Dopo un discorso presidenzialista Draghi si dimette di nuovo. Elezioni il 25 settembre
Pietoso spettacolo del parlamentarismo borghese
Al M5S la palma della inaffidabilità
Impugnare l'arma dell'astensionismo elettorale per delegittimare il capitalismo e i suoi governi e partiti, e per avanzare verso la conquista del socialismo e il potere politico del proletariato

Quello che è andato in scena mercoledì 20 luglio in Senato è il più pietoso spettacolo del parlamentarismo borghese. Da una parte il premier Mario Draghi, che con il suo più duro e arrogante piglio presidenzialista e sull'onda della campagna mediatica interna e internazionale che lo invocava come salvatore dell'Italia sull'orlo del baratro, chiedeva ai partiti della sua maggioranza un atto di sottomissione alla sua autorità e alla sua agenda di programma, prendere o lasciare. Dall'altra questi ultimi che, non avendo il coraggio di sfiduciarlo a viso aperto, sono riusciti lo stesso a staccare la spina al suo governo astenendosi dal votare la risoluzione del democristiano Casini, eletto nelle liste del PD, che gli avrebbe rinnovato la fiducia.
Parliamo del M5S di Giuseppe Conte, che dopo mille giravolte e convulse trattative finali con Letta e Speranza che lo scongiuravano di votare la fiducia a Draghi, magari uscendo subito dopo dal governo per dargli solo un “appoggio esterno”, ha finito per astenersi pur restando in aula per non far mancare il numero legale alla votazione. E parliamo della Lega di Salvini e di FI di Berlusconi, che avevano già scelto di andare alle elezioni, il primo per riconquistare la leadership della destra insidiatagli dalla ducessa Meloni, e il secondo ingolosito dall'idea di tornare trionfalmente in Senato dopo la sua espulsione nel 2013, e magari di esserne eletto alla presidenza, e da lì manovrare per mettersi al riparo dalle inchieste giudiziarie che ancora lo riguardano.
Infatti anche i due banditi, già in campagna elettorale e tornati per l'occasione a riunificare tutta la destra neofascista insieme alla Meloni, non hanno votato la risoluzione Casini, coprendosi furbescamente dietro l'operato del M5S ma risultando di fatto determinanti per la caduta di Draghi. Al quale non è restato altro che salire al Quirinale per confermare le sue dimissioni, stavolta definitive, nelle mani di Mattarella. E a quest'ultimo di annunciare mestamente lo scioglimento anticipato delle Camere e convocare le elezioni, che si terranno il 25 settembre.
 

Critiche sferzanti ai partiti di governo
Draghi era stato rinviato alle Camere da Mattarella - dopo che si era dimesso una prima volta sostenendo che era venuta meno la maggioranza a causa dell'astensione del M5S sul decreto Aiuti – per spiegarne le ragioni, visto che una maggioranza numerica ce l'aveva ancora, ed eventualmente sottoporsi ad un nuovo voto di fiducia. Nello spiegare le motivazioni delle sue dimissioni il banchiere massone ha lamentato “il progressivo sfarinamento della maggioranza sull'agenda di modernizzazione del Paese”, che ha attribuito al “crescente desiderio di distinguo, di divisione” dei partiti che la compongono.
Senza citarli espressamente ha rimproverato al M5S i “tentativi di indebolire il sostegno del governo verso l'Ucraina, di fiaccare la nostra opposizione al disegno del presidente Putin”, a IV l'opposizione alla riforma del CSM, a Lega e FI l'opposizione alla riforma del Catasto e delle concessioni balneari, e così via. E in un crescendo di toni sempre più sferzanti è arrivato a proclamare che “l'unica strada, se vogliamo ancora restare insieme, è ricostruire da capo questo patto con coraggio, altruismo e credibilità”. Perché, ha aggiunto, “a chiederlo sono soprattutto gli italiani”; e ha citato a questo proposito “la mobilitazione di questi giorni da parte di cittadini, associazioni e territori a favore della prosecuzione del Governo”; mobilitazione che è “senza precedenti ed impossibile da ignorare”.
Forte di questo richiamo al suo presunto investimento popolare, il banchiere massone ha attaccato con ancor più forza, sempre senza citarli, i leader che non l'hanno sostenuto convintamente: Salvini, perché invece di sostenere la riforma della concorrenza, inclusi taxi e concessioni balneari, si è messo a sostenere “proteste non autorizzate e talvolta violente contro la maggioranza di governo”; e Conte, per non aver apprezzato l'interessamento del governo sulla riduzione del cuneo fiscale e sul salario minimo, due delle nove richieste che gli aveva presentato. A entrambi ha ribadito, in tono che non ammette repliche, che “la nostra posizione è chiara e forte nel cuore dell'Unione europea, del G7, della NATO”. E che “dobbiamo continuare a sostenere l'Ucraina in ogni modo, come questo Parlamento ha impegnato il Governo a fare con una risoluzione parlamentare. Come mi ha ripetuto ieri al telefono il presidente Zelensky, armare l'Ucraina è il solo modo per permettere agli ucraini di difendersi”.
E a tutti i partiti indistintamente ha lanciato un avvertimento a non cavalcare proteste popolari contro impianti “essenziali per il nostro fabbisogno energetico, per la tenuta del nostro tessuto produttivo”, come quella degli abitanti di Piombino contro il rigassificatore, la cui installazione va ultimata entro la prossima primavera: “È una questione di sicurezza nazionale”, ha sentenziato perentoriamente il premier.
 

