Elezioni comunali parziali del 12 giugno 2022
L’astensionismo alle stelle delegittima le istituzioni rappresentative della borghesia
Oltre 4 milioni di elettori disertano le urne (45,3%). I nuovi governanti eletti da una minoranza dell’elettorato. A Palermo il “centro-destra”, appoggiato dalla mafia, strappa il potere al “centro-sinistra”. Crolla la Lega. Liquefatto il M5S. Fratelli d’Italia succhia voti alla Lega. Il PD primo partito ma perde voti
Lavoriamo perché l'elettorato anticapitalista crei le istituzioni rappresentative delle masse fautrici del socialismo

Quasi un elettore su due non si è recato alle urne per le elezioni comunali parziali che si sono svolte il 12 giugno 2022 e che hanno interessato 971 comuni, di cui 142 con popolazione superiore a 15 mila abitanti e 829 pari o inferiore, per un totale di 8.831.743 elettori. Di questi oltre 4 milioni hanno disertato le urne. Altri hanno annullato la scheda o l’hanno lasciata in bianco.
È una grandissima vittoria per l’astensionismo e una grande sconfitta per i partiti, i governi del regime capitalista neofascista e per le istituzioni rappresentative della borghesia che escono dalla competizione con le ossa rotta e completamente delegittimati.
Qualche commentatore, assieme a qualche politicante borghese, accennano al fenomeno ormai non più ignorabile dell’astensionismo, ma poi sorvolano perché dovrebbero ammettere che è il fallimento pieno del parlamentarismo e dell’elettoralismo borghesi e la testimonianza clamorosa del baratro che divide le elettrici e gli elettori dalle istituzioni rappresentative borghesi, i suoi governi e i suoi partiti. Stanno invece affannandosi per trovare nuovi strumenti e nuove trappole per ricondurre gli elettori alle urne in vista soprattutto delle prossime elezioni politiche, come dimostra il libro bianco contro l’astensionismo sfornato recentemente dal governo Draghi. (cfr. Il Bolscevico n. 17/2022)
In questa tornata erano chiamati alle urne in particolare 22 comuni capoluoghi di provincia (Alessandria, Asti, Cuneo, Como, Lodi, Monza, Belluno, Padova, Verona, Gorizia, La Spezia, Parma, Piacenza, Lucca, Pistoia, Frosinone, Rieti, Viterbo, Barletta, Taranto, Messina e Oristano) e 4 capoluoghi di Regione (Genova, L’Aquila, Catanzaro e Palermo).
Tra le regioni, quelle maggiormente interessate al voto sono state la Sicilia con oltre 1 milione e mezzo di elettori coinvolti, la Lombardia con 1.044.753 elettori e il Veneto con 993.634 elettori.
Erano anche queste elezioni attese e temute dai vari partiti del regime capitalista neofascista. Per verificare i propri consensi elettorali dopo più di un anno dalla nascita del governo del banchiere massone Draghi che ha imbarcato quasi tutti i partiti presenti in parlamento a parte Fratelli d’Italia della Meloni. Per testare nuove alleanze come quella fra il PD e il Movimento 5 stelle di Conte. Per accertare con i numeri reali i sondaggi che davano ormai certo il sorpasso di Fratelli d’Italia a scapito della Lega all’interno della coalizione di destra e la conseguente incoronazione della Meloni a futuro candidato premier. Insomma, pur nella loro limitatezza di competizione parziale e locale, sono scesi in campo e si sono spesi in prima persona tutti i leader nazionali.
Ciò però non è bastato a convincere quasi la metà dell’elettorato a recarsi alle urne.
 
L’exploit dell'astensionismo
A livello nazionale considerando tutti i comuni delle regioni a statuto ordinario e della Sardegna (esclusi quindi i comuni siciliani e del Friuli Venezia-Giulia) il 45,3% degli elettori ha disertato le urne. 5,4% in più rispetto alle precedenti elezioni comunali (in genere svoltesi nel 2017) quando aveva disertato le urne il 39,9% degli elettori. In Sicilia la diserzione è stata del 48,7% ben al di sopra della media nazionale. Solo a Messina in 15 anni si è passati dal 25% di diserzione del 2008 al 45% di oggi.
