Intervenendo in parlamento
Draghi riafferma: “Cercare la pace nei termini che sceglierà l'Ucraina”
Di Maio scinde il M5S formando Insieme per il futuro

Il 21giugno Mario Draghi si è recato in Senato, e il giorno successivo alla Camera, per “comunicazioni in vista del Consiglio europeo del 23 e 24 giugno 2022”. Avendo all'ordine del giorno temi come la riconferma della linea delle sanzioni alla Russia e degli aiuti all'Ucraina, compreso l'invio di armamenti, il sostegno dell'Italia alla sua candidatura alla Ue e le misure per fronteggiare la crisi legata alle forniture energetiche dalla Russia, si trattava di un passaggio non del tutto scontato per la tenuta della maggioranza e dello stesso governo presieduto dal banchiere massone.
Non per nulla, poche ore prima del discorso del premier in Senato, si è consumata una clamorosa scissione nel M5S col ministro degli Esteri e suo ex capo politico, Luigi Di Maio, che coglieva proprio questo momento per regolare i conti in sospeso con Giuseppe Conte e uscirsene dal Movimento portandogli via una sessantina di parlamentari tra senatori e deputati, tra cui diverse personalità di peso come sottosegretari e presidenti di Commissione, per fondare un gruppo parlamentare autonomo denominato provvisoriamente Insieme per il futuro. Relegando di colpo al secondo posto dopo la Lega, tra i partiti che sostengono il governo, quella che dall'inizio della legislatura era la prima forza del parlamento e della maggioranza governativa.
Il passaggio parlamentare del 21 giugno doveva essere nelle speranze di Conte e del M5S l'occasione per una rivincita, dopo che Draghi aveva snobbato per ben due volte (prima e dopo il viaggio a Washington per incontrare Biden), la sua richiesta di ridiscutere in parlamento la politica estera sull'Ucraina, in particolare sull'invio delle armi e sul ruolo dell'Italia per favorire trattative di pace. Conte chiedeva infatti da tempo di ripristinare la centralità del parlamento su questi temi, di fatto monopolizzati dal Premier e dai ministri degli Esteri e della Difesa fin dall'inizio della guerra scatenata da Putin, anche permettendo all'assemblea di pronunciarsi su di essi con un voto. Un modo per cercare di rilanciare il peso del M5S nel governo, che non ha più toccato palla dai tempi del magro contentino strappato sulla controriforma Cartabia della giustizia; e la sua stessa leadership in un Movimento sempre più allo sbando dopo le ripetute batoste elettorali, in preda alle faide tra correnti e con forti spinte interne per l'uscita dal governo. Per non parlare della guerra sempre più aperta con il rivale Di Maio, ormai diventato decisamente governista, atlantista e sostenitore fedele di Draghi.
 

La trattativa sulla risoluzione della maggioranza
Ultimamente la contesa tra i due si era perciò attestata proprio sulla politica estera, con Conte sempre più tentato di rappresentare le spinte sia interne che esterne di quell'area eterogenea che va dai pacifisti ai filoputiniani, e con Di Maio che accusava Conte e il M5S di voler “disallineare l'Italia dalla Nato” mettendo “la sicurezza dell'Italia a rischio”, e rinfacciandogli anche le lodi strumentali arrivate dall'ambasciatore russo. Tanto che il vertice del Movimento prendeva anche in considerazione l'idea della sua espulsione, pur scartandola per l'impossibilità pratica e per non dargli un vantaggio mediatico.
In parallelo alla resa dei conti tra i due si svolgeva un'estenuante trattativa tra il governo e il M5S, durata fino a poche ore prima del discorso di Draghi, per definire il contenuto e la forma della risoluzione della maggioranza da votare il 21 e 22 in parlamento. Con i nodi più controversi rappresentati dall'invio delle armi e dalla possibilità o meno di ridiscuterlo in parlamento. Per il governo, infatti, l'invio non può essere rimesso in discussione, dal momento che è stato sancito con una delega in bianco fino al 31 dicembre, dalla risoluzione della maggioranza approvata il 1° marzo. E poi si tratta di materia concordata con gli alleati e non può essere sottoposta di volta in volta al vaglio parlamentare, altrimenti il governo sarebbe stato “commissariato” dal parlamento.
Su questo Draghi è stato irremovibile fino a mettere Conte con le spalle al muro, minacciando le sue dimissioni nel caso il M5S uscisse dalla maggioranza, e sfidandolo a prendersi la responsabilità di una crisi di governo in piena situazione di emergenza. Il banchiere massone ha tenuto duro fino a scoprire il bluff di Conte, anche perché tutte le altre risoluzioni presentate contenevano in vario modo, ma abbastanza esplicitamente, la richiesta di sospendere l'invio delle armi all'Ucraina. Tutte poi agevolmente respinte dal governo e dai partiti della maggioranza, ma sintomo di un dissenso non trascurabile tra i parlamentari.
 