Il malcelato presidenzialismo di Draghi
Infine Draghi ha voluto concludere le sue “comunicazioni” facendosi ancora una volta forte del sostegno orchestrato dai leader dell'Occidente, dalla grande finanza nazionale e internazionale, dalla Confindustria e dai mass media asserviti al regime capitalista neofascista, per rinforzare il suo diktat presidenzialista al parlamento e ai partiti: al parlamento, a cui ha chiesto di “accompagnare con convinzione” il governo, pur “nel reciproco rispetto dei ruoli” (tradotto, il governo decide e il parlamento ratifica senza creare inutili ostacoli); e ai partiti, a cui ha chiesto se fossero “pronti a ricostruire questo patto”. “Siamo oggi in quest'Aula - sono qui oggi in quest'Aula - a questo punto della discussione solo perché gli italiani lo hanno chiesto”; e “la risposta a queste domande la dovete dare non a me, ma a tutti gli italiani”, li ha sferzati infatti il banchiere massone, ergendosi in tutta la sua statura di “salvatore della patria” investito direttamente dal popolo.
Questi passaggi da leader presidenzialista, la cui autorità proviene dai poteri forti ed è riconosciuta direttamente dal Paese, infischiandosene del consenso dei partiti e del parlamento, hanno sollevato diverse critiche, dal M5S, allo stesso Casini, e a FI, che con l'ex missino Gasparri gli ha ricordato che lui era lì non perché glielo avevano chiesto gli italiani, ma perché ce lo aveva mandato Mattarella rinviandolo alle Camere come da prassi costituzionale. Persino la nostalgica mussoliniana Meloni ha sfruttato l'occasione per dichiarare che Draghi voleva “i pieni poteri”.
Nella replica, in cui ha attaccato a testa bassa il M5S sul Reddito di cittadinanza e sul superbonus edilizio (chiudendo con ciò ad ogni ipotesi di compromesso con Conte per continuare a governare), Draghi non solo non ha fugato i sospetti dell'aula per il suo malcelato approccio presidenzialista, ma li ha se possibile rinforzati con la sua autodifesa, ribadendo con stizza che è il sostegno dei cittadini che “mi ha indotto a proporre o riproporre il patto, un patto, di coalizione e sottoporlo al vostro voto: siete voi che decidete. Quindi, niente richieste di pieni poteri. Va bene”?
 

Le manovre dei partiti dopo il “draghicidio”
Questa crisi è emblematica del punto più basso toccato dallo squallido parlamentarismo borghese e della degenerazione dei partiti borghesi del regime capitalista neofascista. Essa è stata innescata da Conte, per cercare di frenare la caduta verticale del M5S nei sondaggi, confermata anche dalle recenti elezioni comunali, anche se il colpo di grazia a Draghi lo hanno dato Salvini e Berlusconi, che hanno anteposto i loro interessi di partito perfino alle richieste dei poteri forti che lo volevano ancora alla guida del Paese. Infatti, per proseguire fino alla fine della legislatura gli hanno posto delle condizioni inaccettabili che lo avrebbero reso loro ostaggio, come la sostituzione di tutti i ministri e sottosegretari del M5S, più la ministra Lamorgese e il ministro Speranza, con altrettanti uomini della Lega e di FI, e di inserire le loro richieste su flat tax, “pace fiscale” e contrasto all'immigrazione nell'agenda di governo.
Ma la palma del partito più inaffidabile spetta senz'altro al M5S, con le infinite giravolte che hanno segnato la sua rovinosa parabola politica, partita coll'entrare in parlamento per “aprirlo come una scatola di tonno” e impaludatasi nel parlamentarismo, nel carrierismo e nel trasformismo più biechi, passando da un giorno all'altro dall'alleanza col fascista, razzista e xenofobo Salvini a quella col PD (il “partito di Bibbiano”, secondo il trasformista Di Maio), per approdare infine alla corte del più famigerato rappresentante della grande finanza ultraliberista europea e internazionale: il banchiere massone che Grillo si è spinto a definire “uno di noi”, arrivando a trescare di nascosto con lui per accordarsi sui provvedimenti da approvare in parlamento.
Mollato ora da Letta - che ha abbandonato definitivamente il “campo largo” col M5S per portare avanti la stessa agenda di Draghi, e ora si rivolge verso i centristi di Tabacci, Toti, Calenda, Di Maio, i fuoriusciti da FI Gelmini, Carfagna e Brunetta e perfino Renzi - Conte sta cercando con l'ennesima disperata giravolta di riciclare ciò che resta del M5S come il “vero partito progressista”, con un'agenda “sociale e ambientalista”, con l'obiettivo di recuperare almeno in parte gli elettori di sinistra che avevano votato il M5S nel 2018 e che delusi si sono attestati sull'astensionismo, se non di occupare lo spazio a sinistra lasciato libero dal partito di Letta nel suo spostarsi sempre più a destra.
 