Vanno oltre il 50% di diserzione gli elettori ad Alessandria, Como, Monza, Belluno, Genova, Lucca, Palermo. A Palermo col 58,2% si arriva a sfiorare il 60% e si registra il record fra le città capoluogo di questa tornata. Sempre a Palermo spetta anche il record dell’incremento col 10,8% di voti in più rispetto alle precedenti elezioni comunali. Vengono poi Padova (+10,5%), Messina (+9,4%), Alessandria (+9%).
In generale, sono le regioni del Nord e del Centro che guidano la classifica della diserzione quantunque queste regioni siano approdate più tardi all’astensionismo rispetto alle regioni del Sud d’Italia. Ormai invece sono proprio le regioni del Nord che anche in questa tornata fanno registrare le percentuali più alte: 54% in Liguria, 49,8% in Lombardia, 48,6% in Veneto, 47,8% in Toscana, 47,5% in Piemonte e Emilia-Romagna. Al Sud da segnalare il Molise con il 54,4% e, come abbiamo già detto, la Sicilia col 48,7%.
Si conferma poi il trend che sono soprattutto le grandi città a registrare le percentuali più alte di diserzione rispetto alle città medie e piccole. Vedi Genova (55,9%) e Palermo (58,2%).
Questo spiega anche il fatto che al Sud le percentuali della diserzione, in assenza di grandi città coinvolte a parte Palermo, risulti complessivamente più bassa che al Nord. Fermo restando che il voto di preferenza previsto nelle elezioni comunali e la costellazione di liste che inflazionano in occasione delle elezioni comunali al Sud porta di riflesso a un coinvolgimento più personale e familiare degli elettori con i candidati e a un loro maggiore controllo da parte di questi sui singoli elettori.
Pur essendo la diserzione dalle urne la componente di gran lunga maggiore e significativa dell’astensionismo, a questa vanno aggiunte anche le due altre componenti, ossia le schede nulle e bianche che peraltro in certe città sono lo strumento che alcuni elettori usano per sfuggire al controllo diretto dei partiti in lizza nonché delle pressioni mafiose. Per esempio a Palermo l’astensionismo totale è alla percentuale stellare del 62%, rispetto al 51,2% delle passate elezioni comunali del 2017, di cui il 58,2% è rappresentato dalla diserzione e un significativo 3,8% è rappresentato invece da schede nulle e lasciate in bianco. Uno scarto inferiore per esempio a Genova dove l’astensionismo totale è al 57,8% di cui il 55,9% è diserzione e l’1,9% sono schede nulle e bianche.
Comunque sia l’astensionismo è di gran lunga il primo “partito” ovunque, checché ne dica Gianni Letta che vanta il primato per il suo partito. E si tratta più che mai di un astensionismo qualificato e con una massiccia componente di elettorato di sinistra. Se si raffrontano in valore assoluto i voti ottenuti dall'astensionismo rispetto a quelli del primo partito in lizza, noterete dalle tabelle da noi elaborate che esso è da tre a otto volte superiore. Un abisso, che continua a crescere.
L’analisi dei flussi seppur ancora parziali, testimoniano che il “centro-destra” ha perso quote insignificanti di consensi verso l’astensionismo. Mentre massiccio è stato l’apporto degli elettori del Movimento 5 stelle che magari momentaneamente si erano rifugiati in questo partito pensandolo portatore di qualcosa di nuovo e alternativo rispetto agli altri partiti del regime e oggi, delusi per l’ennesima volta, sono confluiti nell’astensionismo. In pratica il M5S sta esaurendo completamente la sua funzione di drenaggio dell’astensionismo e il PD e i suoi satelliti (vedi Articolo Uno e Leu) non sono in grado di raccoglierne la missione.
