dal 1945" che sembrano l'ultima parte di quella pericolosa farsa messa in scena da Washington per dare tutta la colpa della crisi al rivale imperialista russo. Che da paese imperialista ha risposto alle equivalenti iniziative americane, prima fra tutte l'inglobamento nella Nato dei paesi dell'Europa dell'est, che si erano svincolati dalla cappa del socialimperialismo, e hanno portato l'alleanza militare a guida Usa fino alle frontiere russe.
Comunque sia l'opzione della guerra è stata ossessivamente ripetuta sui mezzi di informazione occidentali per farla anzitempo digerire e accettare alle masse popolari chiamate a sostenerla e non a ribellarsi; è stata dipinta come una possibilità alla pari della soluzione diplomatica a conferma che la guerra dei paesi imperialisti è appunto una prosecuzione della politica con altri mezzi come hanno rilevato Lenin, Stalin e Mao.
In fumo gli accordi di Minsk
La guerra in Ucraina riprende dal punto dove era stata momentaneamente congelata nel 2014 dagli accordi di Minsk la cui applicazione si è fermata alla prima parte, il cessate il fuoco, lasciando in sospeso la questione dell'autonomia delle repubbliche russofone nell'est del paese controllate di fatto dalla Russia. Che Putin per decreto ne prende ufficialmente il possesso, presidiato dai carri armati coi cannoni puntati verso Kiev e blocca l'avanzamento della Nato alle frontiere meridionali.
Gli accordi che prendono il nome dalla capitale bielorussa Minsk dove furono negoziati tra il 2014 da Ucraina, rappresentanti dei separatisti del Donbass, Russia e Osce e il 2015 da Ucraina, Russia, Germania e Francia, prevedevano il cessate il fuoco, l'avvio di un dialogo tra le parti ucraine per definire uno status speciale delle due regioni di Donetsk e Lugansk da riportare successivamente nella costituzione e il ritiro dei gruppi armati stranieri per ripristinare il controllo ucraino del confine. Il dialogo tra le parti non è neppure iniziato, o meglio si è fermato subito al momento di decidere se la prima mossa dovesse essere il riconoscimento dell'autonomia, chiesto da Mosca, o il ritiro delle truppe straniere chiesto da Kiev. Nel tempo anche il cessate il fuoco è stato più volte violato con colpi di cannone volati dalle due parti, oltre mille volte nel 2021.
Nel poneriggio del 21 febbraio la cronaca della crisi in Ucraina era occupata dalle iniziative del presidente francese Emmanuel Macron che dopo una serie di contatti telefonici con Putin e Biden prospettava la possibilità di un nuovo vertice tra i due caporioni imperialisti. Lo sforzo diplomatico da parte della Francia per conto della Ue prevedeva anche un possibile intervento di Mario Draghi pronto a partire per Mosca il giorno seguente. In scaletta erano indicati anche un possibile incontro tra il ministro defgli Esteri russo Lavrov e e il segretario di Stato americano Blinken il 24 febbraio, tra una serie infinita di vertici telematici di G7, Nato e via elencando. La giostra si fermava quando Putin telefonava a Macron e al cancelliere tedesco Olaf Scholz per informarli anticipatamente della decisione di firmare il decreto sul riconoscimento delle repubbliche di Donetsk e Luhansk.
Riconoscimento che arriverà con una cerimonia alla fine di un lungo intervento dedicato a spiegare le ragioni di una invasione camuffata malamente da operazione di pace. Putin non parte dalle scontate accuse alla controparte di Kiev di non rispettare i diritti della minoranza russofona in Ucraina ma inizia il suo discorso con una riscrittura a uso e consumo della storia del suo paese, così come di recenteaveva fatto il suo compare, il socialimperialista cinese Xi Jinping.
L'attacco all'Urss di Lenin e Stalin
Il nuovo zar Putin con alle spalle in evidenza una bandiera con l'aquila imperiale si rifà all'impero russo e attacca anzitutto l'URSS di Lenin e Stalin. Non lesina un colpetto anche ai revisionisti che lo hanno preceduto a Mosca e che hanno portato alla dissoluzione dell'Unione sovietica una volta abbandonata la linea politica di Lenin e Stalin ma per Putin "la disintegrazione del nostro paese unito è stata causata dagli errori storici e strategici dei leader bolscevichi e della direzione del partito, errori commessi in momenti diversi nella costruzione dello stato e nelle politiche economiche ed etniche
". Tra gli "errori" di Lenin e Stalin c'è sicuramente "il fatto che l'Ucraina moderna è stata interamente creata dalla Russia o, per essere più precisi, dalla Russia bolscevica e comunista
". Ma anche da "Krusciov che nel 1954 tolse la Crimea dalla Russia per qualche motivo e la diede all'Ucraina. In effetti, è così che si è formato il territorio della moderna Ucraina
".