Le risoluzioni di opposizione e quella finale del governo
La risoluzione di Alternativa e di altri ex M5S, per esempio, invitava il governo “a non partecipare ad alcun intervento militare, a non inviare ulteriori armamenti, a ritirare ogni assetto militare dispiegato e a farsi promotore dei valori di pace e dialogo, in seno all'Unione europea”. Quella di Fratoianni, a nome di SI, chiedeva di “sospendere la fornitura di equipaggiamento militare letale, concentrando tali risorse sull'assistenza umanitaria, e lavorare per favorire una progressiva de-escalation e all'apertura di canali negoziali”. E quella del senatore di Italexit, Paragone, impegnava addirittura il governo “a non avallare in sede europea, e in ogni altra sede, un ulteriore invio di armi pesanti, favorendo esclusivamente il rafforzamento della via diplomatica”, a “non votare favorevolmente lo status di candidato dell'Ucraina a entrare nell'Unione europea” e a “promuovere, in ogni sede, il rispetto degli accordi di Minsk sottoscritti nel 2014”.
Al contrario, la risoluzione di Fratelli d'Italia, secondo la scaltra tattica della ducessa Meloni per allargare le contraddizioni in seno alla maggioranza, si proponeva come la più coerentemente atlantista, se non addirittura di sostegno a Draghi, invitando il governo “a proseguire la propria azione di sostegno all'Ucraina di fronte all'invasione da parte della Federazione russa secondo le indicazioni contenute nella citata risoluzione (quella governativa del 1° marzo, ndr), e nel rispetto del quadro di alleanze internazionali dell'Italia”.
Era chiaro che Draghi non poteva permettere che la risoluzione del governo, sul piano della fedeltà occidentale e delle armi all'Ucraina, potesse essere più debole di quella dell'opposizione, sia pure “patriottica” e atlantista, dei fascisti di FdI. E infatti alla fine Conte ha dovuto ingoiare il rospo, accettando una irrisoria sfumatura aggiunta nel testo che rinuncia a rimettere in discussione l'invio delle armi e richiama solo vagamente la “centralità del parlamento”: impegnando cioè il governo “a continuare a garantire, secondo quanto precisato dal decreto-legge n. 14 del 2022, il necessario e ampio coinvolgimento delle Camere con le modalità ivi previste, in occasione dei più rilevanti summit internazionali riguardanti la guerra in Ucraina e le misure di sostegno alle istituzioni ucraine, ivi comprese le cessioni di forniture militari”. Anche perché se Conte fosse andato alla rottura con Draghi, avrebbe fornito il miglior alibi all'operazione di Di Maio, che stava per annunciare la scissione proprio in nome dell'atlantismo, della difesa dell'Ucraina e della stabilità del governo.
 