 
Sindaci di una minoranza
Tutti i nuovi sindaci sono dati eletti solo da una minoranza dell’elettorato. Anche quelli che apparentemente hanno superato il 50% dei voti validi e sono stati così eletti al primo turno. Se invece si rapportano come sarebbe opportuno e corretto i voti ottenuti all’intero corpo elettorale degli aventi diritto, nessuno dei dodici sindaci dei comuni capoluogo eletti già al primo turno arriva nemmeno al 35% dei voti dell’elettorato. In testa (si fa per dire) c’è il riconfermato sindaco di destra dell’Aquila, Pierluigi Biondi col 34,2% di voti sull’intero corpo elettorale seguito dal suo compare di schieramento di Rieti Daniele Sinibaldi al 33,5%. Lo seguono i sindaci del “centro-sinistra” di Lodi Andrea Furegato al 32,3% e di Taranto Rinaldo Melucci al 30,4%. Gli altri sono tutti sotto il 30% dei consensi, fino al clamoroso dato del neosindaco di Palermo Roberto Lagalla che risulta eletto già al primo turno pur col 47,6% (per effetto della legge elettorale siciliana che stabilisce il quorum al 40% e non al 50% come nel resto d’Italia) ma se rapportato all’intero corpo elettorale equivale appena al 18,1%.
Di questi dodici sindaci già eletti, sette sono delle riconferme, ossia i sindaci di destra di Asti, Genova, La Spezia, Pistoia, l’Aquila e quelli di “centro-sinistra” di Padova e Taranto. Quasi tutti, come consuetudine, guadagnano qualche manciata di voti rispetto alla volta precedente, ma non si tratta di un vero e proprio plebiscito. La riconferma di Marco Bucci a Genova, tanto esaltata dal “centro-destra”, può contare solo su 59 voti in più rispetto alle passate consultazioni.
I nuovi voti acquisiti sono spesso il frutto di spostamenti trasversali fra destra e “centro-sinistra”, dovuti non di rado a motivi di opportunismo che spingono settori specie della borghesia medio-alta a salire sul carro dei vincitori, cioè di quelli che hanno materialmente gestito il potere in quelle città, specie se affidabili e collaborativi sul piano borghese. A Genova, per esempio, Bucci nel 2017 era sostenuto da 5 partiti e liste, lievitati a ben 9 quest’anno.
Non è dunque un caso che i sindaci uscenti tentino sempre la riconferma. Su 26 comuni capoluogo ci hanno tentato in 14, inclusi i due che erano stati sfiduciati dai propri consigli e si erano visti commissariare il comune. Mentre 7 sono quelli che non hanno potuto ripresentarsi perché già al secondo mandato. C’è poi chi fa una pausa e si ripresenta dopo cinque anni poiché la legge proibisce solo più di due mandati consecutivi. In questo modo l’ex sindaco di Catanzaro, Sergio Abramo, era arrivato al quarto mandato e Leoluca Orlando, l’ex sindaco di Palermo, di mandati ne aveva accumulati addirittura 5.
 
Il “centro-sinistra” batte il “centro-destra”
Per avere un quadro completo occorre ovviamente aspettare il ballottaggio del 26 giugno. Su 26 comuni capoluogo mancano ancora da assegnare in via definitiva la poltrona di sindaco in 14 comuni.
Al momento questa tornata elettorale se la sta portando a casa il “centro-sinistra”, pensando soprattutto che partiva svantaggiato rispetto al “centro-destra”. Dei 26 comuni capoluogo 18 erano governati dal “centro-destra”, 5 dal “centro-sinistra” e 3 da “Liste civiche”. Attualmente il “centro-sinistra” si riconferma in 2 comuni al primo turno (Padova e Taranto) e strappa Lodi alla destra. La destra si riconferma in 8 comuni dei 18 che aveva al primo turno (Asti, Belluno, Genova, La Spezia, Pistoia, Rieti, L’Aquila e Oristano) e strappa Palermo al “centro-sinistra” e Belluno a una Lista civica. Sui 14 comuni al ballottaggio in 7 il “centro-sinistra” è in vantaggio (Alessandria, Piacenza, Cuneo, Verona, Parma, Piacenza, Lucca), in 5 lo è la destra (Monza, Gorizia, Frosinone, Barletta, Catanzaro) e in 2 altrettante Liste civiche (Viterbo e Messina).