La "colpa" di Lenin per il nuovo zar Putin sarebbe quello di aver posto "un ordinamento statale confederativo e uno slogan sul diritto delle nazioni all'autodeterminazione, fino alla secessione, alla base della statualità sovietica. Inizialmente furono confermate nella Dichiarazione sulla formazione dell'URSS nel 1922, e in seguito, dopo la morte di Lenin, furono sancite nella Costituzione sovietica del 1924
". "Dopo la rivoluzione
- argomenta il provetto storico zarista Putin - l'obiettivo principale dei bolscevichi era quello di rimanere al potere ad ogni costo, assolutamente ad ogni costo. Fecero di tutto per questo scopo: accettarono l'umiliante Trattato di Brest-Litovsk, nonostante la situazione militare ed economica della Germania del Kaiser e dei suoi alleati fosse drammatica e l'esito della prima guerra mondiale fosse scontato, e soddisfecero qualsiasi richiesta e desiderio dei nazionalisti all'interno del paese
", quindi "l'Ucraina sovietica è il risultato della politica dei bolscevichi e può essere giustamente chiamata 'l'Ucraina di Vladimir Lenin'. Egli ne fu il creatore e l'architetto
" e responsabile delle "dure istruzioni di riguardo al Donbass che fu effettivamente spinto in Ucraina
", e quindi oggi ce lo riprendiamo. Finito il periodo dell'URSS governata con "il Terrore Rosso e il rapido scivolamento verso la dittatura di Stalin, il dominio dell'ideologia comunista
" non è cambiato molto e, si duole Putin, "è un gran peccato che le basi fondamentali e formalmente giuridiche del nostro Stato non siano state prontamente ripulite dalle odiose e utopiche fantasie ispirate dalla rivoluzione
".
Lo sapevamo, Putin non è neanche un revisionista, e non doveva dimostrarcelo.
Anzi è talmente fiero del suo anticomunismo nazionalista dall'attaccare i governanti ucraini e occidentali di aver scordato in questo frangente il loro viscerale anticomunismo: “Volete la decomunistizzazione? Molto bene, questo ci sta bene. Ma perché fermarsi a metà strada? Siamo pronti a mostrare cosa significherebbe per l'Ucraina una vera decomunistizzazione.
” Insomma la piena e indiscutibile decomunistizzazione si compirebbe a suo dire solo col ritorno all'impero autocratico russo.
La sua tirata a favore dello sciovinismo russo, proprio quello combattuto da Lenin e Stalin con la costruzione dell'URSS e i diritti assegnati tramite la Costituzione alle Repubbliche sovietiche, è un appello alla borghesia russa a compattarsi attorno alla sua figura nel momento in cui e impegnato a fronteggiare l'attacco degli imperialisti Usa e Nato e a tentare di costruire un nuovo equilibrio meno sfavorevole alla Russia a protezione delle sue frontiere europee.
Le sanzioni di Usa e Ue
Proprio dagli imperialisti della Ue arrivava la prima condanna espressa dal presidente del Consiglio europeo Charles Michel e dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen che via tweet sostenevano che "il riconoscimento dei due territori separatisti in Ucraina è una palese violazione del diritto internazionale, dell'integrità territoriale dell'Ucraina e degli accordi di Minsk". E annunciavano che "la Ue e i suoi partner reagiranno con unità, fermezza e determinazione in solidarietà con l'Ucraina". Una fraseologia che sarà ripetuta dal premier britannico Boris Johnson e dal rappresentante permanente degli Stati Uniti all'Osce Michael Carpenter. Tutti facevano finta che la questione riguardasse la violazione dei già ampiamente violati accordi di Minsk e non comprendesse almeno la questione dell'ingresso dell'Ucraina nella Nato e altre questioni sugli armamenti poste sul tavolo da Mosca. In ogni caso, assicurava Putin, "gli accordi di Minsk non esistono più, non c'è niente da rispettare". Il governo reazionario di Kiev chiedeva una riunione urgente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite della quale ancora non conosciamo gli esiti.
Ci metteva del tempo a rispondere la Casa Bianca che da due mesi tuonava contro l'invasione russa dell'Ucraina, data per certa ogni 24 ore, e alla fine quando è arrivata non aveva ancora pronte le "dure sanzioni" più volte promesse e frenate anzitutto dagli alleati europeo. Il 22 febbraio la portavoce della Casa Bianca Jen Psaki annunciava il blocco di "nuovi investimenti, scambi e finanziamenti da parte di cittadini statunitensi" con le repubbliche secessioniste dell'Ucraina. Altre arriveranno se "la Russia dovesse invadere ulteriormente l'Ucraina". In attesa dell'intervento annunciato di Biden registriamo quello della Ue diretto intanto a "colpire le banche che stanno finanziando operazioni militari e di altro tipo russe in quei territori". Berlino annunciava il blocco del processo di autorizzazione dell'avvio del gasdotto North Stream 2. In un Consiglio straordinario convocato da Borrell la Ue approvava un pacchetto di sanzioni che colpiscono le banche russe, gli scambi commerciali con le due regioni secessioniste, i 351 membri della Duma che hanno unanimente approvato il riconoscimento dell'indipendenza e 27 oligarchi ed entità economiche che finanziano l'occupazione militare.
Non ci saranno problemi per i clienti europei, assicurava Putin che mischiava ad arte politica e affari, le forniture di gas russo non saranno interrotte. Suonava un tasto molto sensibile per alcuni paesi europei, a partire dall'Italia col presidente del Consiglio Draghi che il 19 febbraio, quando sembrava stesse preparando le valigie per Mosca, spiegava così i tentennamenti dell'imperialismo italiano: "si sa che certe sanzioni avrebbero più impatto sull'Italia e meno su altri paesi. E la risposta è abbastanza chiara: tutte le sanzioni che impattano indirettamente su mercato energetico impattano di più sul paese che importa più gas. E l'Italia ha solo il gas, non ha il nucleare e il carbone ed è più esposta". Dipende al 40% dal gas russo e non ha né il nucleare come la Francia, né il carbone come la Germania.
23 febbraio 2022