L'intervento di Draghi in Senato
È così che Draghi ha potuto recarsi in Senato il 21 alle 15 ostentando tranquillità, pur mantenendo una certa prudenza consistente nell'evitare di pronunciare la parola “armi” o altri riferimenti al braccio di ferro con Conte. Ma ribadendo comunque la sua linea di pieno sostegno all'Ucraina e di sanzioni alla Russia, in accordo con la Nato, la Ue e il G7, affinché “Mosca cessi le ostilità e accetti di sedersi davvero al tavolo dei negoziati”. Parlando della sua visita a Kiev assieme a Macron e Scholz, Draghi ha detto che “il presidente Zelensky ci ha chiesto di continuare a sostenere l'Ucraina, per poter raggiungere una pace che rispetti i loro diritti e la loro volontà. Solo una pace concordata e non subita può essere davvero duratura”.
Il premier ha poi aggiunto di aver ribadito a Kiev che “l'Italia vuole l'Ucraina nell'Unione europea e vuole che abbia lo status di candidato”, che le sanzioni alla Russia “funzionano”, dato che il costo inflitto all'economia russa sarà pari quest'anno all'8,5% del suo Pil, e che tuttavia i canali di dialogo con Mosca rimangono aperti: “Non smetteremo di sostenere la diplomazia e cercare la pace; una pace nei termini che sceglierà l'Ucraina”, ha ribadito con forza Draghi.
Durante la discussione in aula è emersa tutta la difficile posizione del M5S a poche ore dalla scissione di Di Maio, che per di più aveva ricevuto il tempestivo ringraziamento del suo omologo ucraino Kuleba. Lo si è visto palpabilmente negli interventi del senatore pentastellato Ferrara e della sua capogruppo Castellone, tutti improntati – archiviato completamente il tema delle armi - a riaffermare affannosamente i tre pilastri “europeista, atlantista e la vocazione mediterranea” della “nostra collocazione geopolitica” e il “massimo sostegno senza se e senza ma all'Ucraina contro l'aggressore”. Mentre invece i fascisti di FdI hanno avuto buon gioco a ironizzare sulle divisioni della maggioranza sulla politica estera e a presentarsi come i veri “patrioti italiani” che rispettano le alleanze internazionali difendendo l'onore dell'Italia da chi tradendole vorrebbe farla diventare il “ventre molle” dell'Occidente.
 

L'asse draghiano si rinforza in vista delle future elezioni politiche
Se al Senato, mentre non era ancora chiaro quanti parlamentari M5S avrebbero seguito Di Maio, Draghi è stato prudente, non sfiorando nemmeno il tema delle armi che era stato al centro delle polemiche nei giorni precedenti, il giorno dopo alla Camera, quando è apparso evidente che il M5S, avendo ora meno parlamentari della Lega, è diventato ininfluente per la sopravvivenza del governo, il banchiere massone si è potuto levare i sassolini dalla scarpa lasciando ogni reticenza e bacchettando Conte e tutti coloro che in un modo o nell'altro mettono in dubbio la giustezza o l'utilità dell'invio di armi all'Ucraina. Parlando infatti del “sostegno a continuare sulla strada disegnata dal DL 14 del 2022” (quello sulle armi all'Ucraina, ndr), un sostegno “che è stato unito, con qualche eccezione”, il premier ha detto in tono sferzante: “C'è una fondamentale differenza tra due punti di vista: in base a uno, il mio sostanzialmente, l'Ucraina si deve difendere. Le sanzioni, l'invio di armi servono a questo. L'altro punto di vista è diverso: l'Ucraina non si deve difendere, non dobbiamo fare le sanzioni, non dobbiamo mandare le armi; la Russia è troppo forte, perché combatterla? Lasciamo che entri, lasciamo che l'Ucraina si sottometta; dopotutto, cosa vogliono questi”?
Avendo nella maggioranza che lo sostiene non solo una forza ambigua come il M5S, ma fior di putiniani come Salvini e Berlusconi, Draghi ha anche mandato a tutti loro un eloquente segnale, quando alla Camera il governo, al contrario di quanto aveva fatto al Senato, non ha dato parere negativo sulla risoluzione di FdI, che infatti è passata insieme a quella del governo, mentre tutte le altre sono state respinte. Come dire che c'è un asse draghiano che sugli interessi nazionali può anche andare oltre il perimetro dei partiti della maggioranza.
La scissione di Di Maio, oltre che per garantirsi il proprio futuro politico lasciando la barca del M5S che affonda, era stata preparata da tempo per rinforzare questo asse anche in vista delle ormai prossime elezioni politiche, creando una nuova formazione “centrista” che va ad aggiungersi alle numerose altre (Renzi, Calenda, Toti ecc.) in competizione fra loro ma tutte aventi il banchiere massone come riferimento politico assoluto.

29 giugno 2022