Un risultato, quello del “centro-sinistra” favorito soprattutto dalla alleanza col Movimento 5 stelle o dalla sua assenza che in passato impediva al PD e al “centro-sinistra” di accedere persino al ballottaggio. PD e M5S hanno appoggiato lo stesso candidato in ben 18 comuni sui 26 capoluogo di provincia, compresi i 4 capoluogo di regione. In sette comuni capoluogo, fra cui Belluno, Parma e Lucca, il M5S non ha nemmeno presentato proprie liste.
Il “centro-destra”, ormai completamente sbilanciato a destra per effetto della vaporizzazione di Forza Italia, è andato compatto in 20 comuni capoluogo su 26, compresi tre comuni capoluogo di regione, Genova, L’Aquila e Palermo. A Catanzaro invece Forza Italia e Lega hanno sostenuto un proprio candidato, Valerio Donato, che va al ballottaggio, mentre FdI si è presentato da solo, così come ha fatto a Viterbo e Parma.
Si tratta da entrambi gli schieramenti di test utili soprattutto in vista delle prossime elezioni politiche dove si dovranno comporre o scomporre nuove alleanze, stabilire leadership nazionali e liste locali. Un’opera tanto più complessa vista la drastica riduzione del numero dei parlamentari che dovranno essere eletti.
 
Palermo
Il caso Palermo merita una breve riflessione a parte. Qui il “centro-destra”, appoggiato dalla mafia, strappa il potere al “centro-sinistra” e fa eleggere Roberto Lagalla al primo turno. Tutto il “centro-destra” si è raggruppato all’ultimo tuffo dietro all’ex rettore dell’Università di Palermo ed ex assessore regionale alla sanità Roberto Lagalla ossia il candidato indicato da Salvatore Cuffaro, ex presidente regionale condannato a sette anni di carcere per favoreggiamento verso persone appartenenti a Cosa nostra, e da Marcello Dell’Utri, ex senatore e cofondatore di Forza Italia condannato anche lui a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Come biglietto da visita Lagalla ha disertato le commemorazioni per la strage mafiosa di Capaci il 23 maggio scorso.
A quattro giorni dalle elezioni comunali, con il “centro-destra” già esultante, un candidato di Forza Italia, Pietro Polizzi, uomo di Micciché, è stato arrestato con l’accusa di voto di scambio politico-mafioso. Secondo i magistrati Polizzi avrebbe chiesto l’aiuto elettorale di Agostino Sansone già condannato in via definitiva per mafia nel 2003. Negli stessi giorni e con le stesse motivazioni, viene arrestato anche Francesco Lombardo, ex consigliere comunale a Villabate, poi candidato al comune di Palermo con Fratelli d’Italia e finito in carcere assieme al boss Vincenzo Vella condannato tre volte per associazione mafiosa e ora libero solo perché, per un vizio di forma, la corte d’appello di Palermo un anno fa ha annullato la sua ultima condanna a 20 anni.
A ben dire Lagalla sull’“uso strumentale della questione morale” che avrebbe inquinato la campagna elettorale. Fatto sta che Lagalla a Palermo fa il pieno di voti proprio nei quartieri popolari più a rischio e condizionati dalle cosche. A Brancaccio, dove alla vigilia delle elezioni è stato arrestato il boss in contatto con l’aspirante consigliere di Fratelli d’Italia e dove il partito di Giorgia Meloni registra un proprio record, Lagalla ottiene il 60% dei voti validi. All’Uditore, dove abitava il capomafia che si era rivolto al candidato di Forza Italia Polizzi, ottiene il 45,1%. Meglio allo Zen dove ottiene il 54,5%.
Persino i politici finiti in manette hanno ottenuto preferenze: 61 voti a Pietro Polizzi; addirittura 171 per Francesco Lombardo. Più di fosche nubi si stanno addensando sulle prossime elezioni regionali siciliane che si dovrebbero tenere in autunno per le quali Cuffaro e Dell’Utri sono già a lavoro.