Conte, il M5S e il nuovo imbroglio elettorale
In un'intervista a “La Stampa” Conte si definisce “cattolico democratico di formazione e progressista convinto”, dice di guardare come interlocutori a LeU e anche a Landini e Bombardieri, e promette di “stare vicino a chi ha perso la speranza, impegnarsi per un'Italia migliore, guardare negli occhi chi ha bisogno. Ascoltare e cercare soluzioni condivise”. Il sociologo vicino al M5S, De Masi, lo incita a fare il “Mélenchon italiano”, ossia il federatore delle sinistre di opposizione. “Quella di Mélenchon – ha detto il deputato e vicepresidente del M5S Riccardo Ricciardi a “Il Fatto Quotidiano” - è una prospettiva politica molto interessante e una proposta a cui guardiamo con interesse, perché parla a chi non ha voce. La sua operazione è un punto di riferimento. Come lui, vogliamo difendere temi come la transizione ecologica, la sanità pubblica e territoriale, il lavoro”.
Sta di fatto che, mollato da Letta per aver tradito Draghi, Conte sta cercando nuovi interlocutori a sinistra del PD, come LeU (che però sembra orientato verso le più sicure liste col PD per sperare di entrare in parlamento), la nuova alleanza tra Sinistra italiana di Fratoianni e i Verdi di Bonelli, non escludendo il dialogo con la nuova Unione popolare formata da PRC, Potere al Popolo e DemA, che già gli hanno lanciato dei segnali di apertura con dichiarazioni di Maurizio Acerbo e di Luigi De Magistris.
Ma il proletariato e le masse lavoratrici e popolari italiane non hanno bisogno di nuovi inganni elettoralisti, parlamentaristi e riformisti, basati su programmi demagogici e false promesse, creati ad hoc per carpire il voto degli astensionisti di sinistra e dei sinceri anticapitalisti. Davanti al pietoso spettacolo della degenerazione del parlamentarismo borghese c'è invece bisogno più che mai di impugnare l'arma dell'astensionismo elettorale per delegittimare il capitalismo, le sue false istituzioni “democratiche” e i partiti della destra e della “sinistra” borghesi al suo servizio e per preparare il terreno alla creazione delle istituzioni rappresentative delle masse fautrici del socialismo.
L'astensionismo di sinistra cosciente e attivo - come sostiene il documento elettorale dell'Ufficio politico del PMLI - è l'arma più potente in campo elettorale, per marcare la distanza dalle marce istituzioni borghesi e assestare un colpo demolitore alla credibilità sia della destra neofascista, razzista e xenofoba, sia della “sinistra” borghese draghiana, liberista e atlantista, che infatti si rivolgono entrambe all'elettorato borghese agiato e conservatore (la cosiddetta “classe media”), mentre le masse lavoratrici disagiate, povere ed emarginate si esprimono sempre più con l'astensione, che coinvolge ormai quasi la metà degli elettori.
Perciò va respinto con decisione ogni nuovo imbroglio per riportare queste masse all'ovile elettoralista e parlamentarista. Si tratta invece di lavorare, attraverso la propaganda astensionista marxista-leninista, per fare del loro astensionismo spontaneo un voto cosciente dato al PMLI, un voto di classe contro il capitalismo, i suoi governi e partiti, e per avanzare verso la conquista del socialismo e il potere politico del proletariato. Cominciando con l'aprire una grande discussione pubblica tra tutte le forze anticapitaliste per elaborare un progetto comune per la nuova società socialista.

27 luglio 2022