Risulta del tutto incomprensibile e fuorviante il commento del sindaco uscente di Palermo, Leoluca Orlando. “Auguro buon lavoro al nuovo eletto. Palermo è cambiata, da capitale della mafia a capitale dei diritti. Questo patrimonio non va disperso” (sic!).
Non un briciolo di autocritica per aver di fatto riconsegnato dopo ben 5 mandati e 22 anni di governo della città, Palermo nelle mani del “centro-destra” e del sodalizio politico-mafioso. Una città in dissesto, dove i quartieri popolari sono devastati dalla povertà, dalla disoccupazione, dal degrado e dall’abbandono e quindi più che mai in mano al ricatto mafioso e criminale. Un inferno che non ha mai conosciuto la promessa “primavera di Palermo” riservata solo al centro cittadino, a iniziative culturali e di immagine buone solo per attirare turisti e consensi fra la media e alta borghesia cittadina.
 
I risultati di lista
Il PD si vanta di essere tornato il primo partito. Almeno nella gran parte delle principali città. Un merito che deve tutto al crollo dei partiti avversari: dal M5S alla Lega, a Forza Italia, ecc. Non certo a un'avanzata di voti assoluti. Prendendo a campione solo le principali città, a Genova è il primo partito (dopo l’astensionismo) con l’8,3% del corpo elettorale, ma perde 3 mila 200 voti rispetto al 2017. Anche se non è un raffronto omogeneo e quindi del tutto corretto, a puro esempio indicativo perde 26.586 voti rispetto alle politiche del 2018 e ben 37.107 rispetto alle elezioni europee del 2019. A Palermo, dove pure è primo col 4% dei voti sul corpo elettorale, rispetto al 2017 guadagna appena 1.449 voti. Anche a Parma è il primo partito col 10,8% dei voti sul corpo elettorale, ma, nonostante l’assenza della lista del M5S, ne guadagna solo 5 mila rispetto al 2017 e ne perde più di 8 mila rispetto alle politiche e più di 9 mila rispetto alle europee.
Risultati assai amari per la Lega di Salvini. Oltre al flob dei referendum sulla giustizia, subisce un vero crollo alle elezioni amministrative. Pesa la cospicua perdita di consensi, del resto già registrata alle scorse elezioni amministrative di autunno, ma soprattutto il sorpasso quasi ovunque al Nord, persino nel suo storico feudo del Veneto, ad opera di Fratelli d’Italia. Cosicché sembra ormai fortemente messa in discussione la leadership di Salvini nella coalizione a tutto vantaggio della fascista doc Giorgia Meloni.
Il sorpasso c’è stato a Genova, La Spezia, Alessandria e Asti, dove pure viene riconfermato il sindaco leghista Maurizio Rasero già al primo turno. In Veneto lo smacco è ancor più bruciante perché Fratelli d’Italia supera la Lega a Verona e Padova. In Lombardia a Como e Monza. Solo a Lodi (dove peraltro passa il “centro-sinistra”) resta avanti di poco la Lega.
In Emilia-Romagna, a Piacenza, Fratelli d’Italia sopravanza la Lega. In Toscana stessa musica a Pistoia e a Lucca. Non va meglio al Sud dove a Palermo FdI raddoppia i voti della Lega.
Fratelli d’Italia ha letteralmente succhiato i voti della Lega, contando anche sul fatto di essere l’unico partito parlamentare ufficialmente all’opposizione, anche se poi sostiene le peggiori politiche del governo Draghi a cominciare dalle smanie belliciste.
Sembra così svanire il sogno di Salvini di fare della Lega un partito esteso e radicato in tutta Italia, pronto a prendere in mano in prima persona le redini del potere politico borghese. Mentre d’altra parte la ducessa Meloni si candida a prenderne la leadership in una guerra tutta interna a una destra marcatamente neofascista, razzista e presidenzialista.
Solo due parole su Italia Viva di Matteo Renzi e Azione di Carlo Calenda che vantano mirabolanti vittorie. Calenda addirittura ha esclamato inverosimilmente all’indomani del voto: “Abbiamo riportato gli elettori alle urne”. Che impostore, che bugiardo.
A parte le misere percentuali ottenute che se rapportate all’intero corpo elettorale non raggiungono l’1%, c’è solo da sottolineare che, a riprova della sua sostanziale natura di destra, Renzi ha sostenuto apertamente due candidati di “centro-destra”, Bucci a Genova e Valerio Donato a Catanzaro. Stava dando il proprio appoggio anche al candidato di Palermo Lagalla, ma all’ultimo minuto si è pentito. A Rieti, il candidato sindaco di Fratelli d’Italia, Daniele Sinibaldi, già assessore della città, è stato sostenuto dal cartello “Rieti al centro” al cui interno vi sono esponenti di Italia Viva.
Per quanto riguarda Calenda alleato in questa tornata con +Europa della Bonino,
ha cercato soprattutto di puntare su cavalli vincenti o comunque che gli garantissero poltrone e visibilità. In diverse città ha sostenuto candidati del “centro-sinistra”. In altri ha corso da solo. In altri ancora ha messo il cappello su candidati di liste civiche. Ora pretende di fare l’asse del “terzo polo”. Ne vedremo gli sviluppi.
Per il Movimento 5 stelle la “rifondazione” di Conte non sembra dare buoni frutti. Siamo di fronte all’ennesima disfatta. Ormai non si calcolano più i milioni di voti persi nel volgere di una manciata di anni.
Ovunque il M5S ottiene percentuali (seppure calcolate sui soli voti validi) sotto il 5%. Cinque anni fa, alle passate comunali, per non parlare alle politiche 2018 e ancora alle europee 2019, le percentuali erano marcatamente a due cifre.
Non ha nemmeno presentato la propria lista in città importanti e storiche come Parma e Verona.
In Sicilia, lo storico granaio di voti per il movimento, il M5S ha presentato la lista in coalizione con il PD in soli 3 comuni su 120 (Palermo, Messina e Scordia in provincia di Catania).
A Palermo è al 2,2% sul corpo elettorale. A Genova, la città del suo fondatore, si è fermato all’1,7% passando dai 39.971 mila voti del 2017 agli 8.381 voti di oggi. Per non parlare del fatto che alle politiche del 2018 a Genova di voti ne aveva presi 94 mila. E ci fermiamo qui. Inutile infierire. Ormai il M5S è un partito liquefatto e in liquidazione.
Il M5S perde in tutte le direzioni come è normale vista la natura eterogenea del suo elettorato, ma perde soprattutto verso l’astensionismo liberando finalmente quegli elettori che si erano fatti di nuovo ingannare da questa formazione solo apparentemente “antisistema”.
Praticamente scomparsi sul piano elettorale i partiti alla sinistra del PD. Qualcuno per volontà propria, essendosi di fatto direttamente o indirettamente posizionato in area PD anche attraverso liste di sostegno ai suoi candidati sindaci.
Altri perché, pur presentando proprie liste e candidati, da soli o con altri, come PCI, PRC e Potere al popolo, in una manciata di città, ottengono scarsissimi risultati, completamente inutili anche al fine di entrare nei consigli comunali.
Vogliamo solo segnalare un episodio che indica a quali assurdità può condurre l’elettoralismo borghese. Ci riferiamo al fatto che il PC di Marco Rizzo, come annunciato dal suo segretario nazionale, e Antonio Ingroia, fondatore di Azione civile, a Palermo hanno sostenuto la candidatura a sindaco dell’europarlamentare ex leghista, no euro e no vax e oggi cosiddetta “rosso bruna”, il colore dei filo imperialisti russi, Francesca Donato, promotrice del manifesto “Rinascita Repubblicana”.
Al di là dei risultati più o meno significativi si tratta comunque del fallimento dell'elettoralismo e del partecipazionismo borghesi che continuano a spargere fra l'elettorato di sinistra illusioni elettorali, costituzionali e governative e quindi la fiducia nelle istituzioni rappresentative borghesi ormai marce, irrecuperabilmente fascistizzate e inservibili a un qualsiasi uso da parte del partito del proletariato, in contraddizione con la loro stessa definizione di partiti comunisti. Pur tuttavia questi partiti in questo modo tengono intrappolati nell’elettoralismo una parte importante dell’elettorato di sinistra che avrebbe invece bisogno di liberarsi completamente da queste inutili catene e agire liberamente sul fronte della lotta di classe e di piazza.
 
Il nostro lavoro
Il PMLI anche in questa tornata elettorale ha fatto ciò che ha potuto, dove era presente, per propagandare l’astensionismo marxista-leninista pur nel consueto e vergognoso silenzio stampa. In quest’ambito salutiamo il risultato degli eroici ed esemplari compagni di Ischia dove l’astensionismo si attesta al 37,2% con un incremento del 6,5% rispetto alle precedenti comunali.
Ma date le sue attuali forze e mezzi è impossibile che raggiunga tutte le elettrici e gli elettori di sinistra che se già praticano l’astensionismo lo fanno ancora in grandissima parte spontaneamente e se ancora non lo praticano, vanno convinti su un piano di classe, anticapitalista e della lotta per il socialismo. Occorre continuare a lavorare sodo per elevare la coscienza politica e la combattività anticapitalista e antistituzionale delle masse e qualificare l’astensionismo tattico come un voto dato al PMLI e al socialismo. Dobbiamo in particolare lavorare perché l’elettorato anticapitalista crei le istituzioni rappresentative delle masse fautrici del socialismo.
Come afferma il Comitato centrale del PMLI nel documento del 14 gennaio 2018: “Ovviamente, date le condizioni oggettive e soggettive del nostro Paese, il socialismo non è dietro l'angolo, ma possiamo progressivamente avvicinarci ad esso se le avanguardie del proletariato, delle masse lavoratrici, pensionate, disoccupate, popolari, femminili e giovanili e le elettrici e gli elettori coscienti faranno propria questa proposta strategica e si uniranno al PMLI. Anche sul piano elettorale, astenendosi (disertando le urne, annullando la scheda o lasciandola in bianco) e creando in tutte le città e in tutti i quartieri le istituzioni rappresentative delle masse fautrici del socialismo, ossia le Assemblee popolari e i Comitati popolari basati sulla democrazia diretta.
Le Assemblee popolari devono essere costituite in ogni quartiere da tutti gli abitanti ivi residenti - compresi le ragazze e i ragazzi di 14 anni - che si dichiarano anticapitalisti, antifascisti, antirazzisti e fautori del socialismo e disposti a combattere politicamente ed elettoralmente le istituzioni borghesi, i governi centrale e locali borghesi e il sistema capitalista e il suo regime.
Ogni Assemblea popolare di quartiere elegge il suo Comitato popolare e l'Assemblea dei Comitati elegge, sempre attraverso la democrazia diretta, il Comitato popolare cittadino. E così via fino all'elezione dei Comitati popolari provinciali, regionali e del Comitato popolare nazionale.
I Comitati popolari devono essere composti dagli elementi più combattivi, coraggiosi e preparati delle masse anticapitaliste, antifasciste, fautrici del socialismo eletti con voto palese su mandato revocabile in qualsiasi momento dalle Assemblee popolari territoriali. Le donne e gli uomini - eleggibili fin dall'età di 16 anni - devono essere rappresentati in maniera paritaria.
I Comitati popolari di quartiere, cittadino, provinciale e regionale e il Comitato popolare nazionale devono rappresentare il contraltare, la centrale alternativa e antagonista rispettivamente delle amministrazioni ufficiali locali e dei governi regionali e centrale”.
Questa è solo una sintesi della nostra proposta politica e organizzativa che noi sottoponiamo al vaglio e alla discussione di tutte le forze anticapitaliste che sono veramente interessate a elaborare assieme un progetto per una nuova società.


15 giugno 2022